Quella mattina ero a Palermo
Il 29 luglio 1983 la mafia uccideva Rocco Chinnici.
Quella mattina un tuono fortissimo scosse tutta la città. Eravamo impegnati in un’assemblea sindacale. Ci guardammo preoccupati e decidemmo di capire la provenienza di quel tuono. Era al centro di Palermo. Sembrava invece Beiurt. Era il 29 luglio 1983. Un’autobomba era esplosa facendo a pezzi il magistrato Rocco Chinnici, i carabinieri Mario Trapassi e Edoardo Bartolotta, il portiere dello stabile Stefano Li Sacchi.
Si scoprì poi che i mandanti erano gli esattori e cugini Ignazio e Nino Salvo, gli esecutori Brusca, che guidò l’auto-bomba, e Antonino Madonia che posizionarono la 126 imbottita di tritolo davanti al portone di via Pipitone Federico a Palermo.
La giustizia impiegò vent’anni per emettere una sentenza definitiva. A Messina si celebrò un "pezzo" di quel processo e le conclusioni finali non resero giustizia a Chinnici e alle vittime.
Quel 29 luglio ero a Palermo. Un boato impressionante nel mezzo di un’assemblea sindacale. La scena della strage. Indimenticabile e straziante.
La guerra durò per altri dieci anni. Decine di morti sino alle stragi di Falcone e Borsellino. Con la complicità e l’impotenza di pezzi dello stato. Molti pezzi dello Stato che poi si sarebbero schierati con l’antimafia. Oggi è il 29 luglio. Lo Stato, lo Stato chissà.
- Strage Chinnici
Rocco Chinnici nacque a Misilmeri, nelle campagne intorno a Palermo, il 19 gennaio 1925
In un passo della relazione svolta per un incontro organizzato dal Consiglio Superiore nel 1982 dal titolo Riflessioni ed esperienze sul fenomeno mafioso osserverà: “La lotta alla mafia deve partire dagli aspetti morfologici del fenomeno: contro l’infiltrazione mafiosa è necessario l’avvio di un processo di disinquinamento seguendo i principi di una bonifica sociale. Occorre, infatti, prendere atto che la mafia svolge nella società un ruolo di un istituzione, amministrando il proprio potere al fine di garantirsi sempre più diffusi e radicati inserimenti ed un costante reclutamento; la mafia non recluta solo nelle carceri ma dovunque si ponga ai giovani la scelta fra l’emarginazione e il prestigio, il ruolo sociale, il denaro facile, la carriere ed il successo – pur con gli enormi rischi connessi – del mafioso. Tagliare le basi sociali del reclutamento significa recidere le radici stesse dell’organizzazione...”
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