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Partenza e spartenza (3)

"In mezzo scorre il fiume... e si rimane a guardare scorrere in esso tutti gli eventi che hanno caratterizzato e segnato la nostra esistenza di prima e quella di dopo..."

di enza - venerdì 5 dicembre 2008 - 5298 letture

Vorrei continuare a scrivere della mia partenza dalla Sicilia, l’abbandono della casa nativa di via Garibaldi, ma mi fa troppo male ricordare quei giorni. Dentro di me c’è un solco, un lungo spartiacque che non riesco ad attraversare. Da una parte c’è la Sicilia, la casa, il focolare, la certezza, il nido che mi da sicurezza, gli affetti e dall’altra l’Africa, l’avventura, i grandi spazi, le esperienze multietniche, il mio animo e la mia mente che si allargano, si allargano e, conoscendo tutte le razze umane, le recepiscono e le fanno sue. Ma questo solco dentro di me, fra la mia natura siciliana e quella multietnica africana, non riesco a colmarlo, non riesco a collegare, l’una all’altra, le mie due diverse nature, se non a costo di una grande sofferenza; mi sento sospesa e divisa fra due mondi, l’uno completamente diverso dall’altro.

Le mie due nature, così diverse e a volte così distanti, sono separate da un fiume che non riesco ad attraversare per raggiungere l’una o l’altra sponda; non riesco, malgrado a volte ci provi con tutta me stessa, a costruire un ponte che congiunga in modo armonico e naturale le due sponde di questo fiume. E ’ proprio il caso di dire: in mezzo scorre il fiume; su una sponda c’è la bambina siciliana costretta, in un certo senso, a lasciare la sua terra, un pò come quando si viene svegliati all’improvviso e qualcuno ti dice" Sbrighiamoci, è tardi, è ora di andare" e tu ti muovi, ancora assonnata, senza sapere dove si stia andando e per quale motivo bisogna andare; sull’altra sponda c’è una bambina africana dalla pelle bianca che non riesce a dire all’altra "vieni qui da me, ti farò scoprire un mondo fantastico".

In mezzo scorre il fiume.... e si rimane a guardare scorrere in esso tutti gli eventi che hanno caratterizzato e segnato la nostra esistenza di prima e quella di dopo. A volte, nello sforzo di costruire questo ponte, cerco delle analogie fra l’uno e l’altro mondo. Sì, la flora della Sicilia, in un certo senso, è un pò come quella africana: queste euforbie che svettano verso il cielo, maestose e distanti, gli eucalipti, le bouganvillee e gli ibiscus, i fichi d’ India... i visi bruni di araba memoria, i capelli neri e ricci di alcuni di noi siciliani. Ma non basta, le tappe della mia vita devo percorrerle fino in fondo per cercare di dare un senso a tutto o almeno accettarle, come scotto di questo inevitabile percorso, un calice da bere fino in fondo per ritrovare me stessa.

Ritorno indietro nel tempo, la mattina in cui partiamo, lasciando definitivamente, o almeno per molti anni, la nostra terra, tutto ciò che per noi é stato affetto, usanza e a volte anche dolore. Sono seduta in macchina, mentre don Orazio guida, scambiando di tanto in tanto qualche parola con mio padre; non riesco neanche a sentire quello che dicono, perché la mia mente è lontana; mi sento così misera e sperduta nel mio vestitino rosa. A memoria ripercorro la piccola persona che si nasconde sotto questi vestiti della festa, mi sento quasi nuda sotto di essi, con la pelle candida, stretta nelle mie spallucce di bambina con i piccoli piedi un pò infreddoliti, stretti nelle scarpette bianche, che quasi non mi appartengono. All’improvviso non ho più voglia di partire. Quello che prima era un vago, lontano dubbio ora è certezza: non voglio più partire.

Seduta composta e distante, con un pò di tristezza vedo il paesaggio sfilare lungo la litoranea che ci sta portando a Siracusa. La giornata è piena di sole, un sole che splende in un cielo azzurro e luminoso, tanto da poter pensare che sia quasi primavera, anche se siamo in pieno inverno. Il vento del giorno prima sembra solo un lontano ricordo o forse ce lo siamo solo immaginato, presi come eravamo dal turbinio dei nostri pensieri. L’automobile procede ad andatura moderata lungo la costa, quella costa che tante volte ho osservato distrattamente o solo di sfuggita, come di solito si osservano le cose note, quelle che conosciamo a memoria, ma stavolta non mi sfugge il bel colore verde turchese del mare Ionio, mare sereno e riposante nelle cui acque ho spesso sguazzato, pur essendo alquanto maldestra nel nuoto, e le onde leggere che s’infrangono sulle rocce all’altezza di Scala Greca, ovvero all’entrata di Siracusa. Splash.....splash...splash...il mare non sa o forse sa e continua il suo lamento ritmico, adeguandosi alle alterne vicende umane.

Spuma leggera, bianca, azzurra, verde, dorata, odori acri, dolci e salati della mia terra di Sicilia che mi vede partire senza dirmi niente, rifiutandomi come un piccolo misero relitto, espellendomi come un misero fagottello inutile verso l’ignoto, senza rendersi conto del mio piccolo cuore che batte e del mio cervello che pensa, che vive. Mi distraggo ed il mare scompare dietro il piccolo promontorio di Scala Greca; la città ci accoglie assordante, vitale e distratta. Poi c’è un buco di alcune ore nella mia memoria... forse siamo andati a salutare i cugini di Filippina: Laura e Sandro, brutti, grassi ed occhialuti, ma affascinanti ai miei occhi di bambina, perchè incarnano l’immagine delle persone che vivono in città. Partiamo dalla stazione centrale di Siracusa subito dopo pranzo. C’è tutto un gran via vai di valigie, alcune di cartone legate con lo spago, persone che salgono, che scendono, gente che frettolosa occupa i posti, persone che gridano, che chiacchierano, fanno le ultime raccomandazioni e poi si parte fra il fischio del treno, l’odore di ferro e di fumo, i fazzoletti che sventolano, i finestrini che si abbassano e poi si rialzano. L’ultimo viso che vedo è quello di zio Peppino, il fratello più grande di mia madre, il patriarca che in un rito sempre uguale, è quello incaricato di accompagnare i parenti che partono.

Il treno prende velocità e torniamo ai nostri posti. Ritorniamo a vedere di nuovo il mare e le sue calme, dolci onde. Il treno corre lungo la costa che da Siracusa va verso Catania, ogni tanto fischia e sbuffa; c’è un punto in cui le rotaie e la strada corrono parallele e tante volte i parenti, correndo in macchina sulla litoranea, fanno quasi una gara di velocità col treno, per scambiarsi, alcuni composti, altri urlanti e piangenti, in un grande sventolio di fazzoletti bianchi, ancora un ultimo saluto. Mi avvicino piena di speranza al finestrino, ma la macchina di don Orazio non si vede. Forse è meglio così !!. Il treno corre, inghiottendo nella sua insensata corsa, paesi, spiagge dorate e solitarie, giardini con limoni e arance luccicanti al sole, alberi, facce arse dal sole che salutano, scenari che diventano nella corsa quasi irreali. Tutto appare e scompare inghiottito dal treno in corsa e dal vento.

C’è una immagine che rimane nitida e scolpita nella mia mente e che mi accompagnerà tutta la vita. Il sole sta ormai per tramontare, tuffandosi nel mare Ionio. E’ l’ora del crepuscolo, quando il cuore si fa un pò più triste, rimpiangendo tutto ciò che abbiamo o non abbiamo fatto durante il giorno e si aspetta ansiosi l’arrivo della sera, la sua quiete, il riposo e la speranza del nuovo giorno. Il treno ad un certo punto, vicino ad un paese lungo la costa, forse Giardini di Taormina, ora di Naxos, rallenta. Dal finestrino vedo il sagrato di una chiesa e bambini intenti a giocare a palla; più in là, una coppietta passeggia mano nella mano, mentre il sole di un vivido arancio si tuffa nel mare e tutto intorno si vedono, scuri, i profili delle case e degli alberi che si stagliano contro il cielo infuocato. Mi assale una profonda tristezza: con questa immagine che man mano si allontana anche io vengo strappata ai miei giochi ed alla mia terra di Sicilia.


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