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Paolo Conte, un artista che il mondo ci invidia

Il realismo magico di un poeta e musicista

di Alfio Pelleriti - mercoledì 19 novembre 2008 - 6991 letture

Uno tra i più illustri cantautori italiani, Paolo Conte ha presentato il suo ultimo album, Psiche, a Parigi. Ed è ancora un aprire il velo su atmosfere senza tempo, con ritmi ora languidi, ora veloci e andanti che accompagnano personaggi già conosciuti che si affacciano dal Mocambo, che fanno capolino dalle fitte nebbie tagliate a stento da luci gelate d’inverni metropolitani. Conte racconta di uomini stanchi di lottare, sfiancati da innumerevoli sconfitte; con gli occhi lucidi e teneri di adolescenti ingenui che sanno che si rialzeranno per continuare a lottare.

Uomo solitario e romantico, Conte miscela magicamente parole e musica creando ritmi trascinanti, irresistibili, dietro i quali batti il piede e fai andare anche mente e cuore, liberamente, senza freni, ripescando confusamente tra le tue emozioni, tra i ricordi che son lì ad aspettare pazienti che li risvegli. A proposito dei suoi testi, dice infatti Conte: “La libertà del mio pubblico voglio salvaguardarla a tutti i costi, perché non voglio mai lanciare dei messaggi o imprimere delle opinioni precise, ma voglio lasciar sognare ciascuno con i suoi colori, i suoi suoni, le sue esperienze e la sua sensibilità” (P. Conte, Si sbagliava da professionisti, Einaudi editore, Torino 2003, p. 30).

I personaggi delle canzoni di Conte sono in fuga (“Via via, di qui!”) dalla banalità del presente, dal conformismo ottuso e violento, dal materialismo del consumismo che ottunde le menti di chi una volta seguiva invece dei valori. E allora con la sua voce calda e bruciata da cento sigarette presenta l’uomo del Mocambo, Max, Jimmy, Diavolo Rosso, ballerini e amanti d’infimi alberghi. La voce appunto: trattata come uno strumento musicale, ora bassa, ora rauca, ora piegata al pianto o al sorriso; usata per evocare ambienti metropolitani che isolano e annichiliscono, dove gli amori sono impossibili e le delusioni esistenziali sono l’unico orizzonte possibile ad un’umanità dolente.

Allora quelle vite disperate le ammanta di immaginifico, portandole nel “non-essere” del fiabesco, incastonandole in ambienti senza tempo. Solo in tali dimensioni si concludono le storie d’amore, si realizzano i desideri, uscendo da una quotidianità angosciante. (“Il mio esotismo è un malessere che i francesi chiamano ailleurs, il senso dell’altrove …” Ibidem, p. 77)

Nelle canzoni di Conte, poi, si incontra la nostalgia del ricordo accompagnata dal pianto per la certezza di non poter afferrare i miti del passato. In quei testi si possono incontrare personaggi dei fumetti o dei romanzi sudamericani o della cronaca nera di una grande città. Oppure si potrebbero incontrare campioni del ciclismo eroico, nebbiose atmosfere da cabaret o da cafè chantant o anche le illusioni nutrite dai giovanotti negli anni cinquanta.

Conte si schernisce quando gli si presentano interpretazioni dei suoi testi e afferma che, in fondo, lui piega le parole alla musica e che quest’ultima ha la primazia nella composizione. Tuttavia il linguaggio non si può usare come qualsiasi altra materia, poiché esso si appropria di pensieri, emozioni, oggetti, speranze e timori, mettendoli al centro della scena. Tutto materializza il linguaggio, andando oltre le intenzioni dell’autore, vincendo ogni filtro. Non si può giocare con le parole senza far venire fuori l’essere più intimo. E’ pur vero che il cantante astigiano, da cultore dell’enegmistica, non ama i discorsi chiari, semplici; non presenta bozzetti rassicuranti; dà soltanto qualche pennellata che basta però a segnare le linee di confine di un universo dove si muovono uomini piegati dalle sconfitte, consapevoli della loro fragilità. Qualche esempio: Dal loggione: A teatro un uomo incontra una donna che ha sempre amato, ma che appartiene a un altro.

Tra i due solo sguardi fugaci, rubati ad un destino beffardo che spesso separa chi possiede affinità, privando due esseri della possibilità di scambiare anche una parola su quei sentimenti che, se vissuti, regalerebbero il paradiso. Blue tangos: “tra le ombre verdi di un bovindo,/ gustando un’acqua al tamarindo,/ l’uomo che ha niente da inventare/ prova a sognare,/ prova a sognare…” il testo ha l’essenzialità d’un aforisma; l’armonia evocativa della poesia; il chiarore concettuale d’una pittura surrealista.l’uomo con la sua razionalità di cui è andato superbo, appare sconfitto, con una coscienza frantumata. Non gli resta che il sogno per fuggire da una realtà che ha denti aguzzi con cui fagocita ogni progetto, ogni aspirazione.

Poche frasi, poche parole, pronunciate ora con tono sicuro ora con tono incerto, che rendono atmosfere languide, dalle tonalità sfumate che ricordano le città di mare, lì dove si incontra un’umanità dolente che annega tra musica e alcool, un’esistenza non scelta, vissuta tra noia e dolore. Le sensazioni si inseguono e si materializzano in parole che rifuggono strutture standardizzate. La sintassi e la logica si piegano e fanno spazio a un linguaggio destrutturato per presentare ambienti dove anche gli oggetti sembrano partecipare dell’esperienza esistenziale dei personaggi: in Pesce veloce del Baltico, la radio diventa, allora, “pagoda mongola dell’infelicità”; la pioggia “assedia” non bagna né ristora; il telefono è “impassibile”; Atmosfere soffuse, dove dolcemente arrivano suoni e parole, melodie caratterizzate da ritmi lenti o sincopati, con il sax e il piano protagonisti.

Paolo Conte è il poeta che porge in musica le sue verità, spesso amare, sulla vita. Le verità di un uomo forte dal cuore dolce e fragile, da poeta crepuscolare. “Quanta strada nei miei sandali quanta ne avrà fatta Bartali”; “c’è un po’ di vento, abbaia la campagna, tra i giornali che svolazzano …”; “foschia, foschia, enigma, fantasia; “Tra le ombre verdi di un bovindo, gustando un’acqua al tamarindo …”; “E i ballerini aspettan su una gamba l’ultima carità di un’altra rumba”: sono espressioni che dicono e non dicono; che, nella loro apparente semplicità, nascondono significati che rimandano a realtà nascoste lontane, misteriose, ancestrali.


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