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Topi, e gatti che stanno al balcone

Si cominciò a sentir parlare del culturavirus nel mese di gennaio del 3020. All’inizio sembrava impossibile, quel fenomeno che...

di Alessandra Calanchi - domenica 8 marzo 2020 - 2118 letture

Si cominciò a sentir parlare del culturavirus nel mese di gennaio del 3020. All’inizio sembrava impossibile, quel fenomeno che dai libri passava agli umani – e poi, in Cina, un paese così lontano! – e quindi non preoccupava troppo noi europei. Ma poi dilagò, ci raggiunse, ci spazzò via. Ma procediamo per gradi.

Il primo episodio avvenne in una biblioteca di Tientsin. Se ne accorse un lettore abituale, che vi si recava a consultare antichi manoscritti della dinastia Song per una qualche sua ricerca personale. Notò prima, in una pagina, che mancavano alcuni ideogrammi; e subito dopo, in un’altra, che la propria vista appariva confusa nel tentare di leggere. Si spaventò. Pensò dapprima che si trattasse di un suo malessere, magari di un malore; l’uomo era anziano, del resto. Ma dopo che se ne fu tornato a casa, senza dire nulla al bibliotecario, nel giro di pochi giorni parve disimparare gradualmente, e completamente, a leggere e scrivere; diceva sciocchezze, parlava a vanvera, non ricordava nulla o quasi della ricerca che stava eseguendo. 

In breve, le persone venute a contatto con lui ne furono contagiate. Aprivano un libro, sfogliavano un giornale, e non capivano nulla o quasi. La dinamica con cui questo morbo misterioso colpiva rapidamente e selettivamente libri e riviste, giornali e manoscritti, poteva forse essere dovuta – così si vociferava – a un qualche insetto misterioso, a una qualche muffa, a un qualche animaletto selvatico; ma il fatto che si trasmettesse agli umani destò seria preoccupazione nel mondo scientifico, in quanto mai si era visto prima che un virus della carta potesse trasmettersi agli esseri umani. A poco a poco chi ne era contagiato perdeva la concentrazione, o l’attenzione, o la memoria; o tutte e tre insieme. Di qui a fare discorsi stupidi e privi di senso, preferire un giro al centro commerciale piuttosto che una visita alla biblioteca di quartiere, il passo fu breve. La cultura sembrava ritrarsi all’avanzare del virus. 

Si fecero varie ipotesi, a quel tempo, sulle origini del curioso morbo. La più accreditata era quella che incolpava un tipo particolare di creatura che si credeva estinta, ovvero il topo di biblioteca, essere pericoloso in quanto intellettuale e dunque creatura ibrida che si nutriva – così pare – di cultura, di spirito, di conoscenza. Ma c’era anche l’ipotesi cospirazionista, secondo la quale si trattava piuttosto di un complotto su scala planetaria messo in atto dai produttori di videogiochi elettronici a scapito della Letteratura con la L maiuscola. Qualcuno insinuò il dubbio che dietro le quinte i vari governi di tutto il mondo, alleati tra loro, stessero sperimentando la reazione della popolazione globale all’assenza di cultura, all’isolamento domestico coatto, all’analfabetismo di ritorno. Ci fu addirittura chi scomodò gli hikikomori, sostenendo che se il Giappone era il secondo luogo più colpito al mondo dopo la Cina, doveva pur esserci un motivo: e questo non era, ovviamente, il fatto che le due nazioni confinassero (come un politico italiano contagiato precocemente dal culturavirus aveva avuto l’ardire di sostenere), bensì che la setta dei giovani autoreclusi aveva preso il potere contro chi ancora usciva di casa.

Comunque stessero le cose, il virus raggiunse presto il resto del mondo, e l’Italia – che evidentemente non aveva capito bene di cosa si trattasse, e credeva di essere alle Olimpiadi – si guadagnò il terzo posto. Del resto, era piena di musei, librerie, biblioteche, atenei anche molto antichi... ed era quindi difficile restare immuni dal culturavirus! In breve si ammalarono non solo lettori comuni, vecchietti che al bar leggevano il giornale, e gli alunni delle elementari, ma anche gli studenti delle università, e addirittura alcune maestre e professori, bidelli e segretarie, presidi e rettori, bibliotecari e librai. Tutti, prima o poi, vennero a contatto col morbo! E dai libri cadevano le pagine, le riviste perdevano parole e frasi a fiumi, e – orrore! – nei volumi delle librerie restavano solo il prezzo e il codice isbn.

In campo medico – perché qualcuno pensò a un certo punto di consultare un dottore – nulla si poteva fare; non esisteva alcun farmaco, antidoto o vaccino al mondo che potesse ripristinare la cultura, una volta perduta. Anzi, da parte loro i medici, per evitare il contagio, proclamarono la chiusura degli ospedali e degli ambulatori e collaudarono finalmente il Servizio Sanitario Nazionale Online (che già da qualche anno stavano sperimentando in segreto), in modo che gli utenti – pardon, i pazienti – da casa potessero usufruire dei servizi medici senza affollare gli ospedali e rischiare così di contagiarsi leggendo gli avvisi sulle porte o scambiandosi un libro al book-crossing. Chi si ammalava, ora poteva guarire con un click! Accendeva il pc, entrava nella piattaforma MCult (La M è una W rovesciata) e poteva fare una chat col proprio medico, mandargli le foto delle eventuali abrasioni, ferite, brufoli, ecc. E anche i ricoveri diventavano virtuali, perché si sa, virtuale è reale come dicono i sociologi e quindi bastava scegliere la app giusta per essere curati, operati, medicati. Fare figli era un tantino più laborioso, ma fu implementato un tutorial user-friendly per neomamme e neopapà che semplificò di molto le procedure.

Intanto, dalle biblioteche sparivano i libri, le librerie iniziavano a vendere oggetti d’arredo, e le edicole chiusero per sempre. Le scuole e le università riaprirono, ma le lezioni si tenevano da remoto, e non serviva più nemmeno uscire di casa. Anche le tesi di laurea si discutevano online, però i festeggiamenti si continuavano a fare all’aperto, e i cori “dottore, dottore” continuavano, perché quella mica era cultura! e più i libri calavano, più i coriandoli aumentavano. (Su questo fu fatto anche uno studio, pare pubblicato su Nature, che ebbe risonanza mondiale. I sette autori, di cui il primo era uno studente, vi sostenevano con decisione l’inesistenza di alcun rapporto di causa-effetto tra i due fenomeni, per quanto i soliti complottisti dichiarino tuttora di essere in possesso di prove inconfutabili: pare che anni dopo, infatti, fossero state scoperte varie centinaia di foratrici nelle abitazioni di tutta Italia).

Purtroppo le fonti scientifiche di cui oggi disponiamo sono esigue. Al momento non esistono libri e, a onor del vero, non si può avere alcuna certezza che siano mai esistiti. Lo story-telling ha inghiottito ogni possibile forma di narrazione, la poesia è un genere orale di prima necessità solo per i bambini, e non esistono riviste e giornali. Non esiste nemmeno la lista della spesa: chi è così sprovveduto da non farla da casa, davanti al pc, e ha voglia di farsi un giro fuori, magari va al supermercato, si guarda intorno, e acquista quello che più gli piace in quel momento. Che importa se, una volta arrivato a casa, scopre che ha già comperato le stesse cose, e ha l’appartamento pieno di cavolfiori e detersivo per lavastoviglie? Perché anche la memoria appartiene al passato. Oggi ricordare è un’usanza antica, un verbo desueto, un atto faticoso ed estremo. È già tanto avere la consapevolezza dei propri dati personali e della fisionomia dei propri familiari. Ogni tanto qualcuno sbaglia addirittura automobile, o domicilio. E allora, a scuola che si fa? direte. Beh, a scuola si impara sempre la stessa lezione – tanto, il giorno dopo l’avremo già dimenticata. E comunque, non ci sono più i docenti, perché a cosa servono? Sono stati da tempo sostituiti dalle videoregistrazioni che fecero loro stessi tanto tempo fa.

E cosa fanno le persone? Sperdute in un eterno qui-e-ora, non si interrogano sul futuro, non ricordano il passato. O forse, ne hanno una vaga sensazione. Come un gatto che sta al balcone, e guarda fuori, e non sa nulla del mondo, ma ricorda il sapore del topo, senza sapere che sta ricordando.


Credits. L’icona è una illustrazione di Monique Felix, tratta dal suo libro: C’era una volta un topo chiuso in un libro (Emme edizioni).



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