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Quando è lo Stato a essere illegale

Lo Stato illegale. Mafia e politica da Portella della Ginestra a oggi / G.C. Caselli, G. Lo Forte. - Laterza, 2020.

di francoplat - mercoledì 23 giugno 2021 - 2470 letture

Una poderosa opera di educazione civica, in questi ultimi decenni, giunge dalla magistratura italiana. Ciò attraverso la pubblicazione di opere militanti, fiorite nella cornice del rilievo assunto dall’apparato giudiziario e dai suoi protagonisti non senza durissimi scontri con gli altri poteri costituzionali e non senza divergenze con gli stessi membri del mondo togato.

Davigo, Di Lello, Ardita, Ingroia, Gratteri e altri pubblici ministeri hanno raccontato, filtrandole dal loro peculiare osservatorio, le vicende pluridecennali di un Paese in crisi civica, graffiato da fenomeni noti quali la corruzione e il peso crescente delle mafie. Sarebbe, di per sé, interessante analizzare con una certa attenzione questo corpus editoriale, per capire, ad esempio, eventuali correlazioni tra l’aumento delle pubblicazioni e le vicende politico-giudiziarie coeve o le tipologie di vicende dibattute in tali opere e l’interrarsi o meno di quei fenomeni. O, ancora, in che misura tali pubblicazioni siano state funzionali al conflitto tra poteri dello Stato.

Non è questa, però, la sede per affrontare un’analisi di questo tipo. Qui, si intende curiosare e comprendere una di queste opere, scritta a quattro mani da due magistrati, Caselli e Lo Forte, già autori di un volume pubblicato nel 2018 per la stessa casa editrice, «La verità sul caso Andreotti».

Sin dal titolo, «Lo Stato illegale» dichiara la tesi di fondo, porge al lettore una prospettiva netta e priva di tentennamenti, ossia l’idea in base alla quale «la mafia siciliana (come le altre) non è tanto il prodotto di una mentalità arcaica e/o di un’arretratezza economica e culturale, quanto piuttosto l’esito di una precisa caratteristica della società e dello Stato che determina una irresistibile attrazione reciproca». L’intero volume è volto ad argomentare questa reciproca attrazione, a precisare come la longevità del fenomeno mafioso non sia tanto dovuto a fattori interni a Cosa nostra, alla sua struttura militare e alla sua stessa solidità normativa, per quanto si tratti di norme di un anti-Stato. Per Caselli e Lo Forte, la forza della mafia risiede «anche e soprattutto nelle “relazioni esterne”, cioè nelle laide connivenze o complicità e nelle vili coperture di cui essa gode – strutturalmente – in pezzi consistenti del mondo legale».

In un testo caratterizzato da una struttura concettuale non sempre lineare e compatta – come testimonia una certa discontinuità logica del succedersi dei capitoli – e talvolta gravato dal peso di qualche tecnicismo giuridico non sempre alla portata dei non addetti ai lavori, gli autori riescono, comunque, a risultare convincenti. Raggiungono, cioè, l’obiettivo, quello di consegnare ai lettori uno spaccato delle vicende nostrane in cui i legami tra mafie e società civile, tra organizzazioni criminali e parti dello Stato, appaiono con una certa evidenza e validate da sentenze ormai definitive.

Per quanto il sottotitolo faccia riferimento a un arco cronologico che si muove all’interno della storia repubblicana, in realtà, già nell’introduzione, Caselli e Lo Forte retrodatano lo sguardo sui meccanismi perversi che, fin dall’Unità, hanno portato parte dei ceti dirigenti italiani a costruire relazioni pericolose con i poteri criminali. Evocano, così, accadimenti lontani: dal disappunto nel 1901 del questore di Palermo, Ermanno Sangiorgi, dinanzi al fallimento di un processo fondato su un testimone della portata di Buscetta, a detta degli autori, e commentato laconicamente, «non poteva essere diversamente, se quelli che denunziavano [i mafiosi] la sera, andavano a difenderli la mattina», all’eclatante caso del marchese Emanuele Notarbartolo, nel 1893, ucciso su un treno tra Termini Imerese e Palermo. Primo omicidio eccellente nella storia unitaria, questo, che vide coinvolto in qualità di mandante l’onorevole Raffaele Palizzolo, prima condannato a trent’anni e poi assolto in Cassazione e accolto in Sicilia con tutti gli onori. Delitto al quale viene accostato, negli anni repubblicani, quello di Piersanti Mattarella, per l’inossidabile rapporto mafia-politica presente in entrambe le vicende.

Incentrata soprattutto su Cosa nostra, l’opera non si avvale, dichiaratamente, degli strumenti e della metodologia storiografica, per quanto si riferisca a vicende, come si è detto, più o meno lontane nel tempo. I grandi temi politici, culturali, sociali, economici restano sullo sfondo, lasciando spazio a una ricostruzione interna al mondo giudiziario, condotta attraverso il riferimento a fonti elaborate nel corso degli infiniti processi che hanno attraversato la nostra storia nazionale. I due magistrati recintano consapevolmente il territorio, non senza cercare sponde analitiche in storiografi quali John Dickie, Paul Ginsborg, Salvatore Lupo, Enzo Ciconte, e affrontano da subito la questione dei processi politici della Procura di Palermo: Andreotti, Mannino, Dell’Utri, Carnevale. Non a caso, il primo capitolo apre una finestra su queste vicende giudiziarie. Non soltanto per l’importanza dei protagonisti, non soltanto per rettificare quanto, nell’opinione comune, si è sedimentato a proposito del processo ad Andreotti, ossia la presunta assoluzione del leader politico a fronte, invece, di una condanna prescritta, non soltanto per rinvenire elementi di continuità fra la storia di ieri e quella più recente, ma anche per evidenziare gli attacchi strumentali subiti dalla Procura di Palermo dopo il 1992. In parole povere, gli attacchi subiti anche dai due autori.

Si è detto, è un’opera militante e come tale va intesa, come un pamphlet, non rancoroso, ma vibrante, percorso da una vena polemica mai fuori misura, schierato e in modo aperto, esplicito. Attraverso l’evocazione dei fatti legati alla morte nebbiosa di Salvatore Giuliano, di Peppino Impastato, connessi alla vicenda del golpe Borghese, alla morte di Enrico Mattei, alle stragi del ’92 e ’93, sino a giungere alla “trattativa”, Caselli e Lo Forte intendono mostrare in azione, così come si evince dalle fonti giudiziarie, il cosiddetto «poli-partito della mafia», secondo la definizione che ne diede il generale dalla Chiesa in un colloquio con Spadolini. Un reticolo di accordi tra mondi differenti, capace di depistare, di inquinare, di correggere, di far scendere il silenzio, talvolta aggredendo e delegittimando l’operato dei giudici, con la finalità di preservare i blocchi di potere consolidati, attraverso un’operazione di riduzionismo/negazionismo dei rapporti mafia-politica.

«Lo Stato illegale» è un’opera militante e ideologica, che trova il suo perno ideale nel concetto di democrazia, assunto quale valore fondante di uno Stato civile. Se democratico è un Paese in cui i difficili equilibri fra i poteri dello Stato non subiscono urti e condizionamenti in una qualche direzione, in cui l’opinione pubblica è formata e informata adeguatamente sulle vicende che toccano da vicino la tutela dei diritti collettivi e individuali, in cui la ricerca delle verità è un obiettivo condiviso a tutti i livelli dell’impalcatura costituzionale, in cui la scelta di campo tra legale e illegale è nettamente demarcata, allora, questo volume sottolinea il profondo deficit democratico italiano. Proprio a partire dalla mistificazione del fenomeno mafioso, dal suo pluridecennale essere ricondotto a un semplice problema localistico, di mero accaparramento di risorse economiche.

Molto, c’è molto di più, dichiarano per tutto il volume Caselli e Lo Forte. Echeggiano, tra le pagine, la tumpulata, il ceffone, che Stefano Bontate diede ad Andreotti, in occasione di un incontro nel quale l’onorevole chiese conto dell’omicidio dello scomodo Mattarella – «a Roma comandi tu, qua a Palermo comandiamo noialtri» - e la figura fluida di Antonio Subranni, da quando, comandante del reparto operativo dei Carabinieri di Palermo, accreditò senza alcun tentennamento la morte suicida di Impastato del maggio 1978 a quando, anni dopo, fu tra i protagonisti della trattativa. Così come compare, fra le righe di un discorso captato da un’intercettazione ambientale, Marcello Dell’Utri, a cui gli uomini d’onore cercavano di consentire l’accesso al Parlamento europeo nel 1999, proprio quando era imputato al processo innanzi il Tribunale di Palermo con l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa. «’Dobbiamo portare a Dell’Utri’, perché altrimenti ‘lo fottono’, e se invece viene eletto ‘non lo tocca più nessuno’».

C’è anche quell’atteggiamento di netto arretramento del contrasto alle mafie che gli autori, protagonisti della stagione successiva alle stragi del 1992 e di cui rivendicano i grandi successi, condannano. A partire dalla seconda metà degli anni Novanta, una sorta di disimpegno, da un lato, e di sotterranea disarticolazione degli strumenti investigativi e giudiziari (collaboratori di giustizia, intercettazioni, ergastolo ostativo), dall’altro, sembrano essere diventati gli aspetti qualificanti dello Stato italiano davanti al fenomeno mafioso. I due magistrati lo affermano in modo deciso: «mentre si intensifica il fragore delle insinuazioni e delle accuse contro i magistrati della Procura di Palermo, comincia a scendere il silenzio sulla mafia, che cessa di essere un’emergenza (tant’è che figura in proclami più o meno retorici, ma di fatto sparisce dalle “agende”)».

Un silenzio cavalcato dai mafiosi per riparare il “giocattolo rotto”, per ripristinare ciò che era stato sfilacciato dall’azione degli investigatori e degli inquirenti. Una mafia che si inabissa, sostengono Caselli e Lo Forte, a partire dal Duemila, che si mimetizza, che evita le azioni delittuose per non suscitare allarme sociale e per evitare una nuova ondata repressiva.

A questa nuova mafia, inserita nel contesto della globalizzazione, i due magistrati dedicano l’ultimo capitolo, suggerendone le linee di tendenza, ossia meno violenza e più impresa, con la collaborazione di colletti bianchi e professionisti capaci e con una straordinaria capacità di inquinare l’economia legale a livello internazionale. La sintesi di questa nuova cultura mafiosa può ritrovarsi in un’osservazione anch’essa proveniente da un’intercettazione della Dna sul ruolo delle mafie nel settore del gioco d’azzardo online: «non mi interessano quelli che fanno bambam per le strade – dice un criminale all’altro – ma quelli che fanno pin pin sulla tastiera». È la mafia 3.0.

Tuttavia, almeno per quanto riguarda la nostra penisola, gli scenari futuri non sono affatto prevedibili. Gli autori sostengono, infatti, che, nonostante la normalizzazione di Cosa nostra e il suo inabissamento, l’evoluzione futura si presta a ipotesi incerte e contraddittorie. «Dal mantenimento dell’attuale politica di “coesistenza” [con lo Stato] alla tentazione della riaffermazione di un potere egemonico sull’economia e sulla società […]; dall’aggravamento dei fattori di instabilità interna a una crisi profonda e irreversibile dell’organizzazione».

In quest’ultimo caso, però, ci sarebbe bisogno di una decisa inversione delle tendenze prevalse negli ultimi anni. Bisognerebbe, finalmente, vedere la volontà di affrontare e risolvere «una volta per sempre il nodo delle “relazioni esterne” di Cosa nostra. Nodo di compiacenze, collusioni, complicità e coperture che sono il codice genetico del poli-partito».

Seguendo l’atmosfera dell’intero volume, acquisendo i sentimenti che muovono i due autori pagina dopo pagina, sembra che una sorta di scetticismo si depositi su quest’ultima considerazione. Come se Caselli e Lo Forte credessero solo parzialmente alla possibilità di vedere in atto una lotta decisa e senza ambiguità ai poteri mafiosi da parte dello Stato. Uno Stato in cui, ricordano i due magistrati all’inizio, è singolare e paradossale il fatto che a essere rivoluzionaria sia la figura delle vittime di mafia, in quanto portatrice di legalità.



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