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Il soffio del daimon

In margine ad un trattato perduto di Aristotele di cui non sappiamo neppure il titolo né l’argomento. E che forse non era neppure di Aristotele.

di Victor Kusak - lunedì 4 maggio 2020 - 2806 letture

Il daimon, la Musa (o “le” Muse), il dio, la dèa… Un tempo si diceva: “ispirato”. L’uomo perdeva coscienza di sé, era “posseduto” da qualcosa che non era lui stesso: uno “spirito”, un daimon. In questo stato di trance, l’uomo ispirato non parlava con parole proprie, ma ero il daimon che parlava per bocca sua. Un uso strumentale dell’uomo, ridotto a semplice tramite. Un robot, una marionetta. “Grazie” a questo stato, l’uomo era la voce di Dio, o la voce della Musa: a seconda che si trattava di un profeta (o una profetessa) o di un poeta o cantore di gesta. Indirettamente, l’uomo, ne ricavava prestigio: essere stato scelto tra la massa a essere il tramite del daimon era comunque un attestato. Non si sa se di merito o di altro: perché la scelta del daimon di servirsi proprio di quella persona e non di un altro, era spesso imperscrutabile.

“Cantami, o Diva, del Pelíde Achille / L’ira funesta che infiniti addusse / Lutti agli Achei...” (Vincenzo Monti), “Canta, o Dea, l’ira di Achille Pelide…” (Rosa Calzecchi-Onesti), “Dea, canta per me l’ira di Achille...” (Dora Marinari), “Canta, Musa, l’ira di Achille Pelide” (Franco Ferrari) ecc_. La traduzione del primo verso dell’Iliade è quanto di più controverso e difficile possa riscontrarsi, non basta una intera vita per avvicinarsi a esso.

Il dio “ciàta” (”ciàtu meu” si dice in siciliano, la madre rivolgendosi al proprio figlio piccolino), emette un respiro, un fiato: la “parola di dio” che “crea” le cose. Dio è parola, onda, musica. Questo fiato (non sappiamo di che odore, sicuramente non oleazzante di alcool come certi umani fiati) che fa fiorire i prati e attraversa le cose e le persone. È il fiato che ispira, e questo fiato si sostituisce al fiato umano per comporre modulazioni sonore di parola e musica. L’inudibile divino che è diventato per noi l’inudibile greco antico - noi che lo leggiamo secondo la nostra consuetudine accentativa mentre gli studiosi ne sospettano la tonalità quantomeno di alti e bassi. Il fiato - la parola divina - impregna le cose, le fa pregne, le feconda. Nasce qualcosa che non è terreno e rimanda per assonanza al divino. È qualcosa che “non sta né in cielo né in terra”: musica. Appunto: prodotto della musa. Il poeta fecondato dal dio, produce musica. È uno stereo dotato di buffer e casse, equalizzatori, e quant’altro. Tagliando le gambe a qualsiasi velleità autoriale, il poeta è solo un tramite, un ambasciatore che non porta pena e per questo non va ghigliottinato per le sue ciance dal potere umano che si risente per i suoi significati.

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Nella storia del cristianesimo, a ripresa di suggerimenti e suggestioni provenienti da quel mondo altro rispetto alle rive nord-occidentali, europee, del Mediterraneo, si formano santi - possibilmente postumi - più che profeti (pericolosi) su cui scrivere agiografie ben calibrate; salvo nel Novecento lo strano fenomeno del silenzio di dio con gli esponenti della casta, e l’apparente casualità di “scelta” di bambini, ragazze, o frati ignoranti quali “tramite” di apparizioni e messaggi di diverso tipo da consegnare alla folla immediata di compaesani e (un unico caso) al capo ufficiale della struttura di potere. Segno che la comunicazione non funziona perfettamente (perché dio non parla direttamente con il capo della filiale sulla Terra?).

Nel retaggio ottocentesco invece, giunge la professione del medium: uomo o donna, che “parla con gli spiriti” e per far questo vive episodi di possessione e di trance.

Mentre i poeti continuano a usare la figura retorica (“sono stato ispirato”) ma non hanno il coraggio di confessare l’uso lisergico della trance nella composizione delle prime bozze di un lavoro (che va poi lungamente rimaneggiato, aggiustato, opera non di un singolo ma di un team o di una equipe di lavoro: la filiera editoriale che porta il prodotto libro alla fine, al consumatore/lettore finale).

Questo per la comunicazione dio-uomo. Essendo comunicazione e non proclama, esiste un aspetto che riguarda la comunicazione inversa: uomo-dio. Gli uomini si rivolgono a dio (o agli dei, alle divinità ecc_). E lo fanno essenzialmente tramite l’invocazione (in occidente: preghiera). Come giustamente faceva osservare la mistica indiana, l’invocazione è la forma più democratica esistente. Se dio avesse voluto che ci si rivolgesse tramite la scrittura, avrebbe fatto una grave discriminazione perché non tutti sanno scrivere; se dio avesse voluto che solo i più ricchi potessero rivolgersi a lui/lei, altra grave discriminazione perché il mondo ha più poveri che ricchi; se dio avesse voluto che solo i sapienti o solo i sacerdoti potessero rivolgersi a lui/lei, avrebbe compiuto l’ennesima forma di discriminazione. Invece tutti possono rivolgersi a lui/lei, invocando il suo nome. Dio è un dio solo, che ha bisogno sentire evocato il proprio nome, sentirlo ripetuto. Ha questa forma di narcisismo.

Nominandolo, dio (o chi per lui/lei: usiamo questa forma semplificativa) riconosce i propri appartenenti, chi “gli appartiene”, e drizza le orecchie. Il nome del dio è la parola d’ordine, la password per accedere all’attenzione del dio.

Recitando il nome del dio, dio si attiva. Prima non esiste o è distratto in altre cose, il altre faccende affaccendato.

Ma, viene tramandato, “non nominare il nome del dio invano”.

Il cartello “non parlate con il conducente” è temperato, nella religiosità medio-orientale e occidentale e sostituito dal cartello: “Per parlare prima invocare, ma non invocate invano per favore”.

Sarebbe interessante sapere dov’è dio quando dio non è invocato. Cosa sta facendo, con chi altri sta parlando ecc_. Ma essendo persone pratiche, tipica mentalità occidentale, limitiamoci a essere soddisfatti della pratica, di ciò che si ottiene.

Il nome “crea” dio.

Ancora una volta osserviamo il valore della nominazione.

Nella vulgata era già accaduto che dio desse agli Adam questa cosa di dare nome agli animali e alle cose. Un’attività non solo catalogatoria, sembrerebbe. Nel momento in cui una cosa viene “individuata”, esiste staccata dall’amorfo: è “visibile” dagli uomini. Noi vediamo (con la vista), sentiamo (con l’udito), sentiamo (con il sapore, il tatto ecc_) solo ciò che “distinguiamo”, che separiamo appunto dall’amorfo di sfondo. Ri/conosciamo l’altro solo se abbiamo “individuato” l’altro dal “resto-che-è-amorfo”.

Nominare dio (anche se “non invano”) significa distinguerlo dal rumore di fondo cosmico. Farlo entrare nell’universo in cui le cose sono distinguibili. Dunque, raggiungibili o comunque “individuabili”. Una riduzione di dio a oggetto, a “individuo”, è ciò che permette all’uomo di “vedere” dio. O percepirlo.

Dio infinito tutto cosmico onni-tutto ecc_ nel momento in cui viene nominato (come l’appello in classe: chi c’è viene individuato rispetto alla classe che è il tutto) “si fa uomo” cioè singolo. E “gli si può parlare, ci si può rivolgere a lui/lei.

L’invenzione di dio, da parte dell’uomo sta nella sua nominazione.

Ma attenzione, nel mediterraneo non ci si rivolge solo a dio, ma anche ai “santi”. Con un processo analogo - l’analogia è omologia? - noi “creiamo” i santi nel momento in cui li nominiamo e ci rivolgiamo a loro. In questo caso il “loro” è il singolo santo: santa Maria, san Giuseppe, sant’Antonio, san Francesco, santa Rita ecc_. La sequela di santi è lunga, ma noi quando lo facciamo ci rivolgiamo non a “tutti” i santi indistintamente, ma bensì a un singolo santo che, al richiamo della nostra invocazione (“Santa Maria che sei nei cieli…”) ha un soprassalto e si sostanzia, si individua, “appare” se non in forma fisica o spettrale quantomeno sotto forma della sua attenzione, del suo orecchio teso: “ascoltami…”, “ascoltaci…”. L’implorazione del bambino che richiede l’attenzione della madre o del padre. L’inferiore che si rivolge al superiore, certo. Ma qui puntiamo l’attenzione su questo particolare: la divinità che “si attiva” (l’invocazione come un interruttore), il suo esistere solo se nominato/a.

Noi, i nostri dèmoni li creiamo evocandoli.

Non evocando più Zeus/Giove, Marte, demetra, Cerere ecc_ essi - gli antichi dei - si sono ritirati dal mondo. Sono dèi in esilio. Hanno perso l’esistenza. Noi evochiamo altri dèi, i nuovi dèi hanno sostituito gli antichi dèi. Cosa succede quando accade una cosa del genere? il mondo, dicono i filosofi nostalgici, è “più solo”. Ha perso qualcosa. Non si sostituisce un daimon con un altro impunemente. I vecchi dèi fuggendo avvelenano i pozzi, i nuovi dèi si nutrono dei cadaveri dei vecchi dèi. Il cristianesimo incorpora il culto del sole e usa Maria per distogliere l’attenzione dalla dea madre.

Nei riti esoterici e nelle contro-messe, viene evocato il demone negativo attraverso una serie (complicata) di riti e utilizzo di simboli “arcani”. Per i demoni positivi invece sembra che basti meno, è un rito abbreviato. Quando il demone si rivolge a noi (demone -> creatura) noi ne siamo posseduti; quando noi ci rivolgiamo al demone (creatura -> demone) noi rimaniamo nel nostro piccolo, e il daimon fa orecchio da mercante. Può ascoltarci come può non ascoltarci e fregarsene di noi. La comunicazione è asimmetrica.

Nella comunicazione la creatura ci mette il proprio corpo. Cosa mette, sul tavolo, il daimon?

Per quel che è dato comprendere, il daimon appare in forma ectoplasmatica, spettrale, incorporea (un corpo privo di consistenza). Un ologramma. Oppure ci utilizza come avatar. Se appare nella forma iconografica accettata dalla convinzione collettiva è un ologramma; se appare possedendo un corpo, attraverso il fedele scelto a caso ecco che il nostro corpo viene svuotato di noi stessi; noi siamo messi da parte, e il daimon utilizza come un avatar il nostro corpo.

Noi non sappiamo se anche noi utilizziamo quel che individuiamo come “il nostro corpo” come avatar. Non è detto che noi siamo “nel” corpo che conduciamo - nella cabina di guida della testa come asseriscono le teorie aeronautiche recenti o nel cuore come indicavano alcuni antichi, o un po’ lì un po’ qui, perché anche il cazzo nei maschietti a volte sembra avere più potere decisionale del cervello -, che il corpo sia il nostro “guanto”. Abbiamo la sensazione e la forza dell’abitudine che sia così, ma non la certezza. Noi stessi potremmo essere dei daimon, che utilizzano il corpo come avatar, per es_ per una qualche ricerca scientifica in atto; in questo caso il mondo, la realtà cosiddetta sarebbe il campo da gioco in cui di volta in volta, nelle varie epoche, e nei diversi contesti storici, sono in atto regole diverse, il tutto parte della simulazione in atto. Vallo a sapere. In questo caso, saremmo dei daimon che evocano altri daimon, “creatori” di daimon. Nel momento in cui impersoniamo noi stessi, creiamo noi stessi. Singolare responsabilità.

Da questo punto di vista: la vita che noi stiamo vivendo esiste nel momento in cui ci viene narrata. Noi (daimon) narriamo la storia; la storia ci appare così come la stiamo raccontando. Sogno e realtà sfumano. Il sogno è un’altra narrazione. Sono altre narrazioni. Non è detto che esista una sola narrazione, ma possono esistere universi paralleli, narrazioni simultanee e complementari, convergenti o parallele. Gli universi paralleli che l’universo cinematografico ha messo in campo, su suggestione di alcune suggestioni provenienti dal mondo della interpretazione (ancora un’altra narrazione) della fisica, sono narrazioni. Noi stessi siamo il frutto di più narrazioni - che riaffiorano nelle sequenze a più piani dei nostri sogni -. Una narrazione utilizza come mattoni le parole, le parole provengono da tutti i mondi possibili. Ci sono parole antiche e parole nuove, parole che hanno significato diverso e significati diversi, parole che mutano di significato… Nessuna narrazione è mai stabile, non solo perché è un movimento (inizio della storia ->sequenza di cose che accadono -> fine della storia) ma proprio perché i mattoni che la compongono cambiano in continuazione.

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L’inafferrabilità di dio deriva dal mutamento stesso continuo della consistenza della nostra invocazione. Noi invochiamo, nel momento in cui invochiamo siamo in una narrazione; ma la narrazione cambia in continuazione; il dio che appare alla fine non è mail il dio evocato all’inizio. Il fedele può rimanere fortemente sconcertato e deluso dal dio che gli appare. Non ci si può mai fare affidamento, su questi dèi. Sono, come nelle narrazioni Navajo, dei-sciacallo. Gli dèi fanno scherzi. Incomprensibili, e di cattivo gusto: a questi, solo loro ridono.

Nella condizione di daimon di noi stessi, nel momento in cui evochiamo il daimon, evochiamo noi stessi. Il daimon che ci appare siamo noi stessi. Noi “ci” creiamo. I razionalisti dicono: proiettiamo su dio noi stessi; i razionalisti psicologi: dio è la proiezione psicoanalitica di noi stessi. Un dio crudele manifesta il desiderio di espiazione, un dio buono il desiderio di castrazione ecc_. Sesso, complesso di Edipo, religione. Gli dèi di volta in volta si riunisco e riproducono le istituzioni umane: sala del tiranno, corte del re, assemblea del popolo, soviet, consiglio di amministrazione di una SpA, riunione di condominio… non manca niente a questa narrazione che siamo noi stessi e che sono i nostri daimon, daimon che sono noi e noi che siamo daimon, noi che esistiamo solo quando qualcuno ci evoca, e i nostri dèi esistono solo quando li narriamo. Cioè inventiamo balle su di loro e nel frattempo inventiamo balle su di noi stessi.

“Eppure il vento soffia ancora” (cantava galileiamente ispirato dal daimon, Pierangelo Bertoli; "eppur se move..."). O come si dice in altra maniera, argutamente: il calabrone non conosce le leggi della fisica, e vola.



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