Il diritto di sapere cosa sto leggendo
È una notizia o una pubblicità? Indispensabile una chiara distinzione tra informazione e pubblicità nei giornali
IL FATTO – Una ricerca condotta dalla Fondazione per il Giornalismo Paolo Murialdi rivela che il 97,2% di un campione di 480 persone (282 donne e 198 uomini) ritiene che ci debba essere una chiara distinzione tra informazione e pubblicità nel giornalismo. Tuttavia, la realtà dimostra che la pubblicità domina l’informazione. Questa affermazione, sebbene possa sembrare esagerata, è in effetti veritiera. Storicamente, vi è sempre stata una commistione tra pubblicità e informazione, dato che i giornali hanno bisogno della pubblicità per sopravvivere. Quando la pubblicità diminuisce, i giornali non vengono venduti a un altro editore (che ormai sono rari) ma a chi produce beni come navi o formaggini. Questi non hanno nulla a che fare con l’informazione, ma utilizzano i giornali per difendere i propri interessi economici.
IL COMMENTO – Negli anni ’70, l’Unità vendeva 800 mila copie la domenica e, in occasioni particolari come il 25 Aprile o il 1° Maggio, arrivava a un milione di copie. Tuttavia, non riceveva pubblicità, per motivi facilmente comprensibili. Anche Il Giorno, un giornale “governativo” di buona qualità degli anni Sessanta, venne boicottato dalle agenzie pubblicitarie perché apparteneva all’Eni e sosteneva politiche pubbliche contro il settore privato. Vi è stato un periodo, ad esempio su La Stampa, in cui le marche delle auto coinvolte in incidenti stradali non venivano menzionate. Allo stesso modo, si poteva leggere «una nota bevanda americana» per indicare la Coca Cola. Oggi, la situazione è cambiata radicalmente, con la pubblicità che domina l’informazione. Numerosi sono i casi in cui la pubblicità interviene pesantemente nella produzione giornalistica. Se un giornale conduce un’inchiesta sull’inquinamento di una zona specifica, può stare sicuro che le inserzioni pubblicitarie dell’azienda coinvolta non arriveranno più. Diversi anni fa, la direttrice dell’Espresso, Daniela Hamaui, pubblicò un articolo critico sulle acque minerali San Pellegrino, e subito subì una ritorsione: niente più pubblicità. Questo fenomeno si ripete con altre aziende, dai prodotti bancari ai cosmetici. Per aggirare questi ostacoli, i proprietari dei giornali fanno ricorso alle “marchette”, ossia articoli commissionati da aziende o politici, travestiti da servizi giornalistici. Recentemente, la Repubblica ha scioperato due giorni per protestare contro le ingerenze nell’attività giornalistica durante l’Italian Tech Week. Spesso la pubblicità è occulta e solo un occhio esperto può riconoscerla. Ad esempio, un articolo sulla cellulite può essere affiancato da una pubblicità di pillole contro la cellulite. Già nel 1975, il giornalista Paolo Murialdi osservava che la pubblicità veniva spesso usata come arma di pressione sui giornali. Anche Ryszard Kapuscinski, forse il più grande inviato che c’è mai stato, già nel 2007 scriveva che la manipolazione dell’informazione, in quel momento, era più nascosta e insidiosa rispetto ai tempi della censura.
Da quell’epoca sono passati 17 anni e le cose, se possibile, in campo giornalistico sono peggiorate. Si assiste a una corsa all’acquisto di testate giornalistiche per proteggere interessi personali. Angelucci, Elkann, Aponte e Caltagirone sono solo alcuni esempi di imprenditori che hanno investito nei giornali per difendere i propri interessi. Fino agli anni ’80, i quotidiani italiani vendevano circa 7 milioni di copie al giorno. Le entrate erano per il 60% rappresentate dalle vendite e il 40% dalla pubblicità. Oggi si vendono meno di un milione al giorno di quotidiani e il 60/40% non esiste più. E, ovviamente, i giornali debbono ricorrere alla pubblicità. E, questo, non è certo uno scandalo. C’è però un problema, i diritti del lettore. E il primo dei diritti è che il lettore deve sapere, con certezza, se ciò che legge è una notizia o una pubblicità travestita da notizia, una distinzione che non è sempre chiara.
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