"El abrazo partido" di Daniel Burman
Un giovane regista-produttore argentino alle prese con i fantasmi del passato... E del presente!
Regia: Daniel Burman
Interpreti: Daniel Hendler, Sergio Boris, Adriana Aizemberg, Diego Korol, Silvina Bosco
Quella di Daniel Burman può essere definita una carriera-lampo con tutti i crismi... A trentadue anni, il filmaker argentino può già vantare un curriculum di tutto rispetto, che lo colloca tra le star assolute del cinema sudamericano.
Se poi ci si mettono anche vetrine prestigiose di altri continenti, come può essere Berlino (dove, nell’edizione 2004, l’ultimo film del regista ha vinto il premio per la migliore interpretazione maschile e il Gran Premio della Giuria), ad amplificarne ulteriormente la risonanza, c’è da scommettere che a breve Burman sarà riconosciuto - nel suo continente - come uno dei pontefici assoluti della settima arte...
D’altronde, se alla sua età può vantare già la firma in calce, per giunta in veste di produttore, a lavori di spessore transcontinentale come i due più celebri film di Walter Salles - il premiatissimo "Central do Brasil" e il recente, anch’esso variamente applaudito, "I diari della motocicletta" -, qualche numero, se non sul piano artistico su quello strettamente imprenditoriale, devi pur averlo...
È con un simile pedigree che il buon Burman sbarca in Italia, con il suo lavoro più recente, "El abrazo partido", commedia melanconica sulla riscoperta delle proprie radici e sulla vana ricerca di una verità assoluta, che per stile ammicca sfacciatamente al Dogma95 (digitale, camera a mano, luci naturali e così via), e per tematiche sfiora, quasi per caso, elementi del caos dell’identità ascrivibili alla poetica pirandelliana.
Il giovane Ariel, ospite/impiegato/prigioniero nel centro commerciale in cui si trova il negozio di intimo femminile di proprietà della madre, è il paradigma del basilisco wertmülleriano declinato in chiave argentina: confuso, privo di slanci, disilluso, ironico, spesso perplesso di fronte alle ingerenze del destino, a tratti rabbioso (non ricorda uno dei personaggi chiave del pensiero forte argentino del XX Secolo, la Mafalda di Quiño?). Il fantasma del padre fuggito in Europa ufficialmente per riabbracciare in toto la religione ebraica, e che egli ha sempre visto come un nemico da avversare, si concretizza davanti ai suoi occhi, fino a prendere forma e a rivelare retroscena insospettati...
Non è tanto la linea narrativa principale ad intrigare in "El abrazo partido". Piuttosto, la ritrattistica di varia umanità che emerge, un bozzetto alla volta, tra le pareti, gli scaffali, i corridoi, le luci al neon e gli esercizi del centro commerciale; Burman si diverte a dipingere con la telecamera, a schizzi brevi e incisivi, personaggi appena abbozzati, come in un disegno preparatorio, che pure, presi nella loro totalità, si compongono quasi automaticamente in un mosaico suggestivo e a volte struggente... L’opportunità di spiare le varie vetrine dal negozio del protagonista, adottandone il medesimo punto di vista, come da un peep-show, dà modo al regista di ricreare in formato bonsai una piccola serie di microcosmi, ciascuno con la propria storia e il proprio sottotesto; lampi quasi hitchcockiani si affacciano dunque nella messa in scena, che a tratti sfiora - senza peraltro sfondare - la grammatica del caos; lo stesso caos emozionale nel quale sembra sprofondare Ariel...
E se in alcuni punti, "El abrazo partido" può apparire frivolo e persino gratuito nel suo pervicace desiderio di ostentare una regia "forte" e ricca di intuizioni - di quelle che regolano e governano la narrazione senza lasciare che avvenga il contrario - si tratta senza dubbio di una pecca di poco conto, giacché il film si fa forte soprattutto di una pretesa leggerezza che, a conti fatti, si esplica in una provvidenzialmente scarsa propensione a prendersi troppo sul serio...
E anche se in Argentina, oggi come ieri, la gente ha ben pochi motivi per festeggiare, la capacità di ridere, e soprattutto di ridere di se stessi che il film di Burman riesce a mettere in scena sottolinea come lo spirito della sua popolazione sia ancora, fortunatamente, intatto.
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