Quattro note scolastiche e mezzo di un genitore e militante politico

La gran parte di noi adulti smette di farsi delle domande e si veste per abitudine
Uno: l'enigma
Una domenica di questo luglio, in uno degli ottimi dibattiti organizzati nell'ambito del secondo campeggio nazionale delle resistenze a Monte Sole (Marzabotto), dal pubblico è risuonata la solita domanda: perché gli italiani votano Berlusconi? Questione al tempo stesso oziosa ed enigmatica, cui vengono fornite – il più delle volte già da chi retoricamente la pone – risposte che rimbalzano tra la sponda dell'informazione e quella della formazione. “Essi non sanno”, insomma; e ancora: “essi non hanno imparato a sufficienza”, ovvero “a essi non è stato insegnato” - si parla dunque, esplicitamente, di scuola.
Qui non dirò nulla sull'informazione. Ma sulla formazione voglio ricordare che mai nella storia umana gli anni di apprendimento sono stati tanti quanto oggi, mai così tante le nozioni e le procedure trasmesse, mai così tanti gli strumenti intellettuali messi a disposizione dell'individuo a partire dall'età più precoce.
Mi riesce dunque assai faticoso anche solo ipotizzare che ci possa essere carenza di scolarità – e che quindi possa essere questa la causa per cui gli italiani votano Berlusconi. E per quanto la scuola sia sotto attacco costante; per quanto la precarizzazione, i tagli e l'insipienza ministeriale ne possano peggiorare la situazione, veniamo comunque da decenni di scuole gratuite, diffuse – talvolta addirittura buone. Dunque la risposta a perché gli italiani votano Berlusconi? non va cercata in un deficit formativo, non va indagata tra le pagelle come farebbe un ispettore ministeriale; né la cultura milita necessariamente dalla parte del progresso sociale, come pretende un'opinione tanto indimostrabile quanto persistente.
Sarebbe opportuno sgomberare il campo da questo cortocircuito argomentativo che ci impedisce di riconoscere come la scuola sia non solo nel mondo ma anche, pienamente e integralmente, del mondo (al pari di ogni altra istituzione); e di ammettere come la sua funzione non abbia – in sé- nulla di eversivo o anche semplicemente oppositivo: è semplicemente lo strumento con cui in questo momento della vicenda umana si trasmettono le conoscenze e il loro uso.
Sarebbe inoltre il momento di smettere di pensare, in modo errato e inutilmente consolatorio, che con più scuola le persone sarebbero migliori, e quindi non cadrebbero nelle seduzioni dei mass media (e di conseguenza non voterebbero Berlusconi). Tra l'altro quest'illusione rispecchia e perpetua una separazione tra cultura alta e cultura pop(olare) che in anni un po' più coraggiosi sembrava ci fossimo lasciati alle spalle, e suggerisce che siccome le istanze dell'eguaglianza sociale, della libertà individuale e della promozione sociale non hanno saputo fare breccia nella seconda sia ben meglio fare leva sulla prima – in un ripiegamento salottiero e istituzionale da gauche-caviar.
Sarebbe infine bello fare una battaglia per la difesa e il finanziamento adeguato della scuola pubblica senza sovrainvestirla con proiezioni e aspettative salvifiche. Che ne sarebbero tradite, costringendoci a un dosaggio ancora maggiore di attese e speranze, in un crescendo da tossicodipendenza pesante.
Due punto uno: la felpa
Non vorrei aver dato l'impressione di sottovalutare l'importanza strategica, ai fini del benessere e dell'emancipazione dell'individuo, della formazione. Ognuno di noi quello che sa lo ha in parte imparato a scuola; anche i più tenaci autodidatti (tra cui mi annovero, orgogliosamente) vi hanno appreso procedure e strumenti che hanno poi consentito loro di fare, almeno in parte, da sé. Non voglio minimamente mettere in dubbio che le battaglie per la difesa della scuola (e dei suoi lavoratori e lavoratrici) siano meritorie e necessarie. Voglio piuttosto evidenziare la piena partecipazione dell'istituzione scolastica alle dinamiche politiche e sociali in atto. Comprese le più deteriori: prenderne coscienza è necessario.
Lo scorso aprile, sulla base di una delibera del CdI, alla Scuola Media San Fior in provincia di Treviso è stato introdotto l'obbligo della divisa: ogni studente ha ricevuto una felpa ed una maglietta: l'unica cosa che cambia è il colore, che per i ragazzi è azzurro e le ragazze è rosa (altre fonti giornalistiche recano rosso e non rosa, e voglio ben sperare sia vero: che stucchevole sarebbe tutto quel rosa!).
Ora, quella della divisa a scuola è una tematica ricorrente, che fa peraltro uso di materiale propagandisco mutuato da un malinteso egualitarismo che potrebbe anche piacere alla parte più malaccorta della sinistra.
Che l'operazione trevigiana nasca infatti sotto il segno dei ribaltamenti semantici e dell'ammiccamento a valori gauchistes – in un modo che definirei Orwelliano, nel senso di doublethink e quindi doublespeak – lo dice il claim stesso dell'iniziativa: divisa a scuola, un simbolo di democrazia. Ma lo dicono ancor meglio le parole del comunicato ufficiale dell'istituto: il figlio dell'industriale e il figlio dell'operaio indossano lo stesso vestito prescritto dalla scuola [...] Gli scopi principali della divisa sono di rafforzare il senso di appartenenza a un gruppo e livellare la condizione sociale degli studenti (fonte). Quindi, se ne desume: la promozione sociale viene simboleggiata (non praticata!) per via tessile, e questo comporterebbe un livella[mento] della condizione sociale degli studenti. Di rado ho sentito sciocchezze così grosse; e non fatico a pensare che in realtà il solo portato di tale approccio sia l'alibi fornito all'istituzione (e alle persone che le danno corpo) per ignorare più facilmente le difficoltà degli alunni fragili – che sono tipicamente quelli per famiglia e ceto sociale più sgangherati.
Ma non è finita qui, c'è anche un tocco di bigottismo: non va sottovalutato che spesso i nostri ragazzi, stereotipati dai modelli dei media riproponendo scollature e ombelico in vista, reiterano uno stile tutt'altro che sobrio. A parte la pessima prosa, qui entriamo in un campo moralisteggiante e fustigatoreggiante che mi pare incomparabilmente più pericoloso – per le nostre faticosamente conquistate libertà - di un silente crocifisso appeso in aula (e così mi attiro l'odio dei laicisti, lo so...)
E c'è, nella piccola Scuola Media di Treviso, anche l'altro grande feticcio del dibattito politico contemporaneo: il bipartisanismo, ovvero la condivisione di una costellazione di valori (quelli della maggioranza morale, assai meno neutri di quanto si voglia far credere). Infatti i contrari, ben pochi fin dall'inizio, si convincono ex post della bontà dell'iniziativa: alcuni erano contrari, ma poi si sono ricreduti, come racconta un altro genitore al quotidiano [la repubblica]: "Non ero d'accordo perché non credo che le differenze tra gli studenti vengano superate in questo modo. I problemi della scuola sono altri e non vengono mai affrontati. In ogni caso ora vedo che i ragazzi indossano le felpe e non mi risulta che ci siano lamentele". Questo genitore, di chiaro stampo democratico e progressista, è indotto dal clima culturale a fare anche lui una bella inversione semantica: il (ben)altro, un tempo usato per puntare velleitariamente verso il cielo (ci vuole benaltro... ci vuole la rivoluzione!) viene qui usato come dressing per deglutire meglio quello che a tutta prima gli sembra un rospo, ma poi si rivela – visto che “tutti sono d'accordo, nessuno si lamenta” - la principessa delle bistecche. Tutti lo dicono, quindi dev'essere vero: il bipartisanismo è servito.
Poteva poi mancare in un'operazione così raffinata chi rappresenta i veri valori della nostra società? Certamente no: i capi d’abbigliamento sono acquistati con un contributo di 4 mila euro della Banca...
Ma la dichiarazione più autentica, ultimativa e spontanea - nella totale ignoranza delle conseguenze filosofiche e concrete delle parole che si dicono - è quella della dirigente scolastica Loredana Buffoni: la divisa è un ottimo deterrente al bullismo e rappresenta una scelta di libertà, perché affranca ragazzi e genitori dal dover decidere ogni mattina cosa indossare, permettendo di avere più tempo ed energie da dedicare davvero a se stessi.
Di qui, all'affrancarci dal fastidio di decidere come pensare, come consumare, come schierarci politicamente, come condurre la nostra vita privata – ecco, il passo è spaventosamente breve. Mettete in fila le parole chiave: libertà... è essere affrancati... dal dover decidere. E, non meno drammaticamente: una rappresentante delle istituzioni decide cosa significhi “dedicarsi davvero a se stessi” e lo impone a individui in formazione. Fate un po'voi: a me non pare cosa trascurabile.
Due punto due: scene di vita domestica
Quando le ho riportato la notizia trevigiana mia figlia, che frequenta le scuole medie, stentava a credermi. Attraversa un periodo in cui le riesce difficile scegliere come vestirsi – ciononostante non accetterebbe imposizioni dal suo preside, e giustamente neppure troppi consigli dai genitori. Alle elementari accostava liberamente colori e nuances senza timori di eccedere, e lo faceva con tanta esuberanza da essere portata da alcune mamme a esempio negativo di disordine cromatico: ma come ti sei vestita stamattina? - dicevano alle figlie se troppo colorate – sembri la [nome di mia figlia]! Ora quella spontaneità è andata naturalmente perduta con l'affinarsi del gusto, ed è quindi alla ricerca di un suo stile personale – che ancora non sa trovare.
In verità credo che sia sempre e per sempre difficile vestirsi; solo che la gran parte di noi adulti smette di farsi delle domande e si veste per abitudine, per ceto o impegno professionale. Come suppongo faccia la preside della scuola trevigiana – senonché sono quasi certo che il giorno in cui il tailleur che oggi porta volontariamente le fosse imposto per norma le verrebbe voglia di indossare una gonna da zingara (o no? Forse sono troppo ottimista: libertà... è essere affrancati... dal dover decidere).
Non interrogarsi più su come vogliamo apparire è una delle tante attività intellettuali che smettiamo di praticare con l'età. Eppure la tensione dinamica tra divisa obbligata/ divisa volontaria/ individualismo è una cosa che una scuola che volesse davvero dare ai ragazzi gli strumenti critici necessari per poter leggere la realtà, comprenderne i meccanismi e viverla in maniera critica e consapevole (fonte) dovrebbe indagare – finendo per parlare, peraltro, di qualcosa che a studenti e studentesse interessa da vicino. La risposta non sarebbe scontata: talvolta la consapevolezza milita dalla parte della divisa indossata volontariamente (si veda qui sui ragazzi dalle magliette a righe del 1960), assai di rado da quella della divisa coatta, in altri casi nelle scelte anticonformiste – come quelle che mi spingevano a punkeggiare fuori tempo massimo in una scuola di paninari e tamarri.
Ma il programma-da-finire-entro-giugno preme, per queste cose non c'è tempo e io mi trovo di nuovo solo con il problema: la più scuola, più scolarità che si reclama come bene-in-sé è davvero capace di essere tale? O quella cui ci riferiamo quando ci opponiamo sacrosantamente alla distruzione della scuola pubblica è una scuola immaginaria, libera e democratica - che poi nella realtà non c'è o non c'è mai stata?
Perché se così fosse sarebbe meglio dircelo, foss'anche solo per evitare quanto segnalavo prima: un cortocircuito tra richiesta di più scuola per sanare l'ignoranza politica e la dolorosa scoperta di cosa sia, o sia diventata, la scuola pubblica italiana. E non parlo di tagli agli organici, ma di ideologia.
Tre: fumo
Ancora più aberrante, e quasi altrettanto ignorato dal dibattito politico, quando accaduto a Terni. Oncologi, nutrizionisti e psicologi hanno tenuto corsi nelle classi di un ITC cittadino per spiegare come e perché smettere di fumare; alcuni ragazzi hanno promesso di farlo (parola di Giovane Marmotta, signor Gran Mogol!), un apparecchio di misurazione del monossido di carbonio espirato dai polmoni nelle ultime ventiquattr'ore ha tenuto la funzione di macchina della verità - et voilà: chi aveva smesso di fumare ha ottenuto voti più alti. Come aveva promesso il Preside, che si chiama Metastasio e avendo già nel nome letteratura e oncologia ha purtroppo scelto di fare incursioni nella seconda.
Un amico insegnante racconta dopo ogni scrutinio come sia duro tenere fermo il principio che debba essere valutato il rendimento e non la persona – e apprezzo puntualmente la sua battaglia, a suo dire talvolta solitaria, nei consigli di classe. Ma Terni, se la scuola di Terni dovesse fare scuola, ci sospinge in tutt'altri lidi. Questi qui premiano comportamenti salutisti, che nulla hanno a che vedere con il rendimento scolastico, con il moralismo di chi se ne erge a giudice - magari bramando segretamente la fine della seduta per farsi una paglia.
Nondimeno all'ITC ternano si educano ragazzi e ragazze al purtroppo probabile futuro che li aspetta, e che chiunque sappia leggere le dinamiche del tempo presente può prefigurare: nel giro meno anni di quanto non si immagini il SSN non rimborserà più le cure delle malattie in cui possa essere reperita una responsabilità del malato (tumori legati al fumo, alcolismo – magari in prospettiva anche MTS), così come non verranno più pagati i giorni di malattia per influenza ai dipendenti che non avranno fatto la vaccinazione. Ohé, Cassandra, che stai a dì? obietterà più d'uno. Non dispongo di sfere di cristallo, ma posso invitarvi a fare attenzione al modo in cui vengono presentate le notizie: la malattia, ben fuori dal campo della sofferenza (chi ne parla mai?) è caratterizzata nel discorso pubblico e televisivo soprattutto da costi economici e giornate di lavoro perse. E nella stessa direzione puntano le iniziative dell'adoratissimo oncotuttologo Veronesi, che si batte contro le nocività private (fumo, talvolta anche: polenta) e a favore di quelle di Stato (gli inceneritori).
Ma torniamo a Terni. Il resoconto giornalistico – pur pubblicato da un grande giornale, La Stampa, qui – stupisce per sciatteria e imprecisione (quali voti vengono alzati? E chi non ha mai fumato che farà? Qualche tiro giusto per smettere?); nondimeno se ci fossero state tracce di opposizione non credo sarebbero del tutto sfuggite alla giornalista, che le avrebbe registrate parimenti alle espressioni di piaggeria: alcuni studenti avrebbero infatti chiesto all'illuminato preside della campagna antismoking di installare sensori antifumo nei bagni della scuola, dove ad entrarci, fino a qualche tempo fa, si era accolti da barocche volute di fumo.
Di nuovo doublespeak e doublethink: l'oscurantista moralisteggiante diventa illuminato. I ragazzi – acuti come sempre, e ricettivi - hanno capito benissimo che l'opposizione sarebbe vana: che libertà volete, di farvi male? sarebbe la pronta obiezione del potere. Obiezione così scaltra e affettuosa da richiedere benaltra esperienza di vita e di parole di quella di un diciottenne - per rispedirla al mittente con un metaforico calcio. Educati dallo strisciante autoritarismo che respirano dall'inizio del loro percorso scolastico a muoversi liquidamente e a sfruttare la forza dell'avversario, meglio dei migliori epigoni di Sun Tzu, i ragazzi si piegano, si fingono docili e stanno al gioco dell'inganno reciproco che sembra essere la norma nel rapporto tra istituzione e studenti. Capiscono l'andazzo e chiedono al Metastasi(o) di controllarli ancora un po'di più.
Vorrei di nuovo che esistesse, come già detto, una scuola in grado di dare ai ragazzi gli strumenti critici necessari per poter leggere la realtà, comprenderne i meccanismi e viverla in maniera critica e consapevole – e che indagasse quindi su se e come sia lecito farsi del male, su habeas corpus - per così dire - e diritto alla cura, telecontrollo e scatolette della verità. Ma, proprio perché la scuola è del mondo (e non solo nel mondo), di questo mondo e della costruzione del suo senso comune non si parla, se non marginalmente a opera di qualche insegnante volenteroso.
Quattro: cantiere della costituzione
Nonostante vengano ossessivamente
reiterati insegnamenti della Costituzione fin dalle elementari, le
scuole sono spesso la palestra in cui – per motivi di ordine, di
disciplina, di salute: i soliti di ogni autoritarismo – si abituano
ragazzi e ragazze alla negazione dei più elementari diritti
costituzionalmente garantiti. Il diritto ad apparire come vogliono, e
veicolare con i loro vestiti i messaggi che più gradiscono, il
diritto a non subire punizioni collettive, il diritto ad assumere
droghe legali, il diritto alla difesa dai provvedimenti del potere
pubblico, il diritto anche a non avere una condotta salutista e
neppure sana, al limite... Il primo diritto da tutelare, come
ho già avuto modo di dire (qui)
è sempre quello di chi è un po' più sporco e
cattivo di altri, non fa la cosa giusta, sfumacchia al cesso,
disturba con attività di strada: Charlie fa skate / non
abbiate pietà / crocifiggetelo / sfiguratelo in volto
cantavano duramente i Baustelle in merito all'ipocrisia che informa i
nostri rapporti con gli adolescenti; e ancora: Charlie fa surf /
quanta roba si fa: / emme-di-emme-a / ma ha le mani inchiodate.
Ha le mani inchiodate, come nella
sconvolgente scultura di Cattelan che ha ispirato i musicisti –
e non a caso su di un banco scolastico.
E
i ragazzi e le ragazze queste cose le capiscono benissimo. Come in
ogni altro processo educativo a scuola passa il messaggio sottostante
assai più di quello superficiale; quello vissuto assai
più di quello espresso verbalmente. Se il dettato
costituzionale è ridotto ad apparenza e forma, e viene
insegnato in un contesto che lo nega, ciò che giustamente
percepiscono gli studenti è: dite di sì e
conformatevi, anche se vi è negata la libertà cui a
parole vi educano. Imparate che oggi non siete liberi perché
siete troppo piccoli, domani non sarete liberi perché sarete
operai della Pomigliano globale, dopodomani perché dovrete
accettare ogni sopruso per non essere schiacciati dall'arroganza di
un potere corrotto in quasi ogni sua manifestazione. Ci sono ottimi
motivi per non essere liberi: la libertà è
sempre un costo, la libertà ha sempre un costo,
individuale e sociale. Più scuola dunque. Va bene, ma
dove sono gli anticorpi per evitare che più scuola
possa diventare ancora più autoritarismo?
Infine
Non traggo alcuna conclusione. Ho solo giustapposto qualche elemento di dubbio rispetto all'automatismo retorico che vede nella formazione, e nelle istituzioni a ciò preposte, gli strumenti che potrebbero farci uscire dal pantano socio-politico-ambientale in cui stiamo sprofondando. Non condivido questa visione, e non ritengo che mantenerla in piedi nonostante le evidenze - come si fa da più parti, dalle mie parti - giovi alla indispensabile, nobile e necessaria lotta per la tutela e il rilancio dell'istruzione pubblica.
Tutto qui. Poi, posto questo distinguo e tornato nei fatti concreti, sarò sempre con chi si batte per la scuola pubblica.
Wolf Bukowski
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