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Aborto:4/ La tutela della madre

Nell’affermare il diritto alla vita del concepito, il giudice delle leggi non dimenticava la tutela della madre, indicando la strada di un equilibrato contemperamento.

di Giuseppe Artino Innaria - martedì 8 aprile 2008 - 3459 letture

Riconoscere che la tutela della vita del concepito ha un fondamento costituzionale non equivale ad obliterare che “l’interesse costituzionalmente protetto relativo al concepito può venire in collisione con altri beni che godano pur essi di tutela costituzionale e che, di conseguenza, la legge non può dare al primo una prevalenza totale ed assoluta, negando ai secondi adeguata protezione”: la capitale sentenza n. 27 del 1975 della Corte Costituzionale non si limitò alla appena esposta constatazione, ma si spinse oltre fino al punto di affermare che “non esiste equivalenza fra il diritto non solo alla vita ma anche alla salute di chi è già persona, come la madre, e la salvaguardia dell’embrione che persona deve ancora diventare”. Su tale presupposto, la Corte Costituzionale dichiarò la illegittimità costituzionale dell’art. 546 c.p., che puniva chi cagionava l’aborto di donna consenziente, nella parte in cui non prevedeva che la gravidanza potesse venire interrotta quando l’ulteriore gestazione implicasse danno, o pericolo, grave, medicalmente accertato e non altrimenti evitabile, per la salute della madre.

Nell’affermare il diritto alla vita del concepito, il giudice delle leggi non dimenticava la tutela della madre, indicando la strada di un equilibrato contemperamento: in ogni caso, esimere da pena chi procurava l’aborto e la donna consenziente, nella ricorrenza di uno stato di necessità derivante dal pericolo per la salute della gestante, non escludeva che l’intervento dovesse essere operato in modo da salvare, ove possibile, la vita del feto, e soprattutto imponeva che il legislatore predisponesse le cautele necessarie per impedire che l’aborto venisse procurato senza serii accertamenti sulla realtà e gravità del danno o pericolo che avrebbero potuto derivare alla madre dal proseguire la gestazione, condizionando la liceità dell’aborto alla previa valutazione della sussistenza delle condizioni atte a giustificarla.

Il legislatore del 1978 si è mosso nel solco tracciato dalla Corte Costituzionale. La legge 194 statuisce che l’interruzione volontaria è possibile, nei primi novanta giorni della gravidanza, solo qualora la donna “accusi circostanze per le quali la prosecuzione della gravidanza, il parto o la maternità comporterebbero un serio pericolo per la sua salute fisica o psichica, in relazione o al suo stato di salute, o alle sue condizioni economiche, o sociali o familiari, o alle circostanze in cui è avvenuto il concepimento, o a previsioni di anomalie o malformazioni del concepito” (art. 4); dopo i novanta giorni, quando la gravidanza o il parto comportino un grave pericolo per la vita della donna o siano accertati processi patologici, tra cui quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro, che determinino un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna (art. 6); quando sussiste la possibilità di vita autonoma del feto, l’interruzione della gravidanza può essere praticata solo nel caso di grave pericolo per la vita della donna e il medico che esegue l’intervento deve adottare ogni misura idonea a salvaguardare la vita del feto (art. 7). Gli artt. 5, 7, 8, 11, 12, 13 e 14 disciplinano le procedure e gli accertamenti mediante i quali è consentito praticare l’intervento abortivo, previa verifica della sussistenza delle condizioni previste dalla legge per attuarlo e con tassatività delle sedi ove può essere praticato.

Come acutamente intuito nella sentenza n. 35 del 1997 della Corte Costituzionale, il legislatore ha volutamente evitato di sottoporre la disciplina della interruzione volontaria della gravidanza ad un “regime di totale libera disponibilità da parte della singola gestante” e ciò “anche in ordine alla sorte degli interessi costituzionalmente rilevanti in essa coinvolti”. Della legge 194, prosegue la Corte Costituzionale, non è possibile toccare “quel nucleo di disposizioni che attengono alla protezione della vita del concepito quando non siano presenti esigenze di salute o di vita della madre, nonché quel complesso di disposizioni che attengono alla protezione della donna gestante: della donna adulta come della donna minore di età, della donna in condizioni di gravidanza infratrimestrale come della donna in condizioni di gravidanza più avanzata”, al punto che la legge 194 va, addirittura, annoverata tra le “leggi ordinarie a contenuto costituzionalmente vincolato”.

L’insegnamento della Corte Costituzionale permette di attribuire rango costituzionale non solo alla protezione del concepito, ma anche, ed anzi in misura per certi versi preponderante, alla tutela della salute fisica e psichica della madre, unico valore che appare in grado di giustificare il sacrificio del diritto alla vita del nascituro.

(4-continua)


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