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La ’ndrangheta voleva la testa del figlio di Gratteri

Pur destando scalpore, in virtù dell’aberrante proposito di colpire un figlio per debellare le potenziali conseguenze negative del magistero politico severo e di serio contrasto alla ‘ndrangheta da parte del padre, la notizia, si diceva, non aggiunge molto al quadro desolante della presenza criminale calabrese

di francoplat - mercoledì 22 settembre 2021 - 3080 letture

In sé la notizia pare non dire nulla di nuovo, non aggiungere niente al quadro desolante della presenza ‘ndranghetista nel nostro Paese. Ci si riferisce all’ipotesi di attentato al figlio del procuratore capo di Catanzaro Nicola Gratteri. Pochi giorni fa, infatti, sui media è rimbalzata la dichiarazione di un recente pentito, boss di una cosca della Locride, il cinquantasettenne Antonio Cataldo, relativa al progetto dei mafiosi reggini, nel 2013, di eliminare il figlio dell’allora procuratore aggiunto di Reggio Calabria. Le ragioni che avrebbero spinto la malavita calabrese a progettare di investire in auto il ragazzo sarebbero state legate alla possibilità che Gratteri ottenesse la nomina a Guardasigilli all’interno dell’allora governo Renzi. Tale prospettiva spaventava la ‘ndrangheta, che temeva l’inasprimento delle pene e l’attivazione di leggi più ferree e più severe.

Antonio Cataldo ha passato in carcere circa una trentina d’anni, è un esponente di spicco del clan omonimo e ha vissuto l’epoca lunga, a partire dal 2005, della faida tra la sua famiglia e quella dei Cordì di Locri, nel corso della quale ha perso un fratello e uno zio. Condannato a otto anni al processo “Mandamento Jonico” e attualmente imputato in un altro dibattimento, dal giugno scorso ha deciso di collaborare con la giustizia e ha reso alcune dichiarazioni al sostituto procuratore della Dda, Giovanni Calamita, che ne ha depositato i verbali agli atti del processo “Riscatto – Mille e una notte” il 20 e il 28 luglio scorsi. A detta di Cataldo, la notizia dell’attentato al figlio del procuratore calabrese gli sarebbe giunta da Guido Brusaferri, un affiliato alla cosca dei Cordì, in quegli anni detenuto con lui presso il carcere di Reggio Calabria. Al pm Calamita, il neo-collaboratore di giustizia avrebbe detto: «il discorso dell’attentato è uscito perché si stava facendo ministro della Giustizia Gratteri e c’era l’allarme delle persone detenute, in generale dei locresi, così è venuto il discorso». Di fatto, poi, dopo un incontro tra Renzi e l’allora presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, la nomina di ministro della Giustizia a Gratteri sfumò e così anche l’attentato al figlio del procuratore.

Pur destando scalpore, in virtù dell’aberrante proposito di colpire un figlio per debellare le potenziali conseguenze negative del magistero politico severo e di serio contrasto alla ‘ndrangheta da parte del padre, la notizia, si diceva, non aggiunge molto al quadro desolante della presenza criminale calabrese, e non solo, nel nostro territorio. Non lo fa, perché siamo abituati a convivere con la violenza mafiosa, sia quella che scioglie nell’acido un bambino sia quella che fa saltare in aria magistrati e protagonisti scomodi della lotta alle organizzazioni criminali.

Non lo fa, perché siamo abituati a veder saltare in aria dei magistrati o a sentire pendere sul capo di quelli in prima linea minacce di morte, come attesta il caso di Nino Di Matteo e come testimonia la stessa vicenda di Gratteri. Perché contro di lui e contro l’attuale procuratore aggiunto di Reggio Calabria, Giuseppe Lombardo, proprio nel 2014 arrivarono «nuove e inquietanti minacce», come riferisce Alessia Candito in un articolo su “Antimafia Duemila” (18 settembre 2021). Minacce attraverso telefonate in Questura che portarono prima all’arresto e poi alla scarcerazione, perché giudicato un mitomane, di un uomo rimasto in carcere poche settimane. Uno strano mitomane, considerato che pareva informato in maniera corretta su luoghi di residenza, abitudini, spostamenti dei magistrati; purtroppo, però, non potrà più dire se quelle telefonate avessero una fonte ispiratrice, poiché è stato trovato in casa morto circa un anno dopo.

Non è nuova neanche la notizia in sé, almeno stando a ciò che riporta “il Quotidiano del Sud” a firma di Paolo Orofino (19 settembre 2021). Già nel 2014, gli inquirenti calabresi e siciliani erano al corrente delle dichiarazioni di Antonio Cataldo, relative al possibile attentato al figlio di Gratteri. In questo caso, l’informazione sarebbe giunta per il tramite di una lettera che il boss della Locride scrisse dal carcere e che fu acquisita tanto dalla procura di Catanzaro quanto da quella di Messina, città in cui allora era domiciliato il giovane oggetto delle drammatiche attenzioni della ‘ndrangheta. Ascoltato dagli inquirenti, in quell’occasione Cataldo non aggiunse altro e agli atti rimase quel documento in cui precisava che la notizia gli era giunta da «uno dei Cordì».

E non è nuova la mielosa carrellata di dichiarazioni politiche, scandalizzate, indignate e solidali. Proprio relativamente a questo insostenibile canto indignato, vale la pena riportare quanto afferma Giuseppe Brugnano, segretario nazionale della Federazione sindacale di Polizia: «nemmeno la notizia, sconvolgente, di un progetto di attentato al figlio del procuratore capo Nicola Gratteri riesce a svegliare la politica dalla condizione in cui si trova, impegnata a dichiarare su qualunque cosa, in piena campagna elettorale, ma non assumendo posizioni su fatti così gravi». Sempre rimanendo in tema, è Nicola Morra, presidente della Commissione parlamentare antimafia, a osservare che, fra qualche giorno, si voterà in Calabria per le Regionali: «chi dei vari candidati dovesse cercare voti in certi mondi che puzzano di ‘ndrangheta in maniera vergognosa, dovrà rispondere di rapporti con ‘ominicchi’ che non si fanno scrupolo nel progettare di ammazzare giovani ed adolescenti». Chissà se mai i candidati che troveranno, dopo averli cercati, voti nei mondi che puzzano di mafia risponderanno di tali rapporti?

A tale riguardo restano molti dubbi, forse troppi. Ma non si insisterà mai abbastanza sul fatto che non c’è aberrazione mafiosa più rivoltante di quella sostenuta, sorretta, corretta e incentivata dalla complicità e dalla correità, diretta o indiretta, dello Stato. Non a caso, forse, l’editorialista de “Il fatto quotidiano”, con una chiosa giornalistica efficace e diretta, osserva come ai boss calabresi fu offerta una sponda inaspettata per evitare che Gratteri diventasse ministro della giustizia: la cosa sfumò, osserva Lucio Musolino, «non grazie alla ‘ndrangheta, ma alla politica» (18 settembre 2021; il corsivo è nel testo).


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