Come si diventa nazisti
Una recensione di Paolo Miscia al libro dello storico americano Allen William Sheridan, Come si diventa nazisti
Allen William S., Come si diventa nazisti, Einaudi, 2005
Nel non molto lontano 1933, Adolf Hitler diventa cancelliere in forma perfettamente democratica; i tedeschi lo votano in massa, il Presidente gli affida il compito di formare il governo e lui esegue, interpretando a modo suo un classico della democrazia parlamentare: un esecutivo di coalizione, per la precisione nazi-nazionalista. La maggior parte dei suoi elettori, probabilmente né si aspettava né riconobbe immediatamente il “colpo di stato a rate” che egli portò a compimento nei mesi successivi; il senno di poi scarseggiava anche allora, e a quella parziale cecità contribuì pure il desiderio smisurato di veder arrivare l’uomo della provvidenza con la soluzione a tutti i problemi. Disoccupazione, inflazione, umiliazione: alle tre grandi ferite della Germania del primo dopoguerra il partito nazista diede l’illusione di poter rispondere, e raccolse il consenso necessario mostrando a ciascuno la faccia giusta. “Nazionale” per i nostalgici della Grande Germania; “socialista” per accompagnare verso una maggiore uguaglianza nello sforzo comune del Volk; “dei lavoratori”, a lasciar chiara la importanza e la priorità del lavoro e naturalmente “Tedesca”, la NSDAP aveva tanti volti quanti gliene potessero addossare, ed ogni elettore era legittimato a vederne uno e ad ignorare tutti gli altri. Fu così che per alcuni il programma economico fu chiave, mentre l’antisemitismo era bollato come una eccentricità dei vertici; ad altri piacque la promessa di riarmo, ed il contorno d’odio verso la Francia, la Russia e quant’altri pareva una bonaria esagerazione retorica. Ognuno votò per un motivo, molti ebbero ragione di pentirsi – e purtroppo era troppo tardi. Al giorno d’oggi, sarebbe possibile ricadere in questo errore? Gli elettori moderni (?) dispongono di un arsenale democratico ed analitico per riconoscere un “dittatore in nuce” e negargli il consenso?
William Sheridan Allen, americano dell’Illinois, azzarda una risposta. Lo fa adottando un punto di vista non tradizionale: non già l’alta politica coi suoi accordi interni e le sue alleanze, ma la vita quotidiana di un piccolo paesino dell’Hannover; non Hitler, Goëring e Goebbels ma il libraio, il vice-sindaco e l’operaio dello zuccherificio; non l’orrore dell’olocausto ma il disagio di cambiare di marciapiede per non obbligare l’amico ebreo a salutarti col braccio teso. Ed è così che nelle 279 pagine di “Come si diventa nazisti” l’autore ci racconta di cinque anni drammatici, unici e – speriamo – irripetibili: dal 1930 – anno in cui il nazismo pare solo folklore – al 1935, con la sua ormai ferrea e ineludibile dittatura. Che succede in quegli anni a “Thalburg”? Conta più l’ennesimo discorso di Hitler o l’operato del boss locale? Il nazismo vince (fino a due terzi dei voti, nelle ultime elezioni libere), ma si può dire che convince? Quanti socialdemocratici sono mandati ai lavori forzati? E che percentuale dei professori si converte al partito unico? In una cronaca dettagliata fino al pettegolezzo, ci sono risposte per questi ed altri interrogativi. Ma dalla minuta ricostruzione della vita del paese (con la “p” minuscola) emergono anche risposte generali. In primo luogo, il ruolo della paura: senza questa chiave di lettura, l’intera vicenda parrebbe incomprensibile. I thalburghesi sono benestanti, in buona parte impiegati statali, in gran maggioranza hanno soldi in banca, studiano, lavorano, si divertono, fanno sport, coltivano hobby. Nonostante il quadretto arcadico, nel 1930 hanno paura. Il primo spettro è la recessione: per quanto abbiano mantenuto i propri impieghi pubblici, vedono passare per i vicoli le centinaia di disoccupati che da tutta la contea vengono a far fila all’ufficio di collocamento di Thalburg - e il solo pensiero di un futuro di stenti può più della non perduta agiatezza. Altra paura, l’ingovernabilità ed il caos: la debole repubblica di Weimar non sembra andare da nessuna parte, e l’unica ricetta per evitare di consegnare la Germania ai comunisti sembra essere – guarda caso – quella nazista. Ed è così che in mezzo ad un’infinita sequela di votazioni (e forse anche grazie ad essa) i voti nazisti dei thalburgesi aumentano continuamente, a danno di tutti gli altri partiti; ed il miraggio del “mondo migliore” fa presa in particolare sui giovani, che tributano al partito nazionalsocialista percentuali che oggi definiremmo “bulgare”. Con una sinistra divisa ed incerta che rinuncia di fatto a resistere e grazie all’appoggio dei nazionalisti (presto scaricati), a Thalburg come a Berlino la nuova classe dirigente arriva – democraticamente – a sedersi nella stanza dei bottoni. Ed è da quella posizione privilegiata che attacca senza indugio ogni nucleo di appartenenza sociale che non sia il partito o una delle sue tante emanazioni. L’analisi di questo processo di “atomizzazione” della società thalburgese rappresenta un altro cardine dello studio di Sheridan Allen, ed alle mille maniere con cui il segretario locale della NSDAP lo mette in pratica dedica alcune delle pagine più memorabili. Il vicesindaco che non si piega e finisce giornalaio ambulante; lo scioglimento delle corporazioni e dei circoli sportivi (ed i grandi ricevimenti che essi organizzavano per evitare che la cassa fosse confiscata dai nuovi padroni); la disarticolazione dei sindacati, dei partiti politici, dei giornali. La trasformazione – insomma – di una società viva e compiuta in un reggimento di automi impauriti; è il “coordinamento” (Gleichschaltung), dove uno detta la linea e gli altri seguono. Con soli diecimila abitanti, senza alcun segno caratteristico, perduta in una valle dell’Hannover, Thalburg e la sua nazificazione sono un coacervo di storie universali: il dramma della sconfitta di un ideale, la comicità involontaria degli adulatori, la demenzialità del razzismo, la spudoratezza dei nuovi capi. E poiché si tratta di storie piccole, di tutti i giorni, esse risultano molto più vicine al lettore di quanto non possa essere il resoconto di una conferenza di pace o la descrizione di una battaglia campale. Traspare quindi una urticante somiglianza con episodi a noi vicini, spesso drammaticamente attuali, e pare evidente che quegli uomini – nazisti a tutti gli effetti – non erano molto diversi da noi. E che anche noi potremmo sbagliarci come loro, e come loro pentirci solo dopo aver permesso e legittimato nuove tragedie.
Paolo Miscia
http://fai.mentelocale.it/13722-ripetere-l-orrore-si-puo/
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