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Il Signore degli anelli - Il ritorno del Re

Tutto ciò che ha un inizio ha una fine. O almeno così dicono… Certo che per quei poveracci della Terra di Mezzo ce ne è voluto di tempo…

di Sergio Di Lino - mercoledì 28 gennaio 2004 - 9914 letture

Non è peregrino immaginare che Peter Jackson sia giunto al termine della lavorazione dei tre episodi-fiume de "Il Signore degli anelli" letteralmente stremato. Eppure, a vedere l’ultimo episodio, "Il ritorno del Re", la prima, impressionistica sensazione è quella di un qualcosa di non finito, sorta di copia-lavoro per un’eventuale full lenght version (presumibilmente quella che vedrà la luce in DVD).

Tre ore e venti minuti di film bastano appena a Jackson per tirare le fila della sua saga, per incoronare Aragorn Re di una terra liberata dal giogo delle armate delle tenebre capitanate da Sauron, per restituire gli Hobbit a quella specie di Valle degli Orti che è il loro villaggio, per orchestrare una spettacolare battaglia a cielo aperto, per dipingere figure eroiche (Re Théoden, destinato a una morte gloriosa, su tutti; oppure Faramir, disprezzato dal padre ma determinato a mostrare fedeltà alla sua missione, fino alle estreme conseguenze) o meschine (l’infido Gollum/Smeagol, del quale il film racconta in un prezioso antefatto la nascita della sua fascinazione per l’anello, e la sua trasformazione nella creatura deforme che incrocia la strada di Frodo e Sam) o tragiche (il sovrintendente Denethor, impazzito per la morte del primogenito Boromir), per offrire ancora una volta un bizzarro, ossimorico saggio di epica postmoderna.L’impressione è che lo stesso Jackson volesse differire il più possibile la chiusura del film, a tal punto vi è rimasto immerso. E non a caso (mentre già si rincorrono le voci di un possibile adattamento del prequel "Lo Hobbit", a opera ancora di Peter Jackson - il quale però deve nel frattempo onorare l’impegno contrattuale già siglato per il nuovo remake di "King Kong" - che racconterebbe vicende precedenti alle avventure della Compagnia dell’Anello), dei tre episodi, quest’ultimo, pur immerso in un catartico furore bellico, risulta essere il più malinconico e triste.

Pur essendo una storia corale, la trasposizione di Jackson non può fare a meno di concentrarsi, di volta in volta, su uno o più personaggi, eleggendoli di fatto a protagonisti di ciascun film. "La Compagnia dell’Anello" era sicuramente dominato da Frodo e dalla quest da lui intrapresa; lui era il motore dell’azione, gli altri sembravano non fare altro che accompagnare i suoi movimenti (con la parziale eccezione di Gandalf, già dall’inizio configuratosi come figura trasversale e svincolata da dinamiche e dialettiche di racconto troppo rigide). "Le due torri" ruotava attorno alle gesta di Aragorn (spalleggiato dal laconico elfo Legolas e dal nano Gimli) e alla presa di coscienza del suo destino eroico, relegando Frodo e Sam in un ruolo quasi marginale e privilegiando piuttosto la figura, per così dire, esistenzialista di Gollum/Smeagol. A sorpresa, invece, "Il ritorno del Re" risulta alla fine letteralmente "mangiato" da Sam, il villico sempliciotto e terragno ferocemente attaccato al suo padrone Frodo e disposto a rischiare la vita pur di difenderlo; defilatisi Aragorn, Legolas e Gimli (ma il loro "arrivano i nostri" alla testa di un esercito di fantasmi è memorabile), ridotto ai minimi termini Frodo (succube dell’influsso nefasto dell’anello e delle maldicenze di Gollum), se si escludono le temporanee ascese di alcuni comprimari (Faramir, Théoden, Eówin) al rango di protagonisti, è la solida concretezza di Sam a fungere da motore della vicenda, a determinare, di volta in volta, gli scarti più significativi, le cesure, gli spostamenti progressivi del racconto. E fa sinceramente piacere riconoscere a Sean Astin (uno che anni fa era partito, ragazzino, con "I Goonies", si era un po’ perso nel magma della commedia adolescenziale americana, e ora è meritatamente risorto a nuova vita artistica) il merito di un’interpretazione con il cuore in mano, che lascia a tratti senza fiato.

E proprio questa sembra essere la peculiarità maggiore di questa saga: il fatto di non aver mai perso la propria dimensione umanistica, di lasciare spazio ai sentimenti e alle emozioni, di non vergognarsi di commuovere e commuoversi nel nome di ideali per i quali, sembrano dire Tolkien prima e Jackson poi, vale la pena combattere, uccidere e essere uccisi; in un territorio in cui l’epica diviene Mito il virtuosismo si fa strumento emozionale. "Il Signore degli anelli" è in fondo proprio questo: un apologo sconfinato sulla guerra e la pace, sul valore della tolleranza, il rispetto per la diversità e la necessità di preservare dei principi e degli ideali in cui credere e per cui battersi. Con un’unica riserva: era proprio necessario far sparire Saruman senza nemmeno dare al povero Christopher Lee l’opportunità di uscire di scena da par suo? Certo, duecento minuti sono già tantissimi; ma forse un paio di minuti di Christopher Lee in più all’inizio e un paio di minuti di Valle degli Orti in meno alla fine non avrebbero guastato (specie i secondi, ma si sa: de gustibus…).


- Ci sono 2 contributi al forum. - Policy sui Forum -
> Il Signore degli anelli - Il ritorno del Re
12 febbraio 2004, di : Luisa

Ciao Sergio, Volevo solo farti un chiarimento "Tutto quello che ha un’inizio, ha una fine" è parte dello slogan del film The Matrix e non certo del Signore degli anelli. Ti chiedo per cortesia che quando scrivi abbi cura delle parole che usi visto che le persone siamo molto attenti a tutto ciò che vediamo sia su internet che sulla tv.
    > Il Signore degli anelli - Il ritorno del Re
    18 febbraio 2004

    Ciao Luisa, come avrai certamente capito la mia non era una citazione letterale del film di Jackson o del romanzo di Tolkien, o di alcun trailer/spoiler/messaggio subliminale percepito dalla TV o da internet; mi sembrava semplicemente che, trattandosi anche in questo aso di una trilogia che andava a chiudersi, tale massima avesse un senso anche se avulsa dal contesto di riferimento primario.