Pezzi di carta

Gli amici vanno aiutati quando sono vivi. Dopo, è anche inutile cercare risposte.
Massimo B. scriveva. Ogni tanto. Di notte. Tra una telefonata e l’altra a chi aveva considerato ”amico”. Massimo B. scriveva. Su pezzi di carta abbandonati. E su quei foglietti lasciava messaggi. Troppo ermetici per essere collegati a delle richieste di aiuto. Troppo celati per risvegliare attenzioni.
Non lo faceva da molto. E forse non li avrebbe mai raccolti per farne opera letteraria. Piccoli frammenti di sé, da far catturare dal vento. Come bottiglie naufraghe che non avranno risposta. Il resto della notte sognava.
Sognava una vita diversa, forse neanche migliore, ma diversa. Da donare e dividere con il suo amore sudamericano, che stentava a seguirlo sui suoi passi futuri e sulle parole spezzate. Sui “ma” che soffocavano i “si”.
Trentasei anni. Vissuti sulla riviera jonica, nel messinese. A Roccalumera. In quel paese dal nome storpiabile, con il suo casello autostradale, porta troppo spesso chiusa, di un sogno d’opportunità. Cresciuto come tanti altri. Ad inventarsi un futuro in sogni narcotizzati da un lento e monotono trascorrere del tempo.
A improvvisare una scelta, che fosse stile di vita. Un mare profondo ad ingannare i ricordi, un serpentone di case moderne, ad offendere un illusorio passato barocco. A confondere i turisti di passaggio tra paesi lineari e annoiati, come tasselli a riposo a segmentare la vecchia statale orientale 114.
Massimo B. scriveva. Tra un lavoro e l’altro, imparato alla svelta e alla svelta, messo da parte. Sotto cassette di limoni, a saltare tra una rasola e l’altra di piantagioni a terrazza. O sopra un ghiozzo di legno, a farsi spaccare le mani dai remi e dalle lenze taglienti, baciate dal sale.
Pelle lucida e nera. Da mostrare sugli arenili, affamati di notorietà mai appagata, con l’Etna fumante sullo sfondo e una brezza di snob, alitata dalla vicina Taormina.
Massimo B. era cresciuto, accartocciato da quei progetti tentatori. Protetto, o almeno, con l’illusione di esserlo, dalla durezza delle troppe sconfitte. Anche dietro quel banco di bar, ad imparare l’arte del palato, rubando ricette per costruirne speranze.
Massimo B. sognava. Il suo ristorante, da avviare al Nord, ad offrire tentazioni siciliane che colmassero divari culturali, sventolanti su falsi piedistalli di nazionalismo. E il suo sogno era sempre più vicino, tanto da sfiorarlo con la mente, che spesso si offusca, adescata da una chimera di cambiamento. Che sia un motivo per vivere.
Troppe “carte” da leggere in fretta. Troppe firme, a garantire fiducia. Troppi consigli, a regalare certezze. Mentre dubbi e una voglia di una più semplice normalità, invadevano le notti e quei cellulari che non rispondevano mai.
Spesso si sbaglia, quando si ha la mente confusa. E gente “amica”, disposta a guidarti su una strada senza ritorno. Troppi zeri ad indicare migliaia di euro da restituire. Troppi, da temere di non averne il tempo per contarli. Troppi, per costruirci un futuro.
Forse, Massimo B. ha riguardato la sua firma su quei contratti di fido. Forse, non si è neanche chiesto se il logo impresso in alto a sinistra, nascondesse uno sporco segnale di usura. Forse, per un solo attimo, ha creduto di vivere la vita di un altro. Forse.
Poi, ha staccato il biglietto al casello di Roccalumera. Ha percorso qualche centinaia di metri. Ha parcheggiato l’auto e si è messo a scrivere su un altro pezzo di carta. Il primo camion è riuscito a sfiorarlo. L’altro, ha spezzato il sogno.
Al funerale, tutta la riviera jonica è andato a salutarlo. E quando il suo amore sudamericano ha pronunciato la parola “alma”, molti non hanno capito. Ma qualcuno ha poi raccontato: anche le pietre piangevano.
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