Calabria ‘zona rossa’?
La gestione della sanità in Calabria, e non solo, ha mostrato i limiti e i disservizi con la diffusione della Covid, ma occorre analizzare i decenni passati per comprendere come si è arrivati a questo punto.
Questo articolo non aveva il punto interrogativo. Era stato concepito, inizialmente, come risposta immediata alle proteste del presidente facente funzioni della Regione Calabria, Antonino Spirlì, contro la decisione del governo di collocare il territorio in zona rossa. Cosa che, di fatto, è avvenuta. Ma oggi la Calabria ha di nuovo cambiato colore, non è più rossa. L’articolo, intanto, lievitava tra le mani, è diventato uno sguardo all’indietro, il recupero della memoria di una certa sanità calabrese a partire dagli anni Settanta del secolo scorso, un taglio arbitrario nella storia, certo, ma comunque un percorso cinquantennale nel corso del quale il quadro che si disegna rende quelle di Spirlì proteste utili per la competizione politica, per la dialettica Stato-Regioni, ma che risultano fragili alla luce dell’opera di sistematico saccheggio del diritto alla salute dei calabresi.
Quando, con comprensibile stizza, Spirlì reclama il diritto dei suoi conterranei a curarsi a casa loro, non avanza in sé una richiesta anomala o sbagliata. Anzi. Peccato, però, che quel diritto sia stato eroso, per decenni, dalla violenza della criminalità, la ‘ndrangheta, dalla complicità di una certa parte della società civile (amministratori, operatori sanitari, impresari ecc.), dalla miopia e/o dalla correità della politica regionale, dall’inerzia dello Stato e/o dalla sua lontananza dalle problematiche locali. A partire dal 1987, nel periodo a cavallo tra la fine del servizio sanitario nazionale così com’era stato concepito dalla riforma del 1978, ossia come erogazione di un servizio universalistico, e la riforma del 1992, targata De Lorenzo, che aziendalizzava la sanità (creando le Asl), inizia la lunga sequela di commissariamenti delle realtà sanitarie locali calabresi. La patria di Francesco Macrì, ‘Ciccio Mazzetta’ per la cronaca del tempo, cioè Taurianova, e Locri, qui si intendono le rispettive Usl, fecero da apripista, cominciarono, cioè, a tracciare il terreno di quei comportamenti illegali e indecenti che scarnificarono, dall’interno, il sistema sanitario calabrese. Il fecondo abbraccio tra ‘ndrangheta e politica locale, tra comparti politico-amministrativi e cosche mafiose, diede vita infatti, già oltre trent’anni fa, all’occupazione fisica delle Usl da parte degli uomini dei clan locali o a essi contigui, alla crescita esponenziale dei costi sanitari per farmaci o apparecchiature mediche spesso inutilizzati, alla pletora di dipendenti ben oltre le reali necessità dell’ente, al ricorso sospetto e insistito alle strutture private accreditate per trattamenti che il servizio pubblico non era in grado di erogare perché, non di rado, galleggiava nell’incuria o nel mal funzionamento, alla transumanza umana dalla Calabria verso altre regioni per la difficoltà di seguire percorsi diagnostico- terapeutici di buon livello.
Questa modalità di gestione della sanità, pur variando i contesti sanitari nazionali e le giunte regionali, è rimasta inalterata, anzi, si è ingigantita, è diventata la norma, l’ordinarietà, il dato quotidiano di aziende sanitarie che hanno finito per essere inglobate dalla criminalità organizzata. A proposito dell’Asl di Locri, indagata a seguito delle indagini relative all’omicidio nel 2005 del vice-presidente del Consiglio regionale, Francesco Fortugno, il prefetto Paola Basilone, che presiedeva la commissione di inchiesta sull’ente, ha scritto che la ‘ndrangheta si era infiltrata in modo così pervasivo da aver generato «la compromissione del regolare legittimo andamento della gestione della cosa pubblica» e che influiva in maniera così profonda sulle scelte decisionali «da non poterle ritenere più riconducibili all’autonoma e consapevole volontà dell’Azienda sanitaria». Parole esplicative e drammatiche, come si può vedere. Ma non le uniche, perché la documentazione giudiziaria, politico-amministrativa, giornalistica e sanitaria, che racconta le vicende di quei decenni, sembra ripetere con monotona insistenza la stessa, identica storia con qualche variazione non troppo significativa. A leggere quelle pagine, risulta del tutto comprensibile perché, giunti al 2010, l’intera sanità regionale venne commissariata, dopo che, nel 2006, l’Asl di Locri fu sciolta per la seconda volta, seguita, due anni dopo, da quella di Reggio Calabria, che avrebbe replicato nel 2019 insieme all’ente catanzarese, mentre, in quello stesso anno 2010, toccò all’Asl di Vibo Valentia.
Si può entrare in quelle realtà attraverso occhi differenti, siano quelli delle commissioni antimafia, siano quelli dell’autorità giudiziaria, nel caso dell’inchiesta ‘Onorata sanità’ legata all’omicidio Fortugno, o, ancora, siano quelli della commissione chiamata a verificare, nel 2008, i LEA (livelli essenziali di assistenza) delle aziende sanitarie e ospedaliere. Quanto a quest’ultima, nominata a ridosso di una serie rilevante di morti sospette per malasanità, nella relazione conclusiva tratteggiava un quadro impietoso, partendo dal presupposto che la sanità pesava sul PIL regionale in misura quasi doppia rispetto a quello di altre realtà italiane (8,77 contro i 4,66% della Lombardia) e avendo, però, una ricaduta minima sul livello qualitativo, come dimostrava non soltanto il già richiamato esodo verso altre regioni dei malati calabresi, ma anche lo stato generale di alcuni servizi essenziali. Ospedali con macchinari e senza personale, ospedali senza macchinari e senza utenti con personale sanitario regolarmente in servizio, nosocomi con reparti mancanti o del tutto carenti, strutture chiuse o derubricate ad ambulatori. Senza contare, poi, i rilievi sui curricula dei direttori generali delle Asp (ossia le aziende sanitarie provinciali) e il loro continuo, quasi compulsivo ricambio, la mancanza di un sistema integrato di comunicazioni per i casi di emergenza, «la cui soluzione è affidata all’affannosa ricerca telefonica di posti letto», il disappunto dinanzi all’inerzia con la quale si eludeva la ricerca delle responsabilità personali nei casi di decesso per malasanità.
Il giudizio finale, per voler essere sintetici, era secco e inappellabile: «la ‘metodologia’ del disservizio risulta essere l’aspetto prevalente del sistema sanitario in Calabria, mostrando sempre le stesse caratteristiche di un sistema caratterizzato da debolezza strutturale in una micidiale combinazione tra governo regionale che non riesce a imporre scelte di rinnovamento, governo aziendale troppo spesso senza capacità di gestione, degrado e inadeguatezza strutturale dei presidi sanitari, disorganizzazione amministrativa e gestionale, comportamenti professionali non adeguati, che a volte può risultare fatale, e che pregiudica le esigenze assistenziali, impedisce un efficace governo della spesa e conduce a rilevanti disavanzi finanziari di cui spesso non si conosce l’effettivo ammontare». Ecco l’altro aspetto accanto a quello dei livelli essenziali di assistenza, ossia il problema contabile. Perché, alla pari dei rilievi mossi dalle diverse relazioni sulle condizioni di degrado o di incuria o di carenza del servizio sanitario, al punto che l’allora prefetto Serra, membro di quella commissione, aveva parlato di sistema da ‘terzo mondo’, il problema finanziario delle Asp o delle aziende ospedaliere appare la costante di tutte le relazioni incontrate. La relazione Basilone, quella di Locri per intenderci, parlava di impossibilità di venire a capo del numero dei dipendenti dell’azienda provinciale, del loro ruolo; ma era tutta la materia contabile a risultare nebulosa, tanto che l’entità reale del disavanzo regionale in materia sanitaria resta, a oggi, ancora elemento di discussione.
In questa pantomima crudele, tra il sonno dei giusti e la voracità degli ingiusti, in questo sistema vilipeso e offeso dalle mani di tanti e per decenni, a restare stritolati erano e sono i cittadini che a quel sistema non si abbeverano o dal quale non traggono profitto. Magari gli anziani, magari quelli ricoverati a Villa Anya, la residenza di proprietà di Domenico Crea, medico e politico, cardine di quella rete di relazioni collusive tra politica e mafia che aveva portato alla morte di Fortugno. Quel Domenico Crea una cui intercettazione telefonica, richiamata nell’ordinanza di custodia cautelare del gip Roberto Lucisano e presente in Rete, è conosciuta come ‘decalogo dell’immoralità’, per il cinismo sprezzante con il quale Crea spiegava al suo interlocutore la gerarchia degli assessorati ricchi, la sanità in primis, da accaparrarsi e per la visione del mondo in base alla quale era cosa da idioti crogiolarsi con diecimila euro da consigliere regionale o, peggio, con gli stipendi da dipendente. «Perché quando uno è dipendente, è un povero disgraziato qualunque ruolo abbia (...). Perché si devono accontentare di 2, 3.000, 4.000 euro, questi sono gli stipendi e ‘finiu u film’ (...). Mentre se tu sei bravo, in una gestione privatistica, tu ti puoi fare 50.000 euro, 100.000 euro, non so se sono chiaro».
Chiarissimo, la gestione privatistica era quella, appunto, di Villa Anya. E il cinismo è quello con il quale l’ordinanza spiega l’atteggiamento verso i degenti, soprattutto quelli molto anziani, abbandonati, non curati o curati con prescrizioni fatte per telefono, lasciati morire per imperizia o negligenza o addirittura trasportati già morti al pronto soccorso di Melito Porto Salvo, perché in clinica non doveva risultare alcun tipo di decesso. «Il disprezzo assoluto, totale, della vita umana e del dolore della povera gente è il prodotto ultimo, il più perverso e odioso, del grumo di potere e dell’intreccio mafioso che emerge dalla vicenda di Villa Anya». Quest’ultima frase è presente nella relazione del 2008 della Commissione parlamentare di inchiesta sul fenomeno della criminalità organizzata mafiosa o similare, presieduta dall’onorevole Francesco Forgione. A distanza di anni dal commissariamento dell’Usl di Locri, nel 1987, veniva sciolta, come si è detto, l’Asl catanzarese. Tra le solite, note, quasi monotone enumerazioni dei mali dell’ente, si faceva notare come la stessa struttura fisica dell’ospedale di Lamezia Terme fosse ormai di gestione delle ‘ndrine locali, che controllavano i servizi funerari all’interno del nosocomio, che facevano attendere il personale sanitario fuori dal reparto in attesa che uomini delle cosche aprissero loro la porta, che avevano accesso ai computer e ai dati sensibili dei pazienti.
Insomma, quando Antonino Spirlì grida che i calabresi hanno diritto di curarsi in Calabria, dice una santa verità. Peccato che a non essere santa sia la sanità regionale, non in sé, ma per come è stata trattata dalla feroce disumanità di tante mani, così tante che è diventato difficile nel tempo riconoscerle tutte. Per questo, il balletto indecente dei commissari ad acta che ancora interessa l’opinione pubblica appare grottesco, diventa notizia sulla quale azzuffarsi, mentre nell’ombra resta, perché la storia ha memoria corta in questo Paese, la vicenda esemplare e drammatica dell’annichilimento del sistema sanitario regionale. In bocca al lupo a Longo, nuovo commissario ad acta , uomo affidabile, certo. Ma questa storia sfilaccia gli uomini e le loro buone intenzioni con la forza dell’inerzia, motore e comburente della storia, perché, come ha insegnato il Gattopardo, tutto cambi per restare eguale a prima. In allegato, un resoconto più disteso e dettagliato di cinquant’anni di sanità calabrese. Senza punto interrogativo.
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