Una Giornata al Cozzo Corvo (7)
Piccole storie di uomini di campagna
La casa di campagna di Bifumu aveva un solo stanzone e, a mezza altezza fino a coprire metà della superficie di calpestio, un solaio, cioè un vano sottostante al tetto, usato per deposito di paglia e fieno; vi si accedeva con una scala a pioli appoggiata sull’ultima trave di sostegno. La prima volta che mi capitò di dare un’occhiata dentro mi fecero senso le pareti e il tetto completamente anneriti dal fumo. Sulla destra dell’ingresso c’era un focolare senza canna fumaria costruito sul pavimento, fatto di poche pietre tenute insieme dalla calce; vi poggiava un pentolone vuoto incrostato del fumo di anni e anni, il cui interno mostrava un colore giallognolo-chiaro. Chissà che fumo al momento di cucinare e che pulizia, pensavo tra di me. Ma quel che impressionava di più era l’incredibile confusione di quella stanza: un letto matrimoniale e due singoli in fondo costituiti di soli trispita (cavalletti di ferro), tavole e materassi imbottiti di foglie di mais, un tavolo tutto sbrecciato, legna accatastata, quattro sediacce spagliate, un mobile con una tendina al posto delle ante, che una volta doveva essere un armadio, due basti da mulo, tridenti, zappe, pale, una balla di paglia.
Durante la villeggiatura, andavo a prendere il latte da Bifumu. Appena alzato la mamma mi faceva lavare la faccia in terrazza con una bacinella d’acqua fresca, mentre il sole s’alzava sul mare. Mi metteva in mano un pignateddu e mi mandava da Bifumu; a volte anche per acquistare una dozzina di uova o un pollo o un coniglio o della ricotta; mi dava i soldi, dieci, venti centesimi, mezza lira, una lira. Dopo l’arrivo degli americani i prezzi stavano aumentando. La mamma si raccomandava: “Stai attento; non perdere i soldi; dagli questi; porta il resto”. Prendevo la stradella percorrendola fin quasi all’incrocio con la strada di Sant’Onofrio. Da lì facevo la salitella che portava alla piccola spianata davanti alla casa. I cani abbaiavano, mi venivano vicino ma non mi aggredivano; nel frattempo compariva Bifumu con i suoi pantaloni sbrindellati e la canottiera bisunta e strappata e il solito paio di scarpacce; faceva un bercio e i cani andavano ad accucciarsi.
Bifumu se la passava piuttosto bene. Allevava bovini, diverse capre, conigli, polli, galline e possedeva terreni e case. Aveva cinque figli, tre femmine e due maschi, dei quali tre sposati a San Nicola e per conto loro. Con Bifumu, e la moglie, stavano la bambina che portava le mucche al pascolo e il ragazzo che aiutava a governare le bestie e che vedevo a volte passare dalla stradella dietro casa mia con un mulo a barda carico con grossi fasci d’erba. Avevo visto solo una volta la bambina, di sfuggita; si nascondeva per timidezza. Bifumu era un tipo solitario; lo si vedeva qualche volta all’imbrunire con la sua bisaccia a tracolla. Con mio padre era rispettoso; incontrandolo si fermava volentieri a scambiare qualche parola con lui.
A me faceva grandi feste. Mi domandava come stavano i miei; si raccomandava di salutarli assai assai. Mi raccontava di ladri che volevano alleggerire gli ulivi di un suo fondo, ma che lui aveva fatto scappare inseguendoli con bastone in mano. “ Ci dici ca vennu a rubari, ca ci rumpu i corna; è veru Ntunuzzu?”. Mi diceva di mio padre; lo esaltava come uomo che badava alla sua roba e non aveva avuto mai una parola con nessuno. “To patri è un omu, Ntunuzzu, hai capito?”..Poi attaccava altre storie che io non non riuscivo a seguire del tutto perché parlava veloce. Certe volte mi faceva una specie di storia della contrada. Ci accostavamo alla siepe di filo spinato del confine del suo terreno e, facendo ampi gesti con le mani, mi diceva che da lì, lungo la strada di Sant’Onofrio, fino alla ferrovia e a destra fino alla tenuta di mio padre, una volta era tutta proprietà di mio nonno Antonio; che era stata frazionata per dare una striscia di terra a mia zia Marina e un bel pezzo di frutteto sulla collina a mio zio Cicì. Una tenuta di giardini, con la casa, era toccata a mio zio Michelangelo. “To nannu avia puru tanti autri proprietà a San Nicola, a Serra ’o Scirocco, a San Miceli, Sutta i mura, ’o Ruvettu”. Mi raccontava che, quando mio nonno era ormai vecchio, si ritirò a Trabia e vendette la casa di Pilieri, col terreno intorno, ad un trabiese tornato dall’America. Alla vigilia della guerra, questi, mal consigliato, per la paura di perdere la proprietà, la vendette e mise i soldi in banca. A guerra finita si ritrovò senza proprietà e praticamente senza soldi per la sopravvenuta svalutazione del denaro. Venticinque anni di duro lavoro, di feroci risparmi e sacrifici erano andati in fumo. Io gli domandavo: “Zu Ninu (si chiamava Nino ma tutti lo chiamavano Bifumu), vossia ’u canuscìu a me nannu?”. E lui: “’U canuscìu? ’U chiamavinu ’u sinnacu di Santanicola. Sai quantu mi vuleva beni, to nannu? Mi chiamava iddu pi fari l’erba nne so jardina. Era un signori. Ma puru iò lu rispittavu. Uova e cunigghia un ci mancavinu ’a so casa”.Ogni quattro cinque parole intercalava “Ntunuzzu, Ntunuzzu”. “Ntunuzzu, comu si bravu. Ci pigghi ’u latti a to matri ogni matina. SI un carusu arucatu. I me figghi sunnu comu sunnu, a tri mali viaggi. Però travagghianu. Cu mmia hannu a travagghiari, sinnò.....” e con la mano faceva la mossa di una bella botta.. Era capace di tenermi lì, sotto una pianta di mandorle, anche per mezz’ora. Ad un certo punto io gli dicevo: “Me matri aspetta ’u latti, zu Ninu”. Allora mi prendeva ’u pignateddu: “Quantu nni vuoi latti?” “Un litru,; me matri vuoli puru durici ova” “Ah, beni beni, tuttu chiddu chi vuoi, tuttu chiddu chi vuoi; ti dugnu ova ca si ponnu viviri anchi fra tri jorna”. Si avviava verso la stalla. Io gli andavo dietro. Volevo vedere i vitellini .La stalla era tenuta bene: il pavimento era già rastrellato e cosparso di paglia. Mentre lui mungeva il latte io andavo all’altro angolo dove erano legati i vitellini a una mangiatoia più bassa. Cercavo di accarezzarli ma dovevo fare le lotte perché si agitavano e scorrevano da un lato all’altro per non essere avvicinati, mentre le mamme emettevano dei brevi muggiti voltandosi verso i loro piccoli. Bifumu si rialzava: “Ecco fatto, abbunnanti; ci ’u dici a to matri; lassili iri, sunnu sirvaggi sti viteddi”. Poi entrava nella casetta accanto mezzo diroccata dove le galline erano libere di entrare ed uscire da un’apertura senza porta. A colpo sicuro prendeva le uova in mezzo alla paglia, alla legna, all’erbaccia secca e me le porgeva. Se gli chiedevo un pollo ne inseguiva uno in mezzo allo starnazzare delle galline e del gallo. Qualche volta chiamava in aiuto suo figlio, un giovane scuro e robusto, che spuntava chissà da dove. Tutti e due si davano da fare per intrappolare la vittima designata che era sveltissima a sfuggire alla presa dei due. Io stavo a guardare sperando che non riuscissero ad acchiappare il povero pennuto. Poi, inevitabilmente, il pollastro veniva preso e, tra gli strilli e il frenetico sbatter d’ali gli veniva tirato il collo. Bifumu me lo consegnava per le zampe mentre ancora il corpo dell’animale era percorso dagli ultimi scuotimenti. Se la richiesta era di un coniglio. Bifumu andava alle gabbie dietro la stalla, apriva uno sportellino, ne prendeva uno per le zampine posteriori e con un pugno in testa lo immobilizzava. Per il pagamento dovevo rivolgermi alla moglie, un donnone dai capelli neri, vestito di nero, il viso serio: un bel contrasto col marito che era secco, allampanato e priannolo (festoso), almeno con me. Era evidente che i cordoni della borsa li teneva lei. L’aspetto arcigno faceva presagire il suo peso negli affari di famiglia Non mi degnava di una parola. Prendeva i soldi e li metteva in una specie di saccoccia che teneva sotto la veste. In quei momenti sbirciavo l’antro di quella casa. La donna stava nei pressi dell’ingresso dove trafficava per cucire indumenti, per spazzare, per togliere le bucce alle mandorle che prendeva da un sacco, per stendere al sole su grandi tavole l’estratto del pomodoro da conservare nei barattoli per l’inverno, per mettere a seccare sulle stesse tavole i pomodori.
Girai lo sguardo verso la trebbiatrice intorno alla quale c’era tutto un movimento di carretti, di cavalli, muli, e anche asini, uomini indaffarati con le berrete e le camicie aperte e libere sui pantaloni, bianche di pula di grano, i grandi fazzoletti rossastri legati al collo. Quel grande piano di ristucci (stoppie), la Salina, leggermente concavo, che scendeva dal colle e finiva alla strada di Sant’Onofrio, era servito da campo di atterraggio per i piccoli aerei da ricognizione degli americani. Diverse volte io, Nino e Giuseppina, eravamo andati a vederli appostandoci ai piedi dei massi del Cozzo Corvo. Vedere quegli aerei che giravano in cielo, che andavano verso la collina di Amureddu, tornavano indietro e iniziavano ad abbassarsi fino a toccare terreno agli inizi della Salina per fermarsi da lì a due-trecento metri, era uno spettacolo per noi. Anche se un po’ distanti, vedevamo bene il pilota che si calava dalla carlinga levandosi gli occhialoni e saltellando sul terreno con i suoi scarponi lucidi, i gambali e il giubbotto di pelle marrone, l’accorrere di una Jeep tutta scoperta, impolverata, con il parabrezza abbassato sul cofano, e il soldatino alla guida con la sua divisa beige da lavoro, la camicia con le maniche corte, la bustina in testa, gli stivaletti fino alla caviglia. Mi piaceva il salto che il soldato faceva dalla Jeep e il suo irrigidirsi sull’attenti davanti all’aviatore. Saliti sulla Jeep i due militari si dirigevano verso un casotto di legno ai margini della pista e poi all’oliveto, dove al centro del fitto accampamento c’era il comando di battaglione.
(7-continua)
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