Maria Chindamo e il fetore degli “uomini d’onore”
Non sempre una donna è uccisa da un ex marito, da un ex compagno o da un amante occasionale, lasciato e carico di tutta la rabbia del maschio abbandonato. Accade, a volte, che una donna venga uccisa dalla mafia, magari quella calabrese, quella che, secondo la vulgata e come le altre consorterie criminali, una volta era buona e, ora, è divenuta cattiva
Che la mafia, anzi, che le mafie buone non lo siano mai state, è un fatto ormai assodato, soprattutto per chi non ha bisogno di rimpiangere i bei tempi andati. Che la ‘ndrangheta sia un’associazione criminale che vive sulla violenza esplicitata e su quella solo accennata, è un altro fatto incontestabile. In questi giorni, tra le vicende da ascrivere al tema del fenomeno mafioso, assume un qualche rilievo la notizia relativa a una donna, Maria Chindamo, scomparsa il 6 maggio 2016, dalla sua azienda agricola di Montalto di Limbadi, in provincia di Vibo Valentia. Aveva 44 anni, Maria, e tre figli, Vincenzino, Federica e Letizia – all’epoca dei fatti solo il primo era maggiorenne –, scomparve alle 7 del mattino, la sua auto fu trovata con lo sportello aperto e il motore ancora acceso, il sangue era presente ovunque, segno evidente che aveva cercato di difendersi; della donna, però, nessuna traccia.
A distanza di sette anni e più, nel contesto di una vasta operazione antimafia denominata “Maestrale-Carthago”, coda di un’indagine (“Maestrale 1”) che aveva portato nel maggio scorso le forze dell’ordine a disarticolare i sodalizi di ‘ndrangheta di Mileto e Zungri, la verità su Maria è affiorata, portando alla superficie una possibile verità giudiziaria che ribadisce, una volta di più, l’orrore che scaturisce dalla cultura mafiosa, che rende sempre valida la nota affermazione di Peppino Impastato: «la mafia è una montagna di merda».
Forse, nella cornice di quell’inchiesta e dati i nomi importanti e i molteplici reati annessi all’indagine, la figura di Maria Chindamo resta un po’ sullo sfondo, se non per alcuni particolari truculenti ai quali si farà riferimento dopo. Eppure, la sua vicenda pare significativa, emblematica di una certa visione della realtà, di un modo di intendere le relazioni umane, la percezione del ruolo della donna nella società, l’avidità degli interessi personali. Stando alle parole del fratello di Maria, Vincenzo, la sorella, cresciuta in un ambiente influenzato dalla cultura mafiosa, era in realtà una donna «che amava fare le sue scelte, essere libera». Si era sposata, poi, come capita, aveva provato sentimenti per un altro uomo e deciso di interrompere il matrimonio. Il marito non aveva, forse, retto la decisione e si era suicidato nel maggio 2015. Un anno dopo, Maria scomparve.
È lo stesso Procuratore capo di Catanzaro, Nicola Gratteri, a raccontare la vicenda che riguarda la Chindamo, a precisare ulteriormente quanto affermato dal congiunto della donna. Per inciso, è lui a guidare l’indagine, coordinata dalla Dda di Catanzaro, che ha dispiegato circa 600 uomini delle forze dell’ordine e disposto 84 ordini di misura cautelare per diversi soggetti tra ‘ndranghetisti e personaggi più o meno noti vicini alle cosche e sui quali si tornerà in seguito. Nel corso della conferenza stampa, Gratteri, a proposito dell’omicidio Chindamo, ha osservato: «non le è stata perdonata la sua libertà, la gestione dei terreni avuti in eredità e su cui c’erano gli appetiti di una famiglia di ‘ndrangheta e il suo nuovo amore». La colpa di Maria, ha aggiunto, è stata quella di «aver pensato di diventare imprenditrice, di curare gli interessi della terra e dei suoi figli e si è pure iscritta all’università».
Conosce bene, Gratteri, la cultura della regione in cui è nato e in cui opera come magistrato. E l’aggiunta finale, relativa all’iscrizione accademica della donna, non è affatto casuale. Una donna imprenditrice e, per giunta, studentessa universitaria è troppo per la capacità di sopportazione ‘ndranghetista. Magari non è il caso di fare della facile ironia, magari altro c’è dietro la morte di questa donna, anche altro. Tuttavia, stando alle ipotesi degli inquirenti, la fine di Maria Chindamo rientra in questa doppia causale: l’oltraggio del nuovo compagno – è scomparsa due giorni dopo essersi presentata in pubblico con lui – e il desiderio di appropriarsi delle sue terre da parte di Salvatore Ascone, vicino alla cosca dei Mancuso di Limbadi.
Si torni alle parole di Gratteri, al suo racconto, condito di particolari che fanno inorridire, particolari relativi alle modalità dell’assassinio. «La sua uccisione è stata straziante. Oltre ad essere data in pasto ai maiali, i suoi resti sono stati triturati con un trattore cingolato. Questo dà il senso e la misura della rabbia, della brutalità e del risentimento che chi ha ordinato l’omicidio aveva nei suoi confronti».
Ecco, è anche questo la violenza mafiosa. Non è una novità, i lettori, avveduti o meno, sanno che un’altra organizzazione violenta ha fatto sciogliere un bimbo nell’acido, sanno dei corpi straziati dalle bombe o dai colpi di armi potenti. Forse, non tutti sanno che la ‘ndrangheta ha già provveduto, in passato, a dare dei corpi in pasto ai maiali. Non lo dice soltanto un collaboratore di giustizia importante, Domenico Agresta – rampollo di una famiglia della nobiltà mafiosa della Locride, cresciuto al Nord -, nel corso di un’intervista rilasciata a “La via libera” nel luglio dello scorso anno: «se sbagli, lo Stato ti dà la possibilità di pagare e di cambiare¬ – afferma l’uomo. Di là, ti ammazzano, ti fanno mangiare dai maiali. Siamo proprio al livello più basso dell’umanità». È nelle carte processuali dell’inchiesta “Erinni”, del 2012, la fine di Francesco Raccosta nel corso di una faida, resosi colpevole di aver ucciso il boss della cosca rivale, quindi preso a sprangate e dato in pasto, moribondo, ai porci. Una fine raccontata da uno degli omicidi e presente in Rete, su YouTube.
Non è un gusto dell’orrido quello che muove queste righe, non è la celebrazione del sangue, la sua sotterranea o palese esaltazione. È la necessità di ricordare, nero su bianco, di quali persone stiamo parlando, di quale spietatezza accompagna le vicende delle onorate società. Ed è bene che i complici e i fiancheggiatori e i silenti lo sappiano, sappiano come si muore nelle mani di queste associazioni criminali; è bene che ascoltino, come i lettori, quale godimento accompagna le parole dell’uccisore di Francesco Raccosta nel video a cui si è fatto cenno sopra, un’esaltazione feroce, una sorta di estasi narrativa, a mano a mano che spiegava ai suoi ascoltatori la fine del rivale.
Maria Chindamo, per tornare a lei, sarebbe morta per mano del già citato Salvatore Ascone, ‘u Pinnularu, e di altri due complici, uno dei quali deceduto e l’altro minorenne all’epoca dei fatti. Aveva chiesto un terreno alla donna e lei aveva rigettato la proposta. L’uomo, già arrestato in maggio per il reato di associazione di stampo mafioso, è ritenuto responsabile della manomissione del sistema di videosorveglianza della propria abitazione limitrofa al luogo del delitto, agevolando, così, gli autori del sequestro materiale e dell’omicidio della donna, e di averne distrutto il cadavere come si è detto sopra e come non giova ripetere per rispetto di Maria.
In realtà, già nel 2021 un altro rampollo “pentito”, Emanuele Mancuso, figlio di Pantaleone l’Ingegnere, aveva rivelato, negli uffici del Ros Centrale, al pm Annamaria Frustaci e al capitano Alessandro Bui ciò che sapeva del rapimento e dell’uccisione di Maria, asserendo che la sua testimonianza derivava da quanto gli era stato detto da Rocco Ascone, figlio di Salvatore. E, sotto forma di confidenza in carcere, Emanuele Mancuso aveva narrato i fatti a un collaboratore di giustizia, Antonio Cossidente, ex boss dei Basilischi – la malavita organizzata lucana –, il quale, a sua volta, aveva narrato l’accaduto alla Dda di Catanzaro nel febbraio del 2020.
Salvatore Ascone, il figlio Rocco e un inserviente straniero erano già stati indagati, in precedenza, per la morte di Maria Chindamo, ma l’indagine non ebbe alcuno sbocco processuale. Ora, l’inchiesta “Maestrale-Carthago” e l’indagine specifica sulla morte di Maria, condotta con il supporto del Reparto Crimini violenti dei Ros, hanno riproposto le accuse per ‘u Pinnularu, alle quali se ne aggiungono altre per reati in materia di armi e stupefacenti e per estorsioni ai fini dell’accaparramento di fondi agricoli.
Si è voluto estrarre la vicenda di Maria Chindamo dall’inchiesta più generale per diversi motivi. Per le modalità e le ragioni che ne hanno determinato la fine, per ribadire ancora una volta che il belletto di presentabilità che le mafie si danno non elimina affatto il puzzo letale di morte che le accompagna, per sottolineare, se ancora ce ne fosse bisogno, quanto sia soffocante la stretta mafiosa sulle libertà individuali, per ricordare una donna che ha pagato un prezzo troppo alto al suo desiderio di indipendenza e di libertà.
Ma l’inchiesta “Maestrale-Carthago” non si ferma alla vicenda di Maria. È un’indagine ben più complessa che fa emergere una lunga serie di reati ascritti alle 84 persone raggiunte, qualche giorno fa, da ordine di misura cautelare (29 in carcere, 52 agli arresti domiciliari e 3 con obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria): associazione di tipo mafioso, omicidio, scambio elettorale politico mafioso, violazione della normativa sulle armi, traffico di stupefacenti, corruzione, estorsione, ricettazione, turbata libertà di incanti, illecita concorrenza con minaccia o violenza, trasferimento fraudolento di valori, truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche e altri reati, tutti caratterizzati dal “metodo mafioso”. Gli 84 inquisiti vanno ad aggiungersi ai 61 fermati lo scorso maggio nella parte precedente dell’inchiesta; in tutto, risultano indagati 170 individui.
Una nutrita schiera di imputati, portatori di nomi illustri, in qualche caso. Perché, accanto a figure di spicco della ‘ndrangheta vibonese, tra le quali Salvatore Morelli (già detenuto), compaiono personalità quale quella dell’avvocato Francesco Sabatino, già candidato a sindaco di Vibo Valentia nelle elezioni comunali del 2015, e tratto ora agli arresti. Ai domiciliari si trovano, invece, l’avvocata Azzurra Pelaggi, ex presidentessa dell’onlus “Da donna a donna”, Cesare Pasqua, ex dirigente medico dell’Asp di Vibo, e Andrea Niglia, ex sindaco di Briatico ed ex presidente della Provincia di Vibo Valentia, oltre ad alcuni imprenditori vibonesi.
Forti e stretti i legami rilevati, dunque, tra le cosche e il mondo politico e della pubblica amministrazione e potente la stretta sul territorio da parte delle locali di Mileto e di Zungri. Gratteri, nel corso della conferenza stampa, ha sottolineato che le ‘ndrine erano «in grado di imporre ai panifici delle zone sotto il loro controllo il prezzo minimo del pane; ovvero meno di 2,50 euro non si poteva scendere». Così come ha messo in evidenza il completo asservimento dell’Asp di Vibo Valentia alle cosche di Mileto, Limbadi e Vibo stessa, in virtù anche di funzionari e medici compiacenti. E, accanto a ciò, il magistrato calabrese ha parlato della morsa intimidatoria mafiosa sul settore turistico della cosiddetta “Costa degli Dei” e sul trasporto marittimo verso le isole Eolie. Né ha mancato di fare riferimento a un business crescente, quello relativo ai migranti non accompagnati, che avrebbe fruttato alle cosche circa mezzo milione di euro di introiti grazie alle erogazioni pubbliche in quel settore.
Dentro questo ribollente calderone di reati si colloca la tragica fine di Maria Chindamo. Un nome fra i tanti defraudati da questo carosello criminale senza fine, da questo connubio puzzolente tra cosche e dintorni, in un Paese che ama raccontarsi civile e non lo è, non lo è del tutto, né lo sarà fino a che permarrà questa capillare forma di violenza dell’uomo sull’uomo e sulla donna. E, per non lasciare spazio a dubbi, va precisato che la violenza che qui si intende non è solo quella agita e perpetuata dalla vigliacca forza del branco, ma anche quella di chi la accoglie per poggiarci, turandosi il naso, i rami fioriti della propria ingorda avidità e del proprio interesse. Forse, turandosi il naso, i volenterosi complici delle mafie evitano di sentire il loro stesso fetore.
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