Gratteri a "Trame", festival lametino

Venerdì 24 giugno, in serata, il procuratore capo di Catanzaro, Nicola Gratteri, è intervenuto all’undicesima edizione di “Trame. Festival dei libri sulle mafie”, rassegna organizzata a Lamezia Terme e ormai nota a livello nazionale e internazionale.
“I miei trent’anni di guerra alla ‘ndrangheta” era il titolo dell’incontro, mediato dal giornalista Antonio Badolati e, almeno in parte, incentrato sulla pubblicazione “La Costituzione attraverso le donne e gli uomini che l’hanno fatta”, scritto con Antonio Nicaso. È stato un intervento ad ampio raggio, quello del procuratore: dalle rivelazioni dell’FBI circa un possibile attentato nei suoi confronti proveniente dal Sudamerica ai vuoti rituali che hanno accompagnato e accompagneranno il trentennale delle stragi, dalla riforma della giustizia all’inerzia politica dinanzi alle mafie.
Quest’ultimo punto, in particolare, risulta di rilievo e merita attenzione. Perché l’intero discorso di Gratteri circumnaviga la galassia dell’azione politica dinanzi al fenomeno mafioso e lo fa con spirito critico, pungente, senza giri di parole, giusto lo stile canonico del procuratore catanzarese. Questo governo è, di fatto, inerte, come attesta il lungo silenzio del presidente del Consiglio in materia di mafie: dall’insediamento – quando non una parola è stata spesa su quel tema – a oggi, precisa Gratteri, Draghi ha fatto un’incursione veloce sulla questione una volta sola, a margine della presentazione di alcuni cartelloni per il trentennale della Dia a Milano. Ciò che sottolinea l’ospite di “Trame” è che il discorso del presidente del Consiglio ha seguito a ruota un intervento dello stesso Gratteri alla trasmissione della Gruber, nel corso del quale il magistrato calabrese aveva affermato che il governo poco si interessava del contrasto alle mafie e della riforma della giustizia. Poiché l’audience dei programmi ai quali partecipa aumenta significativamente – sottolinea non senza un qualche orgoglio Gratteri –, lo staff di un politico è piuttosto attento a monitorare questi passaggi televisivi. Non a caso, dunque, il capo del governo avrebbe affrontato, con un discorso sulla storia della mafia e sui caratteri odierni della criminalità organizzata mafiosa, la questione. Senza però, aggiunge il procuratore capo, muoversi sul piano più auspicabile di una riflessione su come, con quali mezzi, con quali risorse il governo intende contrastare il problema. «Ma io dal presidente del Consiglio mi sarei aspettato che lui ci spiegasse cosa intende fare questo governo sul piano normativo. Se la ricetta per combattere la mafia è l’improcedibilità, la patente a punti per i magistrati, se è la riforma del Csm».
Ecco il riferimento alla riforma della giustizia, sulla quale il magistrato si sofferma con amarezza e rabbia. In particolare, osserva come la separazione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri non rappresenti un vero problema. Anzi, aggiunge, è arricchente che i giudici entrino nelle procure, perché consentirebbero ai procuratori di incrementare le loro conoscenze su molte questioni, a partire dal valore delle prove ai fini di un’indagine. Quella separazione, dice Gratteri, è funzionale al potere e lo è perché il passaggio successivo della riforma sarà quello di far passare i pubblici ministeri sotto il controllo dell’esecutivo, «per dirgli quest’anno, l’anno prossimo, la priorità saranno i furti in appartamento. Poi riciclaggio, traffico di droga, corruzione, concussione, peculato non sono una priorità; come criterio residuale vi occuperete di questi aspetti. Stare ai desiderata, ai progetti, ai programmi del ministro della Giustizia». Continua, poi, il procuratore calabrese, analizzando punto per punto della riforma; vale la pena, in tal senso, ascoltare per intero la sua discussione, reperibile in Rete.
Quanto, poi, la posizione di Gratteri risulti, per così dire, poco gradita al governo delle larghissime intese emerge da alcuni passaggi del suo intervento al festival lametino. In un veloce botta e risposta con Badolati, che gli domanda come mai non sia stato invitato a Roma a una riunione sulla ‘ndrangheta – così come non lo è stato Giuseppe Lombardo, procuratore reggino e grande esperto della criminalità calabrese –, Gratteri risponde: «sicuramente si saranno dimenticati. È stata una svista». In un altro squarcio di intervista, l’ospite del festival sottolinea quanto siano potenti i tentativi di delegittimazione a mezzo stampa che lo riguardano. Proprio nel contesto sopra accennato, relativo all’indolenza del capo del governo, dell’esecutivo e dell’interno arco parlamentare, filo-governativo con poche eccezioni, Gratteri spiega che, l’indomani di una sua apparizione al programma televisivo di Giovanni Floris, su un giornale nazionale comparve un articolo titolato “Gratteri, l’arma segreta di Meloni”. Ottimo assist per squalificare il suo operato collocandolo nella galassia politica all’opposizione e, per questo, critico nei confronti del governo attuale.
«Sono il consulente gratuito di tutti», dice il magistrato a Badolati e al pubblico, proprio perché non voglio condizionamenti, non chiedo niente a nessuno, mentre al potere interessa chi non è libero, interessa qualcuno da comandare, perché inquinato dai favori. E questa veste di purezza morale fa sì che Gratteri innesti, in modo non consapevole e involontario, una sorta di parallelismo con Falcone e Borsellino. È il trentennale delle stragi, infatti, e il procuratore di Catanzaro non manca di trattare il tema, di attaccare la ritualità vuota di quelle commemorazioni a fronte, soprattutto, del fatto che i due magistrati, in vita, furono derisi, infamati e calunniati. Ciò da parte di persone che, oggi, rivendicano pomposamente l’amicizia con l’uno o con l’altro e che, afferma Gratteri, erano così poco cari a Giovanni Falcone al punto che questi, dopo aver stretto la mano a qualcuno di loro, la puliva simbolicamente e platealmente sulla gamba destra. Grandi uomini, grandi magistrati, grandi intelligenze con sensibilità e visioni diverse, ma combattuti dalle istituzioni. «Falcone era un perdente, Falcone non ha vinto una battaglia, non ne ha vinta una all’interno della magistratura», sostiene Gratteri, «però poi quando è morto, quando è morto, i gattopardi sono saliti sui palchi». Le commemorazioni in sé hanno un senso, ammette il magistrato, è importante lasciare ai giovani la memoria e il ricordo di persone capaci di essere dei modelli di vita, persone capaci di immaginare un mondo diverso: «per me è commovente vedere questi ragazzi che pensano a un’Italia, a un mondo diverso, a una vita diversa, non fatta di feccia, non fatta di faccendieri, di analfabeti che occupano posti da dirigente, che non sanno scrivere e parlare la lingua italiana e stanno tarpando le ali a questa terra».
Sempre sul tema delle stragi del 1992, Gratteri si produce in una riflessione sul contesto drammatico nel quale, mentre brandelli di carne erano ovunque e il boato ancora presente nelle orecchie delle persone attorno a via d’Amelio, qualcuno – leggi l’ufficiale dei carabinieri Giovanni Arcangioli – sottrasse l’agenda rossa dalla borsa del magistrato. Agenda fondamentale per il magistrato calabrese, strumento ricattatorio per chi è ancora in vita e magari è annotato su quelle pagine. Strumento e risorsa importantissima. Gratteri presenta il suo ritrovamento come uno degli impegni principali nel caso in cui fosse diventato procuratore nazionale antimafia, uno dei tanti misteri italiani da risolvere: «fino a quando non si ritrova quell’agenda non ci deve essere pace in Italia». Ma, per fare questo, c’è bisogno di una forte volontà politica, «perché io delle corone d’alloro e del tocco finale sulla posizione della corona d’alloro me ne faccio poco» E continua: «la commemorazione al trentennale si doveva fare con una legislazione antimafia seria, con un sistema giudiziario serio tale che non fosse conveniente delinquere. Non le chiacchiere». Falcone e Borsellino prima di morire, dice causticamente il magistrato, «pensavano all’improcedibilità, pensavano alla riforma Cartabia»?
Torna, quindi, il tema dominante, l’apatia politica, che è anche connivenza e complicità. E Gratteri declina questa complicità e questa incuria in termini regionali, volgendo l’attenzione, su invito del mediatore, alla sua Calabria. Terra bellissima, oltraggiata da una politica predatoria e dalla vista corta, dagli interessi immediati e non di lungo respiro. Una terra così bella dal punto di vista naturalistico da non avere neanche una facoltà universitaria per il turismo, in grado di spiegare ai ristoratori come trattenere il turista, come vezzeggiarlo anziché depredarlo in un solo mese e mezzo. Una terra di circa un milione e novecento mila abitanti: «mi spiegate a cosa servono tre facoltà di giurisprudenza in Calabria»? Ogni mese, afferma il magistrato, si laureano trecento persone in queste facoltà: «noi produciamo disoccupati». Continua il discorso del magistrato, tra ‘ndrangheta e Chiesa, ‘ndrangheta e massoneria, ‘ndrangheta e Nord Italia, tema sul quale modella, all’intendimento degli spettatori, l’abbraccio tra la mafiosità della ‘ndrangheta e l’ingordigia degli imprenditori settentrionali; ai quali si aggiunge, poi, l’abbraccio politico.
Finisce invitando alla speranza e alla reazione, alla collaborazione, a non abbassare la testa. «Noi ce la possiamo fare solo se siamo convinti e siamo tutti dalla stessa parte; se giochiamo con due mazzi di carte, non ne usciremo mai».
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