Born to run: 40 anni per continuare a correre

Pubblicato il 25 agosto 1975, è ancora oggi considerato il masterpiece del Boss.
Descrivere e cantare l’America, le sue contraddizioni passate tra irraggiungibili grattacieli e casette di cartone di migliaia di homeless a dormire sui cigli delle strade in attesa di un nuovo pasto alla mensa dei poveri, l’american dream forse mai del tutto raggiunto da alcun natio del continente passato direttamente alla leggenda che "tutto qui è possibile", basta volerlo.
Sono le basi che hanno costruito e dato vita a quella cultura americana della perenne contraddizione tra il coesistere del sogno della realizzazione economica e, purtroppo, di milioni di dimenticati a fare i conti con un quotidiano di sufficienza che, spesso, ha costituito il loro tenore medio di vita.
Se la letteratura ci ha dato gli spunti di riflessione su queste contraddizioni degli Stati Uniti, attraverso le pagine di The town and the city del compianto Jack Kerouac, o The Air-Conditioned Nightmare di Henry Miller, fino a giungere ad un più recente American Pastoral di Philip Roth, tanto per citare alcuni titoli che hanno saputo mettere in risalto l’eccessivo divario delle classi sociali americane, nella musica tutto questo lo si è potuto ascoltare già ai tempi di Woody Guthrie e dei suoi stornelli on the road, tra un viaggio clandestino e l’altro su e giù per gli States.
Bob Dylan e Joan Baez ne hanno raccolto l’eredità culturale e, in chiave più moderna e personalizzata, Bruce Springsteen ha continuato il discorso. Il Boss si era presentato già al pubblico americano con quell’album, oggi fortunatamente riqualificato e apprezzato per il livello artistico già dimostrato all’epoca dell’uscita, The Wild, the Innocent & the E Street Shuffle che, solo per il pezzo conclusivo, New York City Serenade lasciava intravedere e intuire le qualità compositive di Springsteen.
Ma, come spesso capita, la consacrazione arriva quasi inaspettata, magari anche con produzioni che, pur eguagliando livelli artistici di altri dischi, sorprendono lo stesso autore per il successo di pubblico riscosso e non previsto. E’ stato così anche per Born to run, terza fatica musicale del Boss che, oggi 25 agosto, spegne quaranta candeline, dimostrando ancora una volta la sua attualità e consenso anche nelle generazioni successive alla sua uscita.
Versi come "Baby this town rips the bones/ from your back/ It’s a death trap,/ it’s a suicide rap", contenuti nella canzone omonima, sarebbero sufficienti per spiegare l’amarezza e la cruda realtà di un mondo senza scrupoli e senza sconti che Bruce Spingsteen ha provato a rendere ancora più dura con la distorsione della sua chitarra elettrica.
Quarant’anni sono una vita intera di un artista. Molti non possono permettersi il lusso di gratificarsi di un successo costante e senza cedimenti per un periodo così lungo. Le meteore artistiche, specialmente in campo musicale, hanno riempito e svuotato le pagine dei rotocalchi specializzati sull’argomento.
Riconoscendo la grandezza e la poetica di questo artista, ci rimane il disagio di dovere archiviare ancora, e chissà per quanto tempo ancora, quella durezza e quel falso mito americano che, per decenni, ci siamo trascinati dietro, illudendoci che, un giorno, ci avrebbe trascinati tutti in mondo migliore. Anche al di qua dell’Oceano.
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