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Una giornata al Cozzo Corvo (10)

L’occupazione degli americani. I rapporti con la popolazione.

di Antonio Carollo - sabato 1 settembre 2007 - 4140 letture

La partenza degli americani mi provocò un senso di vuoto. Mi aggiravo sotto gli ulivi fermandomi su qualche rara traccia della loro permanenza. In una larga buca, presso un viottolo tra gli ulivi, avevano lasciato una quantità di scatolette vuote sotto qualche palata di terra. Nelle mie girate quotidiane mi ci fermavo, rivivendo scene della loro vita tra le tende, la loro vivacità, i momenti di relax tra giochi, scoppi d’ilarità, la premurosa obbedienza agli ordini dei superiori, la consumazione composta del rancio nelle loro gavette che tenevano pulitissime, l’accoglienza festosa che mi riservavano ogni volta che mi vedevano gironzolare. Non andavo in cerca dei loro doni: mi piaceva osservare la loro disinvolta comunicativa, la cameratesca scherzosa complicità tra di loro, le improvvisate partite di football che fulmineamente imbastivano in uno slargo libero da alberi e da tende, le esplosioni di voci gioiose alle battute più indovinate. Non avevo mai visto tanta gioventù così concentrata, e disciplinata, così seria e allegra nel medesimo tempo, dal tratto civile improntato a rispetto e disponibilità. Però pensavo che non tutti quei soldati dovevano essere bravi e gentili. Mio padre disse in casa che nella zona della Cura ’a Vulpi aveva visto soldati americani avvinazzati che schiamazzavano mentre la polizia militare accorreva per metterli in prigione. Sapevo pure che certi americani cercavano delle donne e che da ubriachi diventavano violenti. Io stesso constatai di persona un certo lato oscuro dei loro comportamenti. Mentre mi trovavo ad irrigare un giardino chiamato Iaritta, un po’ distante da casa, lungo la ferrovia, due soldati americani, passando sul bordo del cunnutteddu (piccola conduttura d’acqua) mi chiesero: “Fic, fic?”, facendo un gesto significativo con la mano. Non ricordo come ero venuto a sapere di un certo viavai di americani in una casa nei pressi di San Nicola. Risposi: “Più avanti”, accompagnando le parole con gesti indicativi. Mi sorprese la loro disinvoltura nel pronunciare quelle parole scabrose, che per me erano una specie di tabù per averle sentite di straforo con riservatezza e circospezione: sapevo vagamente che si riferivano al sesso. ’In uno dei suoi viaggi a Trabia per rifornimenti mio padre mi portò con sé in groppa a Ciccio. Anziché girare dai Pilieri per fare la strada statale, prendemmo la scorciatoia che, attraverso viottoli e stradelli, appena visibili, guadando due torrenti, quello di Ponte Chiavetta e quello della Marinnuzza, ci portò sull’ampia trazzera dellaCura ’a Vulpi che collegava Trabia con la Costa ’a Mennula, ’a Suvarita, i Casi di Scialabba, l’Arbulazzu, Sutta i Mura, congiungendosi a quella del Passu Palermu. Così vidi che l’accampamento del Cozzo Corvo prendeva soltanto il versante nord del colle, quello coperto dall’oliveto e dal mandorleto; si arrestava al margine dei campi di stoppie: evidentemente gli americani temevano il micidiale sole dell’estate siciliana. Anche sulle due colline d’Amureddu, punteggiate da radi ulivi, non c’era traccia di soldati. Gli accampamenti intensivi li rivedemmo lungo la trazzera, sotto gli oliveti della vasta costa che tocca le contrade du Pitrusu, di Antoniacci, Cura ’a Vulpi e Costa ’a Mennula. La trazzera era piuttosto intasata da militari e civili, da Jeep che cercavano di farsi largo, da muli asini, cavalli a bbarda. Qua e là vi erano dei capannelli intorno a qualche militare: vi si svolgevano confuse trattative con le quali dei paesani cercavano di ottenere dagli americani quanto più possibile di Am-lire o scatolette, sigarette ed altro, nello scambio con frutta e verdura. Mi fece impressione l’enorme quantità di soldati neri mescolati a quelli bianchi. Li avevo visti per la prima volta al Cozzo Corvo. Uno di loro, nei primi giorni, sbucò da una tenda mentre percorrevo la stradella. Era un giovane alto e snello, con un corpo da atleta; aveva le braccia muscolose e lisce, la faccia nera come il carbone, la bocca sporgente, una chiostra compatta di denti forti e bianchi, le labbra e le gengive di un rosa appariscente. Mi fermai di botto. Lui mise una mano in tasca e ne cavò un pacchetto di caramelle porgendomelo con un sorriso largo e luminoso. Io non restai fermo. Il primo istinto fu quello di fuggire, ma mi trattenni. Avevo visto sull’Abecedario della prima elementare delle figure di uomini neri, ma non avevo neanche sospettato che potessero esistere in carne ed ossa. Adesso ne avevo uno davanti, gigantesco. Mi si avvicinò e mi carezzò leggermente la testa. Disse delle parole incomprensibili con un tono che mi sembrò affettuoso; si diresse verso altri commilitoni salutandomi graziosamente con la mano muovendo le lunghe dita in un modo che non avevo visto mai fare. Risposi al saluto agitando la mano. Mi invase un improvviso senso di euforia. Scartai il pacchetto di caramelle e ne misi una in bocca, era di quelle col buco dal gusto di liquore. Corsi a casa dalla mamma: Le raccontai eccitato dell’incontro. Lei mi ascoltò con serena condiscendenza. Mi riprese dalla fronte un ciuffo di capelli ribelli cercando di rimetterli a posto, senza riuscirci. Mi disse che i neri erano uomini come gli altri, anche loro erano figli di Dio. Anzi di più, perché avevano sofferto molto. Gesù vuol bene molto chi è povero e chi soffre. I neri erano gente semplice che nei loro paesi, in Africa, viveva in povertà ma felice. Uomini bianchi cattivi li rapirono e li trasportarono in America per farli lavorare da schiavi. Adesso sono liberi come gli altri; l’unica differenza è la pelle nera. Però molti patiscono ancora perché gli americani bianchi li trattano male. Ascoltai con interesse; poi le dissi: “Mamà, si ssunnu boni, picchì fannu ’a guerra?” Mi rispose che non erano stati loro a decidere, ma altri, quelli che comandano; i soldati sono mandati a morire e quegli altri stanno nei palazzi. Mi ripeté di non dare troppa confidenza ai militari, di non chiedere niente a nessuno, di non andare in mezzo alle tende, di non oltrepassare la stradella. Mi diede un bacio e andò a rifare i letti. Pensai che la mamma esagerava perché gli americani non erano venuti a morire, erano così vivi e allegri! Neanche un’ombra dei loro nemici. Una volta sola avevo visto una colonna di camion tedeschi. Uno di loro si fermò ’o Stratuni davanti il Caffè di Sarinu Di Vittorio. Ne scese l’autista, si sgranchì le gambe. Un paesano, scalzo e con le toppe ai pantaloni, gli si avvicinò chiedendogli qualcosa. Il tedesco lo allontanò con gesto perentorio dicendo una parola che mi rimase impressa nella memoria: “Nix, nix”. Non capivo una cosa : gli americani avevano buttato le bombe al paese, facendo morire tanta gente, ed ora erano amici nostri.

Nei giorni successivi vidi diversi altri soldati neri, ma ora, alla Cura ’a Vulpi, sembravano più questi ultimi che quelli bianchi. Mio padre tirava avanti senza fermarsi; scuoteva le redini e dava del colpetti coi calcagni sulla pancia di Ciccio. A me, a cavalcioni dietro, il culo cominciava a far male dopo l’attraversamento di tutti quei valli e valloni. In paese ci fermammo qualche ora. Papà mi scaricò davanti casa di mia zia Pippina, sua sorella. Ella a trentaquattro anni aveva già quattro figli. Era una donna robusta ed energica, il viso ben squadrato, la bella fronte sormontata da lunghi capelli che teneva raccolti in crocchia dietro la testa. I figli davanti a lei filavano: lei sapeva tenere bene la disciplina; li curava al massimo; li faceva uscire sempre con i vestitini puliti ed aveva pronte al momento opportuno le merendine che consistevano in una fetta di pane e un pezzo di formaggio o pane e frutta, pane e marmellata che faceva lei stessa, pane col pomodoro. I miei cugini giocavano sulla strada, io ero il loro abituale compagno; verso le 11 di mattina e le 17 di pomeriggio tutti in fila dalla loro mamma per la merenda. Anch’io correvo a casa mia; se rimanevo in strada la zia mi chiamava e dava la merenda anche a me. Ora rivedevo i cugini dopo qualche mese; sembrava un secolo: erano passati i bombardamenti, il soggiorno anticipato in campagna, lo sfollamento, l’entrata degli americani. Franco e Mario mi giravano intorno festosi. “Iamu a gghiucari, iamu a ghiucari” e mi tiravano per le braccia. Papà parlò brevemente con la sorella e andò a ricoverare il mulo alla stalla a poca distanza. Io e i cugini organizzammo subito una corsa: “Cu arriva primo ’a cantunera!”. Scattammo ed arrivammo, io e Franco, quasi uguali. Mario, di cinque anni, arrancava dietro e cadde pure. “Un iocu cchiu” e se ne andò verso casa mogio mogio, mentre noi morivamo dalle risa. Poi facemmo altri giochi, a cui si unì Ignazio Palmisano, nostro compagno di scuola che abitava a due passi da lì. Mio padre tornò troppo presto, mentre eravamo nel vivo di un gioco. Ciccio aveva i vettuli (borsoni pendenti dal basto da entrambi i fianchi) gonfi. Mentre si salutavano zia Pippina disse a papà di stare attento: quella notte degli americani mezzi ubriachi, bianchi e neri, avevano fatto una rissa con nostri paesani; c’erano pure delle donne. Concluse: “I miricani mbriachi sunnu piriculusi! Tu stai attentu, ca hai na famigghia”. Al ritorno la trazzera era meno affollata, forse era l’ora del rancio.

Al Cozzo Corvo le cose andavano lisce. Non si verificò mai alcun incidente. I soldati erano disciplinati. Sicuramente per la loro libera uscita andavano in qualche altro posto. Chissà, forse le cose sporche le facevano lontano. Cozzo Corvo non è un luogo di passaggio, resta piuttosto appartato, bisogna venirci appositamente. Quel reparto di militari formava una comunità affiatata: ordine e disciplina era il risultato di un naturale modo di comportarsi dei suoi membri. Johnny Pruner per molte ore rimaneva assente dalla sua tenda. Quasi certamente andava a fare addestramento e a lavorare da meccanico sugli automezzi che vedevo passare frequentemente dalla stradella. Certo, aveva anche lui la libera uscita. Ormai conoscevo i suoi orari; mi affacciavo sulla stradella e lui mi faceva un cenno. Per almeno un’ora ci divertivamo a giocare, a guardare dei libri illustrati che teneva con sé, a suonare. Diverse volte lo trovai in preda a una gioia incontenibile: aveva ricevuto una lettera dalla fidanzata. Me la mostrava e m’indicava la firma: “Look at. This is her sign. Guaddare”. Io scorrevo quella lettera; ammiravo lo stile della grafia ma le parole erano tutte diverse da quelle del mio libro di scuola. Johnny andava con gli occhi dalla lettera al mio viso, per spiarne la reazione; io ad un certo punto facevo col capo cenni di contentezza e di approvazione. Gli dicevo: “Okei, good !” e lui mi dava un leggerissimo scappellotto in segno di complicità. Mia madre, se si affacciava dall’angolo della casa poteva vedermi mentre ridevo o giocavo seriamente con quel ragazzone americano.

Adesso era tutto finito, anche la guerra. Erano passati due anni. Di Johnny Pruner nessuna notizia. Sentii il fischio di un treno. Da quel posto non potevo vederlo: non avevo alcuna voglia di correre a salutare i passeggeri: cose di bambini. Scesi sulla stradella. Zu Piddu Fumusa s’era fermato davanti la casa di nonno Mariano, che forse era rientrato un po’ prima dal giro quotidiano della sua proprietà. Non sentivo i loro discorsi.

(10-continua)


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