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La “linea della palma” corre veloce: i comuni sciolti per mafia

Non a caso il titolo, “La linea della palma”, evoca una lontana suggestione di Leonardo Sciascia che, nel 1963, parlava proprio dell’espansione mafiosa fuori dai confini regionali

di francoplat - mercoledì 29 novembre 2023 - 780 letture

Data ormai qualche settimana la pubblicazione di un interessante dossier, “La linea della palma”, realizzato dall’Osservatorio parlamentare di Avviso Pubblico, associazione nata nel 1996 per riunire gli amministratori pubblici che si impegnano a promuovere la cultura della legalità democratica e della cittadinanza responsabile. Il documento, reperibile in Rete, rappresenta la prosecuzione di un precedente dossier, “Le mani sulla città”, presentato lo scorso anno, e analizza gli scioglimenti degli enti locali registrati tra il 1 gennaio 2022 e il 30 settembre di quest’anno, così come prova a riflettere sul commissariamento delle pubbliche amministrazione nelle regioni del Centro-Nord, di irradiazione delle mafie fuori dal territorio originario di nascita.

Non a caso il titolo, “La linea della palma”, evoca una lontana suggestione di Leonardo Sciascia che, nel 1963, parlava proprio dell’espansione mafiosa fuori dai confini regionali: «gli scienziati dicono che la linea della palma, cioè il clima che è propizio alla vegetazione della palma, viene su, verso il nord, di cinquecento metri, mi pare, ogni anno». Intendeva con ciò dire che la criminalità organizzata stava allargando il proprio bacino di interesse illecito. A tale riguardo, prima di considerare l’esito dell’analisi di Avviso Pubblico, conviene ricordare quanto già affermato su queste pagine, ossia che questa passeggiata della palma non è univocamente intesa dagli osservatori. Per qualcuno, cioè, si tratta della forza colonizzatrice delle mafie, che salgono, salgono lungo la penisola; per altri, ad esempio il prof. Rocco Sciarrone – sociologo dell’Università di Torino – la linea che risale indica non tanto e non solo il potere invasore delle mafie, quanto piuttosto il fatto che il clima a cui si riferisce Sciascia rappresenta i fattori di contesto locale che rendono possibile l’insediamento delle consorterie mafiose; corruzione, scarso senso civico, bisogno o altri aspetti che portano i boss a incontrare segmenti di società civile e di pubblici amministratori, piuttosto che impresari e liberi professionisti, tutti disposti o disponibili a instaurare un torbido pactum sceleris.

L’analisi di Avviso Pubblico è organizzata in tre parti distinte, la prima delle quali è dedicata all’esito delle procedure di scioglimento degli enti pubblici nel corso del biennio 2022-2023; la seconda parte si concentra più dettagliatamente sui singoli casi di studio, presentando, ad esempio, la realtà di Nettuno e di Scilla, e si apre, poi, a un commento sull’intero arco cronologico del commissariamento degli enti locali dal 1991 – anno di emanazione della legge sugli enti locali infiltrati dalle mafie – sino a oggi. La terza e ultima parte, invece, dedica spazio alle regioni del Centro-Nord, quelle interessate al provvedimento di scioglimento, ed è, a giudizio di chi scrive, la più interessante, forse quella sulla quale gli estensori di questo documento puntano di più, proprio per sensibilizzare i lettori sul problema non banale dello spostamento della linea della palma.

Non è ovviamente possibile dare conto di tutti i dettagli del documento, che si invita caldamente a leggere per intero, ma qualche considerazione generale e meno generale è possibile avanzarla. Si parta dal dato complessivo: in trenta e più anni, risultano emanati 383 decreti di scioglimento degli enti locali per infiltrazione mafiosa, comprese sei aziende sanitarie; 76 amministrazioni hanno conosciuto più di uno scioglimento. Ciò che colpisce maggiormente è quanto precisa il dossier, ossia che si tratta di un decreto al mese, che si allarga a ventaglio su undici regioni, di cui sei ubicate al Centro-Nord. Spesso si tratta di piccole realtà – circa il 70% dei comuni è di dimensioni contenute – con un numero di abitanti inferiore ai ventimila.

Quale morale ne ricava Avviso Pubblico? «Basta mettere insieme questi semplici numeri per comprendere il tasso di pericolosità e di pervasività delle organizzazioni mafiose in tutta la Penisola: le infiltrazioni nei Comuni, infatti, lungi dal costituire un dato episodico, si presentano invece come un dispositivo strutturale dei clan, che in questo contesto sono in grado di ottenere occasioni strategiche di radicamento territoriale e di arricchimento».

Non c’è differenza tra Sud e Nord: le cosche ambiscono a controllare ogni settore della vita economica e amministrativa e tale finalità passa anche, senza distinzioni tra regione e regione, dalla ricerca di un «rapporto privilegiato con il potere», senza gesti eclatanti, perseguendo la ricerca di un profitto e di un’accumulazione delle ricchezze da reimmettere nei circuiti legali. Una mafia silente, sempre minacciosa, indubbiamente, ma tutt’altro che simile a un esercito invasore, più vicina all’ipotesi di Sciarrone del clima favorevole alla crescita della palma. Lo dice chiaramente la parte conclusiva del dossier: per quanto non manchino pressioni, minacce e intimidazioni sulle amministrazioni o nel corso delle campagne elettorali, «l’ottica privilegiata è quella utilitaristica, che spinge i clan a sfruttare ogni varco e ogni relazione possibile, anche con l’imprenditoria: nei casi analizzati relativi al centro-nord, essa appare molto più complice che succube». Detto per inciso, il 92% dei casi presi in esame dalle relazioni prefettizie, relativi all’Italia centro-settentrionale e all’atteggiamento degli imprenditori verso le cosche, racconta dei primi complici delle consorterie criminali a fronte di un numero più risicato di industriali succubi delle stesse.

Torna, con monotona insistenza su queste pagine, il richiamo al sempre meno distinguibile confine tra homo sapiens sapiens e homo sapiens mafiens, il sempre meno netto punto di confine tra criminali e onesti, stretti tra affiliati e fiancheggiatori, complici, collusi, soggetti perseguibili per concorso esterno. Perché se è vero che il dossier sottolinea come l’infiltrazione al Nord dipenda anche da una certa sottovalutazione e da una scarsa conoscenza del fenomeno mafioso da parte degli amministratori settentrionali, è anche vero che, poche righe dopo, precisa che a tale aspetto deve essere aggiunto «il diffondersi di una corruzione che mira a instaurare rapporti di reciproca convenienza, caratterizzati da complicità e connivenza, tra politici e funzionari locali e mafiosi». Così come, relativamente ai settori maggiormente inquinati nelle regioni settentrionali, si individuano appalti, concessioni, edilizia pubblica e privata, voto di scambio, e un trend crescente di invasione delle risorse umane, ossia il conferimento di incarichi a soggetti criminali o collusi, alla luce della scarsa trasparenza delle procedure amministrative. Una situazione nebulosa che riguarda gli stessi piani di prevenzione della corruzione degli enti pubblici, che «sembrano delineare solo teoricamente degli impegni che, tuttavia, faticano a concretizzarsi a causa di un diffuso clima di omertà e timore unito alla compiacenza del mondo imprenditoriale».

È soprattutto la ‘ndrangheta a muoversi nelle regioni settentrionali – nell’80% dei comuni sciolti, a fronte della presenza camorristica nel 13% degli enti locali –, lo fa nelle realtà più piccole, generalmente paesi tra i 5000 e i 50000 abitanti, scegliendoli per via della maggior possibilità di controllo territoriale e sociale, per la presenza di ridotti presidi di forze di polizia e, ancora, perché si tratta di luoghi lontani dall’attenzione mediatica, e per via della maggior rapidità di infiltrazione nell’economia e nell’amministrazione locale, considerate la rete di parentele e conoscenze presente in uno spazio dalle dimensioni ridotte.

Restando al Nord, vale la pena affrontare un ultimo aspetto, ossia l’appartenenza politica dei comuni sciolti per mafia. Nel trentennio preso in considerazione – in realtà, si parte dal 1995 quando fu sciolto l’ente locale di Bardonecchia in Val di Susa (TO), primo nel Nord – il dossier registra che, su un totale di 34 partiti votati, l’82% appartiene alla destra e al centrodestra, in particolare Forza Italia, UdC e LegaNord; in sei casi su 34, si è trattato, invece, di gruppi politici di sinistra. Ma è soprattutto la presenza di infiltrazioni nelle liste civiche che desta maggiore preoccupazione (il 69% delle amministrazioni comunali arrivava da tali liste; la maggior parte di centro-destra), perché più permeabili all’infiltrazione mafiosa, più porose rispetto la capacità dei clan di infiltrarsi nella politica locale e di condizionarne il funzionamento.

Detto ciò, va rilevato che la percentuale di comuni centro-settentrionali interessati da decreto di scioglimento è pari al 3,4% del totale dei 383 enti commissariati in questi trent’anni; percentuale minima, sicuramente, o almeno esigua, ma non meno preoccupante e sintomatica della linea della palma in costante spostamento. Se si guarda al dato complessivo, resta tenace la presa delle cosche mafiose sulla loro realtà originaria, il Sud Italia. In ben 133 casi, lo scioglimento ha interessato la Calabria, in testa a questa triste classifica, 117 realtà concernono la Campania e 92 la Sicilia, mentre 26 enti locali hanno subito il commissariamento in Puglia.

Gli abitanti di undici regioni, di cui sei centro-settentrionali, si sono trovate coinvolte in questa vicenda, che ha nella realtà di Scilla (RC) un formidabile paradigma. È questo uno dei casi di studio presente nel dossier. Scilla ha conosciuto due diversi scioglimenti, a distanza di cinque anni uno dall’altro, quest’anno e nel 2018, sempre lo stesso sindaco, indagato per scambio elettorale politico mafioso, coadiuvato da altri amministratori, con una parentesi commissariale (2018-2020) che, a detta del prefetto, «non sembra aver mutato l’habitus comportamentale dell’amministrazione comunale, caratterizzato da un livello pericoloso di ingerenza della ‘ndrangheta, presente in tutte le vicende oggetto di disamina da parte della Commissione d’accesso». Affidamenti diretti e procedure d’urgenza nelle gare d’appalto, generale disordine amministrativo e tributario, interesse delle cosche per le concessioni demaniali anche marittime, oltre che per altri ambiti quali la ristorazione. Una posizione, in sostanza, “servente” del Comune nei confronti degli interessi della ‘ndrangheta nel settore economico-imprenditoriale, una compagine amministrativa in buona parte coincidente fra l’uno e l’altro scioglimento e gli interessi intatti delle cosche fanno di Scilla una realtà emblematica, recita il dossier, «delle profonde cointeressenze che possono sorgere tra clan e amministrazioni comunali», e, aggiunge, «delle difficoltà che lo Stato incontra nel rimuoverle».

Ecco, le difficoltà dello Stato, non risolte dopo trent’anni. Dando una veloce occhiata alla prima parte, che qui si trasferisce al fondo dell’articolo, negli ultimi due anni risultano 18 gli enti locali sciolti per infiltrazioni mafiose: sei in Calabria, 4 in Campania, 3 in Sicilia così come in Puglia e due nel Lazio (Anzio e Nettuno, quest’ultimo sciolto nuovamente dopo diciassette anni dal primo commissariamento). Pure in questo caso, le liste civiche la fanno da padrone (72% dei casi), nei restanti comuni in quattro casi si tratta di governi di centro-destra e uno di centro-sinistra. Quali le mire dei clan? Il settore edilizio-urbanistico risulta il più interessante per i mafiosi, seguito da quello dei tributi, dal servizio di igiene urbana, le concessioni demaniali e delle spiagge, ma anche la refezione e il trasporto scolastico, il servizio di custodia degli animali randagi, il movimento terra, i fondi agricoli comunali, le strutture sportive, il servizio tesoreria e, ancora, migranti e parcheggi, servizi cimiteriale e beni confiscati; last but not least, come recita testualmente il dossier, «addirittura quello di assistenza legale comunale».

Circa cinque milioni di cittadini italiani, in trent’anni, hanno vissuto e vivono in realtà corrose dalla pervasività di un sodalizio tra mafie e poteri locali, economici e politici, che hanno leso, in profondità, i loro diritti. Si sono fornite tante cifre in queste righe, intiepidendo, forse, la portata delle riflessioni, ma non si può ignorare che poco meno del 10% dei nostri connazionali abbia camminato, respirato, lavorato in spazi permeati di mafiosità e corruzione, di relazioni sociali e dinamiche comunitarie in cui non esistevano margini di esistenza capaci di regalare il sogno di affermarsi e migliorarsi senza essere disonesti, di godere di un servizio sanitario o di un pasto scolastico affocato dalla longa manus del potere predatorio. Molti quel potere lo hanno subito, alcuni lo hanno supportato. Non è davvero difficile, quindi, comprendere l’amara constatazione di uno scrittore calabrese quale Corrado Alvaro che, nel 1958, vergava una frase nota, ma mai troppo abusata: «la disperazione più grave che possa impadronirsi di una società è il dubbio che vivere rettamente sia inutile» (“Ultimo diario”).

È un dubbio legittimo, faticoso da cacciare via. Non vuole giustificare nulla, assolvere nessuno, sia chiaro. Solo sottolineare come lo sforzo colossale del nostro ceto dirigente e di ogni cittadino renitente alla leva della disonestà debba partire dalla definizione di strumenti morali e culturali in grado di allontanare quel dubbio e il pericolo che diventi certezza.

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