Penelope
Rosaria Lo Russo. “Penelope” (Ed. D’If, 2003) Il rovesciamento del mito e l’altra verità
Scritto e interpretato dall’autrice su commissione del compositore Luigi Cinque per il concerto-reading Hipertext Ulysses (Firenze, 28/29 maggio 1999), “Penelope” è un poemetto-monologo teatrale in versi pubblicato per le edizioni D’If (Napoli, 2003) da Rosaria Lo Russo, poeta fiorentina , saggista, lettrice-performer, traduttrice da Anne Sexton (Poesie d’amore, 1996; Poesie su Dio, 2003, per la Casa editrice Le Lettere), testo graffiante, d’una vitalità eversiva scardinante la lingua consunta del mito di cui rovescia l’accezione comune, rivisitandolo dalla parte di chi non ha avuto voce protagonista ma, raccontato e scritto e tramandato, ha per millenni fornito alibi e auto-assoluzione alla doppia infedeltà di Ulisse, perpetuando modalità di comportamenti dati per scontati.
In “Penelope” la sicumera dell’eroe è in crisi, se dopo la ventennale latitanza la sua proverbiale astuzia, la certezza delle braccia aperte appaiono nella luce tagliente del ridicolo, un ridicolo plateale quanto più si aggiunge il tentativo di non farsi riconoscere, rendersi estraneo mentre più lo è (di fatto) nel cuore disilluso e rancoroso della regina di Itaca. Il simbolo della tela qui non è pretesto al tempo da fare passare, in attesa di decisioni da prendere - ri-maritarsi o no - ma forma di controllo e autocontrollo e verifica dell’ordito, non il dritto ma il rovescio: i nodi, i fili da districare o legare tra loro sino a quando il disegno, la trama definiranno una situazione affatto diversa, darà responso d’una decisa ribellione: “ma quando mi smarrisco e perdo il filo/ l’unghia si muove su una superficie nera di lavagna”, e spingerà al gioco beffardo di accogliere “l’ospite inatteso fingendo di fingere di non riconoscerlo”.
Si diverte, dunque, Penelope, a relegare nell’inesistenza lo straniero senza nome; sotto mentite spoglie Ulisse è il Nessuno che con presunzione fidando nel sentimento sponsale non tiene conto della dignità offesa da cui si genera il risentimento :“Da vent’anni velata pattuglio questa casa / (...) ammogliata / rimasuglio di sposa obnubilata / (...) e come s’usa zitta zitta mi rassegno”. La lingua, invece, bussa ai denti e stride e sbatte come una vela ritorta da una tempesta di mare, lingua poetica che approda alla verità insabbiata dal mito maschilista esaltante l’eroe sconsiderato - marito e padre assente, uomo che fa la guerra e l’amore in ogni porto, mito del marinaio dimentico e stordito da lustrini di sirene, maghe, incantatrici. Per un pubblico di nuovi posteri la regina dà udienza nella sala del trono, e mostra con lucida asprezza quella parte di lei che ha sofferto e sperato e atteso: ora è la disillusione, la rabbia, il sarcasmo, con voce alta di sanguinante verità che non concede scampo.
Lo splendido poema di Lo Russo prende le mosse dall’ ”Avvistamento”, cioè dal riconoscimento/disconoscimento con cui Ulisse perde lo statuto di re e sposo; il ritorno del guerriero è già dissacrato nella casa a cui egli più non appartiene, né al talamo né al cuore, da che finalmente e consapevolmente stanca si dichiara sarcastica “questa muci muci che ammansi e chiami moglie”.
Nell’incipit la rivelazione squarcia le quinte ed è irreversibile: “Finita in secca in questo letto crosta d’oleastro rete cronicario di noia” sposa la parola fine pronunciata da colei ch’era ingabbiata nella convenzione (maschile, sociale) dell’ottusa fedeltà; ora che tutto è chiaro bisogna passare all’azione: “zitta zitta decompongo l’imeneo che t’accolse (...)/ a più non posso disfidando assalti di procio che m’annusa e sgrufa un porco approccio / Ma oggi invece temo te /(...) / tremulo corpo baro (...) / su cui le punte delle dita timide hanno perso ormai ogni solco o scaglia / di sangue che t’ingromma cicatrici urticate a fior di pelle / i tuoi voraci inganni le tue rughe loquaci d’uomo fuor d’acqua”.
Il mutismo mitico di Penelope è riscattato dalla ricchezza (e contaminazione) linguistica della Lo Russo, dalla amarezza che impasta e rende sapida questa storia di riscatto dai lacci dell’attesa, dal sarcasmo con cui promette: “oggi farai i conti salati d’una magra terraferma con me corrente fredda”, alternando ricordi di giovinezza sciupata “da vent’anni labbropendulo ogni poco mi segno/ e metroquadro a salvaguardia dei tuoi possessi”, ovvero “da vent’anni lazzarone magnaloto continuo a sfiorirmi”, sino alla consapevolezza che è lei - vedova bianca - il capo del regno, dei possedimenti e della casa: “poi m’acciambello sulla seggia d’avorio (...) / mi sventolo dal caldo col ventaglio penso al da farsi”.
Così l’autrice ci incanta e scioglie il grumo delle parole con cui riscatta un destino che si voleva tracciato, da altri deciso: sciorina, con versi puntuti come lama, il rosario dei torti inflitti alla sua (e nostra) Penelope: “(...) ogni notte mi sfilo da sola il reggipetto e ci ripenso / malassorbo lo sgarbo (...) di quanto t’imbuterasti in altri antri di un fottìo di divette / e ogni notte ci lasciasti il cinci (...) / o scivolando pitone di sguincio tra tette pitte di bbottane butirre di porto”, montando le parole della rabbia come onde accavallate, stridenti, sibilanti. E dopo le invettive si placa la marea, non vi è altro da dire nella sala del trono che non l’inaspettata, terribile sentenza: “(...) mi schiodo di scatto dalla seggia / Straniero, è finita l’udienza.”
Rosaria Lo Russo. “Penelope” (Ed. D’If, 2003) Il rovesciamento del mito e l’altra verità
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