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Alle origini della statalizzazione

Le origini della civiltà : Una controstoria / James C. Scott ; traduzione di Maddalena Ferrara. - Torino : Einaudi, 2019 ; prima ristampa. - XV, 259 p., [V], ril. ; 22,5 cm. - (La Biblioteca ; 40). - Tit.orig.: Against the grain. A deep history of the Earliest states. - ISBN 978-88-06-23875-9.

di Sergej - venerdì 2 agosto 2019 - 1670 letture

A volte ci azzeccano con i titoli, a volte no. A volte li traducono bene, altre volte provano a dire qualcosa che il testo probabilmente non vuole dire, o vuol dire in altro modo. Insomma, questo "Le origini della civiltà" edito da Einaudi/Mondadori ha un titolo fuorviante. In inglese il titolo originario è Against the grain. A deep history of the Earliest states, ovvero: Contro il grano: una storia cupa dei Primi Stati. Deep, proprio nel senso profondo e negativo del termine. Mentre il sottotitolo di "controstoria" sembra occhieggiare alla serie di pubblicazioni di moda oggi che mettono in discussione l’origine antica delle prime civiltà magari parlando di omini verdi e intelligenze genetiche modificate.

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Copertina del libro pubblicato da Einaudi con il titolo: Le origini della civiltà, di James C. Scott

Per fortuna il libro di Scott non parte per tangenti fantasiose, ma prova a ventilare una serie di congetture, sulla base di quel poco che sappiamo della piana alluvionale mesopotamica meridionale, tra il -4000 e il -2000. E le sue congetture sono sufficientemente credibili, tali da potersi includere all’interno dell’attenzione degli studiosi di quelle civiltà e del "periodo".

Certamente le cose dette da Scott all’interno del libro finiscono per essere a volte un po’ ripetitive. Probabilmente per esprimere ciò che Scott dice sarebbe bastato un saggio di una trentina di pagine; ma date le leggi editoriali e di diffusione delle idee, probabilmente noi non avremmo mai potuto leggerlo. La forma-libro, le circa 250 pagine assemblate, rimane il mezzo di diffusione necessario, e comunque questo è stato il mezzo che ha consentito a queste idee di Scott di arrivare fino a noi. Questo per quanto riguarda la parte destruens.

Per quanto riguarda la parte costruens del libro di Scott, vediamo quali sono le sue tesi.

Premessa. Noi oggi viviamo l’Antropocene. Ma il processo per cui gli umani hanno cominciato a modellare l’ambiente è iniziato prima: con il fuoco innanzitutto; e poi con la domesticazione di animali e del grano.

La domesticazione è una forma di controllo sulla riproduzione. Essa è stata applicata nella storia umana: sul fuoco, sulle piante e sugli animali, sugli schiavi, sulle persone assoggettate nelle città-Stato [1], e alle donne (nella famiglia patriarcale).

La sedentarietà precede di molto le prove della domesticazione di piante e animali; stanzialità e domesticazione sembrano esistere almeno 4 mila anni prima che apparisse qualcosa di simile ai villaggi agricoli. In altre parole: la domesticazione non produsse sedentarietà e agricoltura stanziale, come si credeva.

Le prime città appaiono non con la pratica dell’irrigazione e con i primi "Stati". Sedentarietà e città appaiono per l’abbondanza data dalle terre umide.

Non sempre l’agricoltura produsse benessere, tempo libero dal lavoro, nutrizione più facile. All’inizio (ma direi anche sempre) anzi agricoltura significava maggiore impegno in termini di fatica e di tempo.

Perché proprio il grano, il riso, il granturco (per le formazioni statali di Cina e Centro/Sud America)? Perché proprio queste e non altre fonti agricole, altrettanto facili da impiantare e remunerative dal punto di vista alimentare? "Propongo la tesi che i cerali abbiano caratteristiche uniche, tali da renderli quasi ovunque il principale bene tassabile, essenziale alla costruzione dello Stato antico" (pag. XII). Il grano non viene prodotto sempre, ma in un controllabile periodo dell’anno, per cui l’esattore delle tasse può andare sul campo e prendere la parte che spetta allo Stato, e il contadino non può facilmente nasconderlo. Per lo Stato invece può essere facilmente incamerato e conservato come "tesoro" o bene e non solo come nutrimento.

Nel prime città-Stato non attraevano persone per il lusso, la cultura e le opportunità che offrivano. Le città-Stato erano costrette o erano nate per trattenere la popolazione con la schiavitù.

Le città-Stato concentravano bestiame, cereali e persone in un luogo ristretto. Ciò portò a epidemie che rendevano deboli le città-Stato, e le costringevano a cercare schiavi con la forza, predando le città-Stato vicine e il territorio circostante. Giustamente Scott su questa cosa delle epidemie punta molto l’attenzione; purtroppo dal punto di vista archeologico con i mezzi (scarsi) odierni non sappiamo quanto realmente abbia inciso questo fattore su quanto è accaduto all’epoca.

Le città-Stato erano fragili, correvano facilmente il rischio di cadere e dissolversi. I "secoli bui" che seguivano non necessariamente erano epoche di degrado: "spesso" (dice Scott) "potevano segnare un vero e proprio miglioramento del benessere delle persone" (pag. XI).

Le città-Stato e le prime forme statuali apparvero all’interno di condizioni eco-climatiche ben precise: in Egitto, in Mesopotamia, in Cina: siamo ovunque in presenza di depositi alluvionali. In Mesopotamia all’epoca l’estuario era all’altezza di Nassirya e non di Bassora (come ora). Quando si guarda alle civiltà del passato occorre avere chiara anche la situazione meteo-climatica del tempo. La concentrazione delle città-Stato industriali ha determinato nel lungo periodo uno sconquasso ecologico: per far funzionare le fonderie c’era bisogno di legname, che veniva prelevato a monto dei due fiumi; la progressiva deforestazione ha provocato effetti nefasti sull’estuario, sul regime delle acque e il progressivo interramento e salinizzazione dei territori. Si cercò di ovviare con opere mastodontiche irrigue, ma la salinizzazione non fu comunque fermata. Nel lungo termine questo portò alla scomparsa di queste civiltà, ma non spiega la caducità nel corto e breve periodo di queste città-Stato. Scott mette in campo la variabile epidemica.

Nell’epoca considerata, gran parte della popolazione, non solo locale ma anche mondiale, rimasero fuori dai centri "statali". E così per millenni dopo la fondazione dei primi Stati. Tali popolazioni non accettarono mai lo Stato, non ne sentirono la necessità: evidentemente (dice Scott) stavano meglio come popoli nomado-raccoglitori. La forma Stato non è "la migliore", né quella che fa stare meglio chi vi appartiene, dice Scott.

La cinta muraria di protezione non serviva solo per difendersi dagli attacchi esterni, ma serviva per impedire ai sudditi di scappare. Ecco che lo Stato appare come appropriazione da parte di una élite guerriera di un territorio, in cui veniva stipato il bottino fatto di animali, produzione agricola e persone che diventavano sudditi e/o schiavi; per governare la riproduzione, si addestrava una casta intermedia di funzionari che utilizzavano la scrittura per contabilizzare le risorse e determinare la tassazione.

La scrittura nei primi millenni della sua nascita non serviva per comunicare ma per contabilizzare: quando lo Stato cadeva, si perdeva memoria della scrittura (come in Grecia con la Lineare B) proprio perché legata alle necessità pratiche della città-Stato. L’esaltazione delle glorie della città-Stato come fonte di ordine e civiltà avviene da funzionari di casta, sudditi dell’élite al potere. Pensare che Stato e civiltà (in senso positivo del termine) coincidano è frutto di questa mistificazione.

Al di fuori della città-Stato la vita dei "barbari" era "spesso" (dice Scott) "materialmente più facile, libera e sana della vita all’interno della civiltà, almeno per le classi non privilegiate" (pag. XI). Il termine "barbaro" per indicare ironicamente chi era fuori dalla cinta statuale; nelle civiltà cinesi si usava il termine "cotto" (chi era registrato nelle tavolette come suddito) e "crudo" (per indicare chi non era registrato come suddito).

Tra il "dentro" delle città-Stato e prime forme statuali, e il"fuori", si formava un rapporto ambivalente, di parassitismo simbiotico (diremmo). Per noi l’esempio tipico è quello tra Impero Romano e bizantino e "barbari". I barbari vengono utilizzati nell’esercito, lo Stato diventa tributario dei barbari in cambio della non-razzia di questi ultimi; i barbari consegnano schiavi allo Stato in cambio di prodotti lavorati e beni preziosi. I barbari sono il peggior nemico di se stessi: attorno al territorio presidiato dello Stato aumenta l’intensità del conflitto (si direbbe), con i barbari che razziano altri barbari più deboli ecc_. "I barbari hanno sistematicamente rifornito la base della forza lavoro dello Stato con lo schiavismo, lo hanno protetto dalle incursioni e hanno contribuito alla sua espansione con i propri servigi militari - e in questo modo si sono scavati la fossa da soli" (pag. 209).

Giustamente Scott osserva come il suo progetto di studi "non intende essere originale: non crea nuova conoscenza ma vuole, al massimo, "unire i puntini" della conoscenza che già esiste" (pag. X). Il libro di Scott è nell’insieme un libro pieno di idee e considerazioni interessanti, tali da coinvolgere non solo lo specialista di questioni mesopotamiche, ma anche chi più vastamente si interesse dei problemi politici legati a ciò che è Stato. Scott, da prospettive anarchiche, ce l’ha a morte contro questa forma di asservimento dell’umanità. Il problema rimane su quale forma organizzativa riesce a gestire la violenza e il sopruso, che sembrano essere una costante della preistoria e della storia umana: nella descrizione idilliaca del mondo dei nomadi-raccoglitori (che pure conoscono agricoltura e allevamento ma non danno a questa forma di riproduzione prevalenza) che ne fa Scott, non si tiene conto della realtà di quel mondo in cui ogni incontro era uno scontro all’ultimo sangue tra umani. È il discorso normativo (liberale, alla Norberto Bobbio) per cui lo Stato diventa esclusivo detentore della violenza "in cambio" della sicurezza del cittadino-suddito, sfaccettato (nella lettura marxista) nell’inestinguibile e permanente lotta di classe. Ma su questo interrogativo lascio spazio ai lettori di continuare l’indagine.


Sinossi del libro

La maggior parte della gente crede che la domesticazione degli animali e la coltivazione abbiano alla fine permesso agli esseri umani di stabilirsi, formando villaggi, città e stati agrari, rendendo così possibile la civiltà, la legge, l’ordine pubblico e un modo di vivere presumibilmente sicuro. Tuttavia le prove archeologiche e storiche mettono in discussione questa narrazione. I primi stati agrari nacquero da un accumulo di domesticazioni: prima del fuoco, poi delle piante, del bestiame, ma anche delle persone assoggettate allo stato, dei prigionieri e infine delle donne all’interno della famiglia patriarcale, tutti elementi che possono essere considerati un modo per ottenere il controllo sulla riproduzione.

James C. Scott analizza il motivo per cui per un periodo l’uomo evitò la sedentarietà e l’agricoltura con l’aratro, sfruttando i vantaggi della sussistenza mobile; considera le epidemie di malattie imprevedibili derivate dalla concentrazione di piante, animali domestici, granaglie; e spiega perché tutti i primi stati si basarono su miglio, cereali e schiavismo. Affrontando infine il tema della vita al di fuori dello stato, la vita dei «barbari», spesso più facile, libera e sana di quella all’interno della civiltà.

Come e perché gli uomini smisero di essere cacciatori e raccoglitori per dare vita a comunità sedentarie dipendenti dal bestiame e dai cereali? Come e perché si formarono le prime organizzazioni statali? Il provocatorio racconto della nascita della civiltà, che demolisce molti luoghi comuni.

«Un’acuta visione del più importante cambiamento nella storia dell’umanità prima della rivoluzione industriale. Così andrebbe scritta la storia». «The Guardian»


L’autore

scott_hqdefault James C. Scott insegna Scienze politiche alla Yale University, dove è codirettore dell’Agrarian Studies Program. Tra i suoi libri ricordiamo Seeing Like a State. How Certain Schemes to Improve the Human Condition Have Failed (1998), The Art of Not Being Governed. An Anarchist History of Upland Southeast Asia (2009) e, tradotti in italiano, Il dominio e l’arte della resistenza. I «verbali segreti» dietro la storia ufficiale (Elèuthera, 2006) ed Elogio dell’anarchismo. Saggi sulla disobbedienza, l’insubordinazione e l’autonomia (Elèuthera, 2014). Per Einaudi ha pubblicato Le origini della civiltà. Una controstoria (2018).


[1] Può rivenirsi fastidioso il fatto che si sia voluto nell’edizione italiana scrivere "stato" con la esse minuscola e non come normalmente Stato. Forse per dire che non si tratta per l’epoca di formazioni statuali avanzate come potevano essere gli Stati europei del XVI secolo. Ma la scelta è incongrua: l’italiano "stato" si confonde troppo facilmente, per questo viene usata la forma con la esse maiuscola.


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