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Del falso codice arabico

Saggio della prof.ssa Paola Pizzo che ha sapientemente ricostruito - con accurato rigore filologico e profonda passione per gli eventi – i legami tra il fatto storico e il romanzo (storico) di Sciascia a partire da un saggio di Adelaide Baviera Albanese.

di Donatella Guarino - mercoledì 18 giugno 2008 - 7196 letture

Nel romanzo “Il consiglio d’Egitto” pubblicato nel 1963 Leonardo Sciascia tenta di dimostrare come nella realtà umana e storica la verità possa apparire non chiara, confusa, mentre la menzogna riesca spesso ad acquisire parvenza di verità. Lo scrittore siciliano approfondisce sul filone de “I vicerè” di De Roberto e “Il gattopardo” di Tomasi di Lampedusa il tragico rapporto che lega il potere e i siciliani. L’occasione gli viene data da un fatto storico, un “autentico imbroglio” filologico-letterario accaduto a Palermo nel 1783.

Nel saggio che di seguito pubblichiamo la prof.ssa Pizzo ha - con accurato rigore filologico e profonda passione per gli eventi – sapientemente ricostruito i legami tra il fatto storico e il romanzo (storico) di Sciascia a partire da un saggio di Adelaide Baviera Albanese.

Il romanzo di Leonardo Sciascia riprende una storia già pubblicata da D. Scinà - nato a Palermo nel 1765 e morto nel 1837- ”Del falso codice arabico”, le cui pagine sono estratte dal “Prospetto della storia letteraria della Sicilia nel sec. VIII”, un’opera che per vastità d’informazione e sicurezza di giudizio può considerarsi fondamentale per una storia della cultura siciliana.

Scinà è il migliore scrittore in italiano che ci sia stato in Sicilia prima dell’unità, e figurerebbe degnamente tra i prosatori scientifici italiani di ogni tempo. Le sue sono pagine che fanno racconto, scritte in una prosa esatta e divertita da chi è stato testimone dell’annosa e clamorosa impostura dell’abate Vella. Sul racconto dello Scinà è stato pubblicato un saggio nel 1963 nel n. 4, dei “Nuovi Quaderni del Meridione” da Adelaide Baviera Albanese che illumina aspetti e moventi dell’ arabica impostura.

Comincerei dal saggio dell’Albanese che si avvale di un’attenta indagine archivistica sull’effettiva realtà storica su cui si fonda la storia dello Scinà, ripresa poi nel romanzo di Sciascia.

L’indagine, effettuata attraverso l’archivio storico che conserva i documenti del tempo, nonché attraverso una vasta bibliografia di cui l’Albanese si avvale per la sua ricerca (siamo nella Sicilia di fine settecento) è volta a scavare nella verità storica in cui si sviluppa un’impostura effettuata da un abate, Giuseppe Vella (maltese) ai danni soprattutto della nobiltà siciliana baronale con l’ausilio di un certo mons. Airoldi, fedele al vicerè e ai notabili del governo spagnolo di Napoli.

Il quadro storico-politico in cui si sviluppa la vicenda è quello della Sicilia dei vicerè, un ambiente in cui la nobiltà baronale esercitava il suo potere di affermazione, rivendicando onori e potere senza volere soccombere al governo di Napoli che esercitava il controllo sull’isola, rivendicando un ruolo di affermazione che non lasciava sicuramente libertà di gestione personale alla superba classe dirigente siciliana, del cui potere Palermo era il centro.

Tale contrasto era emerso fin dall’avvento di Carlo III ed era stato reso insanabile dal riformismo del vicerè Caracciolo che esprimeva da un lato un riformismo appassionato che lo spingeva verso i diseredati, dall’altro una gelosia dell’autorità e dell’interesse per la corona.

In Sicilia, ma soprattutto a Palermo, si respirava quest’aria di contraddizioni, dovuta alla posizione di un vicerè che difendeva il governo di Napoli, ma che al tempo stesso osteggiava, mostrando idee liberali.

In un contesto simile la classe dirigente siciliana, rappresentata dai notabili dell’isola rivendicava il proprio ruolo di potere autonomistico dal governo di Napoli. Dai documenti dell’epoca l’Albanese individua le origini del protagonista della vicenda: l’abate Vella.

Egli, residente nell’isola di Malta era di probabile origini siciliane. La sua famiglia era religiosissima e di modeste condizioni. La vicenda si sviluppa a Palermo dove l’abate si trasferisce da Malta.

Le motivazioni di tale venuta in Sicilia sembrano, dall’esame dei documenti, ricondursi ad un’assegnazione, decisa da una zia del padre, suora dell’ordine benedettino a Palermo, di celebrare messe, alla sua morte presso la chiesa di San Carlo.

Secondo il codice borbonico, in questi casi l’assegnazione veniva affidata ad un erede; quindi il Vella ottenne dalla Gran Corte Civile di essere autorizzato nel 1778 a godere di tale assegnazione.

La vita dell’abate a Palermo ci viene documentata dallo Scinà che lo rappresenta “ignorantissimo” e “misero” al punto da cercare di arrotondare le scarse entrate per mezzo della bizzarra attività di gabbare il popolino con le previsioni dei numeri del lotto .

Lo Scinà racconta che il Vella si dimostrava ansioso “a migliorar suo stato d’ introdursi co’ nobili”; tant’è vero che si inserì presto nell’ambiente della Palermo nobiliare, partecipando presso i salotti palermitani a conversazioni culturali e politiche del tempo.

L’abate si inserì completamente nell’entourage nobiliare e intellettuale palermitano, entrando in relazione con personaggi noti e con le migliori famiglie del capoluogo.

L’origine dell’impostura realizzata dal Vella parte dall’arrivo a Palermo dell’ambasciatore del Marocco nel 1782, del quale ci dà notizia il Villabianca nel suo “Diario” del 1785. Quest’ultimo lo descrive dettagliatamente, annotando i particolari della sua persona e delle vicende legate al suo arrivo a Palermo: “…aveva in volto la barba, tagliata uguale e assai pulita…Non accettava mai inviti di pranzi…..per non mangiarvi carni scannate e cibi proibiti dalla sua setta….Invece gradiva con sommo piacere di confetture e di dolci gelati…”.

Il Vella fu nominato dal vicerè Caracciolo ad accompagnare l’ambasciatore nella sua visita a Palermo. L’abate durante i giri con l’ospite fece diffondere la notizia che avesse con lui avuto conversazioni in arabo e che, in seguito alla visita presso il monastero di San Martino delle Scale, avesse scoperto un codice in arabo che raccontava della conquista araba della Sicilia e delle origini arabe dell’isola. Tale codice venne da lui stesso chiamato “ Consiglio di Sicilia “, falsando di quei manoscritti non solo il nome, ma anche il contenuto; infatti, in quei documenti si parlava della biografia di Maometto.

Egli si avvalse nella sua macchinazione delle informazioni sulla storia degli arabi in Sicilia di mons. Airoldi, giudice della Monarchia, che lo stimolò alla realizzazione di quell’opera e che contribuì al suo successo, garantendogli beni e possedimenti materiali, nonché una cattedra di arabo presso l’Università.

Il Vella aggiunse che , oltre alla scoperta del codice, aveva ricevuto dall’ambasciatore delle monete e tre preziosi manoscritti che egli aveva tradotto a dimostrazione della conquista araba dell’isola, cosa che avrebbe messo in discussione tutte le pretese e le rivendicazioni di potere della classe feudale dell’isola a vantaggio della corona. La sua fama cominciò a diffondersi e l’abate fu conosciuto in mezzo mondo per la scoperta del suo falso codice.

La scoperta di questo nuovo codice avrebbe garantito i privilegi della monarchia, confermando i rapporti tra la corona normanna e quella araba. In tal modo la linea riformistica e illuministica del vicerè Caracciolo e del suo successore Caramanico, il cui obiettivo era quello di limitare il potere della feudalità baronale siciliana, avrebbe acquisito ulteriore forza e conferma. Si trattava ora per l’abate di intraprendere un lavoro di creazione di questo codice, inventandolo di sana pianta.

La sua truffa proseguiva e l’ascesa al potere e l’inserimento nell’entourage della vita salottiera dei nobili continuava.

Anzi, i baroni avevano bisogno di sapere se in questo codice che il Vella intitolò “Il Consiglio d’Egitto”, ci fossero notizie di legami tra le famiglie di ciascuno e la monarchia normanna. C’era il rischio per molti di perdere feudi e potere, qualora non fossero stati inclusi nelle dinastie regali.

Nel suo lavoro l’abate ebbe il supporto e l’aiuto del segretario del vicerè Carelli, che vicino alle idee riformistiche, era competente in materie giuridiche e si era occupato del diritto delle proprietà dei feudi di Sicilia.

Dal saggio dell’Albanese risultano notizie su questo personaggio da lettere inviategli mentre egli era in servizio in Sicilia.

Dai documenti risulta essere uomo colto e di prestigio e se fosse stato coinvolto nella truffa sembra arduo ammetterlo.

Risulta, tuttavia, che tra l’abate e il segretario intercorressero rapporti e che partito per Napoli, il Carelli lasciò solo l’abate che subì il processo e fu costretto a confessare.

La sua confessione, tuttavia, avvenne tra l’alternarsi di falsi momenti di malattia cui seguivano altri pieni di salute, a seconda dei dispacci che arrivavano dal governo sull’impostura che cominciava a diffondersi in tutta l’isola.

Il Vella riuscì perfino a competere con uno studioso, l’Hager, che aveva scoperto come falso il codice normanno e che aveva intuito la truffa dell’abate.

Il suo lavoro era stato difeso e sostenuto dalla corona e alle prime avvisaglie dell’impostura la classe nobiliare siciliana non avrebbe potuto permettere che il potere del loro conservatorismo fosse minato da posizioni politiche “illuminate” dei vicerè che in fondo sostenevano il potere della monarchia napoletana contro l’arbitrio dell’aristocrazia siciliana.

La confessione del monaco maltese che aveva aiutato il Vella nel realizzare il falso codice era stato l’inizio della scoperta della truffa.

Mons. Airoldi, che in questo lavoro l’aveva sollecitato e che l’aveva protetto dai nemici che sostenevano che l’abate avesse realizzato dei falsi, non avrebbe potuto salvarlo oltre.

Il Vella che, dopo un’indagine effettuata da studiosi come Di Gregorio e Morso, aveva sostenuto la falsità prima del codice normanno e la veridicità di quello martinianeo, sostenne che anche quest’ultimo era falso e che egli era responsabile, comunque quanto il Carelli, della falsità anche del Consiglio d’Egitto.

La sua vicenda si conclude con il processo all’abate in una Sicilia in cui prevale il potere della nobiltà, perfino sulla corona.

La scelta di realizzare questo romanzo da parte di Sciascia, richiamandosi ad una vicenda realmente accaduta, come dimostrano i documenti archivistici, ripropone parte della storia della Sicilia in cui tanti romanzi dell’autore sono ambientati. Ma soprattutto rivelano quanto già nel Settecento il riformismo liberale, il progressismo illuministico fosse “anacronistico” in una terra dove il dominio baronale era indiscusso e dove le pretese autonomistiche dell’isola erano presenti solo per affermare il privilegio di una classe feudale, reazionaria e “immobilista”.

La vicenda di Di Blasi, accusato di essere un rivoltoso perché sostenitore di idee repubblicane è la dimostrazione del fatto che l’isola, e con essa tutto il meridione, fosse potere esclusivo di una “casta” potente e dal punto di vista politico e dal punto di vista economico: la nobiltà baronale.

La gestione politica di questa classe, il proprio potere indiscusso costituivano una forza tale da impedire qualunque interferenza, perfino del potere della monarchia. Il potere feudale era l’espressione anche del conservatorismo culturale chiuso fortemente agli ideali illuministici che in quegli anni avrebbero cambiato il volto della Francia e le menti di uomini “aperti” al cambiamento non solo ideologico ma anche politico.

La Sicilia è stata ed è una terra in cui “il cambiamento” impaurisce e Lo “status quo” rassicura e ammansisce gli animi. Tuttavia la vicenda del Di Blasi esprime, di contro, che in Sicilia tanti uomini “illuminati” e aperti hanno lottato e sono morti per il cambiamento.

Prof.ssa Paola Pizzo docente di Filosofia e Storia al Liceo Polivalente “Quintiliano” di Siracusa.


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Del falso codice arabico
25 giugno 2008, di : Maria

Salve..saggio molto interessante,volevo solo precisare che la prof.ssa Pizzo ha svolto questo lavoro per me; Prof.ssa Meli Maria( insegnante scuola primaria abilitata alla ssis di Ferrara).Si trattava di uno dei lavori richiesti dal prof.Carlo Bitossi docente di storia moderna alla SSIS di Ferrara. "Il falso ed i suoi usi"!A gennaio ho conseguito l’abilitazione nella classe di concorso A037 Filosofia e storia. La Prof.ssa Pizzo gentilmente si è offerta di aiutarmi a ricercare i testi molto antichi,visto che io abito e lavoro in E.Romagna, per cui non sarei mai riuscita a trovare il testo "L’arabica impostura"di Albanese ed altro materiale. Mi fa molto piacere che questo lavoro sia stato pubblicato, ma sarei stata ancora più felice se si fosse fatto anche il mio nome, naturalmente il lavoro è soprattutto della Prof.ssa Pizzo. Saluti Meli
Del falso codice arabico
30 giugno 2008

Ringrazio, innanzitutto il prof. Bitossi, docente di storia moderna alla SSIS di Ferrara e la prof.ssa Maria Meli, per avermi dato il piacere di contribuire ad un lavoro che ha dato la possibilità di indagare su un autore di grande levatura intellettuale della nostra isola. Grazie. Prof.P. Pizzo