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Fenomeno italiano

Quella Natura che ti ammalia, dai paesaggi tropicali a due passi da casa tua, dai contorni dorati delle montagne che sembrano tuffarsi nel mare sottostante, dai colori alternati nelle stagioni da lasciare il profumo di vita che si rinnova.

di Piero Buscemi - mercoledì 7 ottobre 2009 - 2663 letture

La Natura si ribella contro l’uomo. Ma anche l’uomo è natura. Una volta, forse, lo era. Ormai, non più. Da troppo tempo. L’evoluzione lo ha portato a credere che le sue manipolazioni, i suoi stupri ambientali, il suo controllo siano assoluti. Senza conseguenze. Senza scotti da pagare. E pretende, l’uomo. Risposte sensate a domande assurde. Si erge a tecnico, a profondo conoscitore dei limiti e delle soluzioni d’apportare allo scatenarsi di quella che Foscolo osò definire Natura illusoria.

Quella Natura che ti ammalia, dai paesaggi tropicali a due passi da casa tua, dai contorni dorati delle montagne che sembrano tuffarsi nel mare sottostante, dai colori alternati nelle stagioni da lasciare il profumo di vita che si rinnova. La stessa Natura che esterna potenza, dominio e imprevedibilità contro impotenza, inanità e arroganza.

Chi è cresciuto nella provincia messinese, la conosce bene questa Natura. E le sue sfaccettature. Ne prendi contatto con la sua costante brezza che soffia dallo Stretto, consolandoti e “strammandoti” nelle giornate estive. U ventu i Canali, che qualsiasi pescatore sa rispettare dalla nascita. O ‘a rema, che dallo stesso Stretto, due volte al giorno taglia la costa jonica, spingendo il mare verso Catania. Ma la conosci nelle sue giornate di pioggia. Intense e a volte, incessabili. Cubi d’acqua che si riversano sulla costiera jonica, distruggendo piantagioni di verdello, e olive e clementine. E quelle rasole di terra coltivata, sostenuta da muretti in pietra che mai riescono del tutto a contenere la sua forza.

Da bambini, questi torrenti distruttivi, si attraversavano a piedi. Per passare da un paese all’altro. Si evitavano i ponti, accessibili alle auto. Era più da alternativi, percorrere quei sentieri formati da insistenti percorsi alternativi. Fiume e mare nello stesso panorama. Non era per molti.

Ma già allora, trent’anni fa, l’autunno accelerava il passo. Un anno, lo stavamo attraversando, ‘u ciùmi, tra Nizza e Alì, per raggiungere il cinema. Le urla ci arrivavano con il vento. Da sopra il ponte. La gente gesticolava e strillava i nostri nomi. Noi ragazzini distratti dal mare plumbeo e le immagini del nuovo film di Bud Spencer davanti agli occhi. Ma era un ruggito indecifrabile che copriva le voci. Poi l’istinto ci ordinò di correre. Prima uno, quasi preso da un raptus. Poi a ruota, tutti gli altri. Fu la salvezza.

L’acqua grigia trascinò, in meno di un minuto, tronchi d’albero, materiale edile, pietre. Tutto, ad una velocità incredibile. Verso il mare. Dall’altra sponda, un vecchio con il suo gregge di pecore ci offrì un bicchiere di vino, per lo spavento. Fu lo stesso vecchio che incontrai tempo dopo, quando cominciarono a costruire le prime case, accanto agli argini del torrente. Rimase fermo ad osservare i cantieri ed ad aspettare che lo cacciassero più a nord sulla vallata. Lui e il suo gregge.

Ebbe il tempo di dirmi “un giorno, ‘u ciumi si porterà via tutto”, poi non lo incontrai più. I paesi sono rimasti, però. Anche più a sud di Giampilieri e Scaletta, dei quali si parla tanto in questi giorni. Sono rimasti con le loro case vicino agli argini. A Nizza, a Roccalumera, a Furci. Giù fino a Santa Teresa. Senza risparmiare i siti più turistici di Sant’Alessio e Letojanni.

Ma noi di Girodivite, avevamo osato raccontare l’ennesima invasione di fango a Letojanni, una settimana prima che i giornali e le televisioni nazionali ed estere si accorgessero che le frane fanno cronaca anche al livello del mare. Abbiamo commesso l’errore di volere lasciare nel dimenticatoio il nubifragio del 2007. Nei torrenti di Nizza ed Alì Terme, anche allora gli scantinati e i piani terra delle case furono allagati. Qualcuno perse l’auto, trascinata a mare dalla forza dell’acqua. E non mancarono carcasse di animali annegati, a fare compagnie alle auto.

Scaletta, poi, da tempo aveva innescato la miccia della tragedia. Era questione di tempo. E il tempo è arrivato. Puntuale ed implacabile. Più della stoltezza umana. Si, perché oggi si piangono i morti e le case distrutte dalla frana. Oggi si professano teorie anti-disastro e preveggenze specchiate nella realtà. Oggi ci si litiga sull’attributo “abusivo” da contrapporre ad un’assurda ma più opportunistica “fatalità”. Ma viene da pensare che è troppo scontato e banale, affermare che il territorio italiano è così precario e soggetto a calamità. Ma noi vogliamo essere scontati e banali. Come non lo siamo stati mai.

Vogliamo scrivere del ponte crollato sul fiume Po e le sue quattro auto cadute dentro, della primavera scorsa. Vogliamo scrivere dell’alluvione del 2003 di Siracusa e dei suoi campi allagati, le sue strade interrotte e la produzione di arance del lentinese distrutta. Vogliamo parlare dei paesini toscani con le casette medioevali che si affacciano sugli argini dell’Arno, che ha già dato dimostrazione di potenza devastatrice nel passato. Vogliamo parlare della costiera ligure devastata dall’edilizia, tanto da esternare un paesaggio da palafitte in attesa che il mare si riprenda tutto.

E potremo proseguire a ritroso, all’infinito, a ricordare e a dimenticare eventi-testimoni del dissesto italiano, non solo ambientale. Ci fermiamo a pensare al “palazzinaro” folle che ha costruito quelle case, così vicine al pericolo. Ci fermiamo a pensare al politico che glielo ha permesso, chiudendo gli occhi per una manciata di voti decisivi per la conferma del suo trentesimo anno di mandato.

Ci fermiamo a pensare al nostro vecchio e al suo gregge. Ci avrebbe offerto un altro bicchiere di vino. Per le stesse paure. Poi, tra un fischio e l’altro a ricompattare il gregge, ci avrebbe detto: “Cu è u pacciu, u pacciu o cu ci va appressu?”

Per i non locali, venite a Messina a spalare il fango rimasto. E tra una palata e l’altra, fatevelo tradurre.


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