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The Cove. Premio Oscar 2010 come miglior documentario

Dall’incontro con Louie Psihoyos, tra i dieci migliori fotografi del mondo secondo Fortune, nasce l’idea di denunciare il massacro che si compie a Taiji dove avvicinarsi con macchine fotografiche e videocamere è un compito reso impossibile da pescatori e autorità locali

di Dario Adamo - mercoledì 16 giugno 2010 - 4130 letture

Una grande menzogna, innanzitutto. Le sorprendenti immagini di altrettanto sorprendenti delfini che saltano felici, fanno acrobazie e sembrano sorridere al contatto degli esseri umani nei delfinari di tutti i paesi non testimoniano il vero, ma rappresentano un’illusione. In quei “parchi di divertimento” livelli altissimi di stress colpiscono i cetacei più simpatici del mondo fino ad ucciderli, mentre qualcuno dalle parti del Giappone è già pronto a catturarne altri per addestrarli o farne carne da macello destinata al mercato del pesce.

Proprio in Giappone un vero e proprio orrore si consuma per sei mesi all’anno, da aprile a settembre, in una laguna (ribattezzata appunto “the cove”) sulle coste di Taiji, paese di appena settemila anime apparentemente tranquillo, ma che nasconde al suo interno un agghiacciante e invisibile segreto. L’uomo deciso a rendere noto a tutto il mondo quello che succede presso quella baia è Rick O’Barry, addestratore e “migliore amico” di Kathy, il delfino femmina che interpretava Flipper nell’omonima serie televisiva. Dopo il suicidio di Kathy-Flipper avvenuto proprio fra le sue braccia in seguito a un lungo periodo di depressione, O’Barry cominciò a ripensare al significato della sua attività di addestratore, ai mali causati dalla cattività e si diede all’attivismo per la salvaguardia dei delfini.

Dall’incontro con Louie Psihoyos, tra i dieci migliori fotografi del mondo secondo Fortune, nasce l’idea di denunciare il massacro che si compie a Taiji dove avvicinarsi con macchine fotografiche e videocamere è un compito reso impossibile da pescatori e autorità locali, impegnati nella salvaguardia della privacy dell’orrore di cui sono artefici. Con l’ausilio di un’eterogenea squadra composta da sub professionisti, abili operatori audiovisivi e scaltri uomini d’azione e attraverso una studiata strategia di appostamenti è stato possibile realizzare le riprese della mattanza di Taiji.

Documentario che scorre sul filo della denuncia mentre non manca di tenere il pubblico con il fiato sospeso grazie alle sequenze intrise di suspance, “The Cove” ha più di un merito: aver portato alla luce il caso di un macabro business da 2 miliardi di dollari l’anno, tutelato dalla volutamente lacunosa legislazione dell’ International Whaling Commissionche, che ha l’invisibile beneplacito del governo giapponese e dietro cui si nascondono anche gli interessi della Yazuka, la mafia cinese; aver stimolato un dibattito internazionale tanto sul complicato sistema di regole che governa la pesca in mare aperto, quanto sui riscoperti danni causati dal consumo di carne di delfino, pericolosissima per gli alti tassi di mercurio che contiene; e infine aver dato vita a un racconto intenso e avvincente, in perfetto equilibrio in quanto a corposità da reportage d’inchiesta e ritmo narrativo da thriller.


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