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Gli amici del Bar Margherita. Regia di Pupi Avati. Con D.Abatantuono, L.Chiatti, F.De Luigi, L.Lo Cascio, N.Marcorè

di Dario Adamo - mercoledì 8 aprile 2009 - 4248 letture

Pupi Avati pensa bene di fermarsi un attimo e guardare indietro al proprio passato, tornare alla propria adolescenza fatta di eroi ingenui, un po’ goffi e un po’ machi, ma sempre grandiosi. Idoli da carambola e caffè corretto, geni della piccola truffa e dello scherzo ben architettato, gioviali affaristi da bancone. E pensare che c’era qualcuno che li ammirava anche quei perdigiorno lì, che agognava un posto nella foto ricordo di fine anno per potersi sentire finalmente parte dell’olimpo dei propri dei.

La città è Bologna, l’anno è il 1954 e in via Saragozza c’è il bar Margherita. Di fronte a questo bar ci abita Taddeo (l’esordiente Pierpaolo Zizzi), un diciassettenne che da grande vorrebbe essere proprio come i frequentatori di quel bar. Come Al (Diego Abatantuono), leader di tutti e di nessuno e abile giocatore di carambola o il pio Bep (Neri Marcorè), animella buona e giusta, che conta tutto quello che vede e si lascia trascinare in tutto, quasi addirittura fino all’altare o ancora Manuelo (Luigi Lo Cascio), nobile siciliano trapiantato al nord e orgoglioso “linfomane” d’arrembaggio, o Gian (Fabio De Luigi) che spera di diventare un Big (diremmo oggi) di Sanremo, ma per il momento si accontenta di montare antenne della neo-arrivata televisione. Per tutti questi “eroi” Taddeo è e rimarrà sempre Coso, ma a lui va bene così, l’importante è essercisi avvicinati abbastanza da entrare per lo meno nel loro campo visivo. L’olimpo del bar Margherita è bello anche solo da vedere, scorcio di un’umanità intoccabile e sacra.

Cast strepitoso ed eterogeneo, oltre ai soprannominati sono da citare il sempre Avati-fedele Gianni Cavina, nel ruolo di un nonno ex-barbiere e apprendista pianista, la (qui ancor più) bella e brava Laura Chiatti, la maestra Luisa Ranieri e mamma Katia Ricciarelli. Un “chi più ne ha, più ne metta” potenzialmente rischioso insomma, se non ci fosse un abile direttore d’orchestra come Avati a coordinare primi violini di sempre (Abatantuono, Cavina) e talentuosi esordienti alla prima apparizione cinematografica (il ventisettenne pugliese Zizzi). Il risultato infatti è una più che mai corale (e riuscita) commedia sentimentale, dove la nostalgia di un passato rievocato non è mai melensa nel sorriso o patetica nel ricordo.

Girato gran parte a Cuneo, perché Bologna si è troppo “rammodernata”, il film si rifà leziosamente anche ad alcuni scherzi veramente realizzati da qualche esponente di questa originale élite da portico-fuori-porta, ma l’obiettivo principale di Avati è stato quello di ricostruire il ricordo di “un luogo del cuore” più che di riportare in vita un ambiente così com’era in quegli anni. Ciò non significa venir meno a un principio di fedeltà che è stato accuratamente rispettato nel ricostruire una gerarchia di forze, valori, relazioni su cui la vita di un bar (come il Margherita) si fondava e che ora sarebbe impensabile rivedere.

Oggi di social ci sono solo i network e forse i frequentatori del bar Margherita nel 2009 riuscirebbero a malapena a comunicare via chat, tra frenesia e crisi economica. Come dire, si stava meglio quando si stava peggio, quando le giornate almeno si perdevano sanamente e con cognizione di causa. Almeno ci si faceva due risate.


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