Mi hanno assegnato il nobel. Propongo il webvoto!

Anch’io, come Bob Dylan, quando mi è stato annunciato il nobel, ho avuto una serie di pensieri...

di Victor Kusak - mercoledì 26 ottobre 2016 - 3677 letture

Anch’io, come Bob Dylan, quando mi è stato annunciato il nobel, ho avuto una serie di pensieri. Che diritto io avevo a ricevere questo riconoscimento, e poi, da parte di chi, per quale scopo? Se “l’accademia” rappresenta un consesso di vecchi bacucchi, essere premiato da costoro non è certamente un premio ma anzi un disonore: vuol dire che ho perso, per le nuove e per le vecchie generazioni, l’unico senso che la mia scrittura poteva avere. Di riflessione, e di controtendenza rispetto alla “normalità” e al pensiero dominante. Io sono sempre stato contro i bacucchi (e non si tratta di una questione di età), e contro il pensiero dominante, contro il regime. Cioè contro la macchina della guerra e dello sfruttamento. Si tratta di un “riconoscimento” o di una provocazione? Esistono istituzioni o cose che si sottraggono alla storicità del proprio tempo, e che possono “parlare” a nome dell’umanità tutta? e non a nome sempre di questo o quell’altro interesse bieco e sfruttatore? Se qualcuno ha mai letto (ma lo ha mai letto davvero? o ha letto solo quello che gli è parso buono per lui di leggere?) quello che ho scritto od ho realizzato, lo ha potuto fare solo grazie alle forme e ai canali della società storica: cioè dell’industria, dello sfruttamento. L’industria dello sfruttamento veicola anche quello che serve alle masse per illudersi, per rinvenire uno rispecchiamento che funziona come oppio per i singoli e per le masse.

La scrittura, l’intrattenimento, è parte (come la religione) dei mezzi di ottundimento di massa. Cosa vuol dire dare soldi - cioè mercificare, essere parte del sistema capitalistico e di sfruttamento - a qualcuno come “riconoscimento”? è una forma di salario a un proprio dipendente? O una specie di tangente, una forma di ricatto per cui: ti dò soldi in cambio del tuo essere comunque, per il fatto stesso che accetti e che partecipi al rito, “parte di noi”? Una cannibalizzazione, una forma di assimilazione - si divora il corpo del nemico vinto per acquisirne l’anima e la forza. Di depotenziamento.

È per questo che Sartre (1964) fece “il gran rifiuto”?

Nella storia dei nobel rifiutati (oltre che in quella dei nobel mancati), c’entrano i rifiuti “politici”. Boris Pasternak (1958) fu costretto, per quanto se ne sa, dalle autorità sovietiche, a rifiutare un nobel che sembrava tanto una provocazione dell’Occidente nei confronti dell’allora URSS.

Nell’attribuzione dei nobel, specie per la letteratura, alcuni hanno sempre letto una qualche forma di ironia, quasi goliardica, da parte dei membri dell’accademia svedese. Scelte sempre poco “accademiche”, che hanno cooptato nell’ambito dell’accademia i beneficiati. Nonostante il parere certamente contrario delle accademie nazionali, quelle da cui teoricamente i beneficiati avrebbero dovuto essere supportati. La strada su cui si muove l’accademia svedese non è facilmente assimilabile alla strada “accademica” almeno non nel senso che hanno le accademie e i gruppi di potere locali e nazionali. Le cose sono sempre un tantino più complicate e complesse rispetto al desiderio semplificatorio e tautologico delle nostre stesse convinzioni più arteriosclerotiche.

Quando mi è stato comunicato il nobel, ho dovuto ripensare un po’ tutto di me stesso. Quando si fa un mestiere come il mio, scrivere ecc_, quella del nobel è chiaramente uno dei rischi del mestiere. Improbabile ma sempre possibile. Occorrerebbe essere sempre pronti. Anche se poi, le cose d’ogni giorni, l’essere così tanto concentrati nella scrittura, nei progetti che si vorrebbero portare avanti prima che il tempo si chiuda, fà sì che uno non ci pensi. L’annuncio può così arrivare improvviso e “inaspettato”. Penso alla faccia che fece Montale quando gli telefonarono - e c’era un fotografo che riprese tutta la scena -, e sì che lui era uno di quelli che avrebbe venduto l’anima al diavolo pur di avere questo riconoscimento - non solo i soldi, ragazzi, non è solo una questione di soldi. Oppure a Dario Fo che in quel momento era in giro per l’Italia assieme ad Ambra Angiolini, a fare una trasmissione televisiva per una tivvù (Milano/Roma, Rai3). Quello a Fo è stato un bel nobel, che diede fastidio a così tanti - si era in piena era Berlusconi -, davvero un colpo basso degli accademici svedesi contro l’establishment e i sottopagati giornalisti dell’apparato editoriale italico. Un “giullare” premiato al posto dei poveri addetti alla filiera editoriale che debbono barcamenarsi tra critici, responsabili editoriali e addetti alla cultura. Una specie di targa funeraria alla memoria.

Ecco, forse, l’aspetto più increscioso di questo premio. Che viene dato in pratica alla memoria, quando si è ormai troppo vecchi e si è dato gran parte di quello che si poteva dare. Ci si trasforma in icone, in “santini” o statuette da portare appresso, ai convegni e ai seminari, con un codazzo di casalinghe e oneste lettrici estasiate e giornalisti a seguito professionalmente ed asetticamente impegnati a registrare l’evento, utili “testimoni” delle problematiche che affliggono l’umanità: delle guerre, degli stermini, di sfruttamenti e inquinamenti. Tutto giusto, tutto buono. Tutto buono per non più épater les bourgeois. Per far divertire il borghese, non più per minacciarne la stabilità o l’esistenza.

Se sei giunto nel momento in cui prima o poi si giunge sempre - se la morte non ti ferma prima -, cioè della stasi produttiva, questo è il momento per cambiare mestiere, e diventare un premio nobel. Ecco che devi mettere sù un team di avvocati e di agenti, interpreti e segretarie e cose del genere, per smistare tutta la corrispondenza; per stabilire liste degli impegni, viaggi da compiere in rappresentanza di questa o quell’altra “causa”, che ha a che fare con la libertà di espressione e di pensiero, con la libertà di opinione e con la difesa di minoranza o dell’ambiente ecc_. Certo, puoi permetterti di alloggiare in alberghi a tot stelle e di non toccare più un’auto nel traffico metropolitano che tanto c’è l’autista che fa tutto lui o lei e se vuoi la coca cola ghiacciata mandi la segretaria a comprarla all’emporio più vicino insomma cose di questo genere. Potresti (?) persino smetterla (ne sono sicuro?) di fregare gli asciugamani dell’albergo, la salviettina, e la carta igienica. Insomma fare la vita del VIP superVip ricco sbiellato ma senza poter sniffare troppo, senza poterti sbronzare troppo senza poter sputtaneggiare troppo perché poi c’è la “dignità” del nobel, la faccenda della rappresentanza e tutte queste altre menate. Uhm.

Ognuno di noi non è mai un singolo, è sempre un tramite. I greci dicevano qualcosa a proposito al “dèmone” che ispira. Noi che scriviamo lo facciamo perché attraverso di noi scorrono delle energie, delle tensioni, delle idee. Da dove arrivano queste cose? quando ero più giovane neppure mi ponevo domande come queste e non mi sarei mai sognato di usare qualcosa che avesse a che fare con il mondo dei greci e della classicità, per noi giovani sembravano tutte cose così vecchie, così lontane da noi, dalla nostra realtà e persino dalla nostra stessa “origine”. Uno scrittore è uno che “si fa carico”, e a volte finisce per essere schiacciato da quello che trasporta. A volte non riesce a arrivare alla meta. A volte ci arriva, ma si accorge nel frattempo di aver perso tutto, e che quello che consegna è solo un pallido riflesso. Questa cosa che è oltre di noi, che è più di noi, ha a che fare con la terra da cui proveniamo, con la nostra infanzia, con i “mondi” che scompaiono divorati dalla modernità. È qualcosa che ha a che fare con il profondo, con l’uterino e con la madre - con l’inferno. Costruiamo lenti con cui la realtà viene ri-guardata, e che permettono di scoprire aspetti che erano latenti, sbiaditi, “stavano dietro”.

Siamo gli artigiani della parola (e dei sofà), impegnati ad aggiustare sedie che permettono a chi è stanco di riposare. Uno scrittore è un noi, si appropria della parola collettiva per avere l’improntitudine di volerla esprimere. Non scopriamo nulla, troviamo (beh, questa la riferiva Picasso, e grazie al cielo non c’è il nobel per la pittura sennò chi lo sopportava più). Tutto questo per dire quanto di terra, quanto di corpo, di carne, ci sia in quello che scriviamo. Esiste una tentazione della carne, per gli scrittori, che è più insidiosa dell’analoga tentazione per il mistico o il religioso.

Ragazzi, ieri sera quando mi è stato comunicato che avevo vinto il nobel, da parte di quei ridanciani spiritelli dell’Accademia svedese, ho avuto un bel po’ di questi pensieri. Ma che vogliono questi, ma perché non mi lasciano in pace, io voglio solo scrivere avere il tempo di scrivere la concentrazione per scrivere, ancora barlumi di vitalità di energia per poter essere produttivo, per poter dire ancora qualcosa di vero, di chiaro, di essenziale, che serva a dipanare un po’ di questo buio, che serva a qualcosa… Io sto bene solo dove non sono. E ora mi tocca decidere. Né posso essere tanto scortese con quei simpatici vecchietti, e far finta di niente (tertium non datur). Dire di sì, dire di no… Potete votare mettendo un “like” o un “dislike”, tra dieci giorni chiudiamo il webvoto e i vostri likes serviranno per decidere se debbo accettare o meno il premio che mi è stato testé assegnato.



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