Papa Bergoglio, la Chiesa cattolica e i beni delle mafie
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Un pensiero apparentemente semplice, ma, al tempo, innovativo. Seguire, confiscare i beni mafiosi e, poi, reimmetterli nella società, a favore della comunità, come bene pubblico. Questo fu il criterio alla base di una legge del 1982, la Rognoni-La Torre, che definiva giuridicamente il concetto di mafia e decretava il sequestro e la confisca dei beni mafiosi; negli anni Novanta, con la legge 196 del 1996, si stabiliva che tali beni potessero essere riutilizzati per scopi sociali.
Che la confisca e la destinazione sociali dei beni mafiosi siano un provvedimento adeguato è dimostrato dal fatto che, da Riina in poi, i boss hanno manifestato sempre un atteggiamento di profonda avversione nei confronti di questo impianto normativo. Perché, come suggerisce un interessante documento della Regione Lombardia relativo al problema delle ricchezze confiscate alla criminalità organizzata, «il mafioso può accettare di andare in carcere, anzi lo mette in conto sin dall’inizio, ma “togliere i piccoli alla mafia” – la frase è di Pio La Torre – diventa per quest’ultima un affronto e un provvedimento legislativo insopportabile». È di questi giorni, del resto, la notizia di un’interrogazione parlamentare diretta al ministro dell’Interno Piantedosi – firmata dal pentastellato Roberto Scarpinato e da altri senatori – con la quale si invita il governo a prendere posizione nei confronti di chi, con intimidazioni e violenze, ha costretto alcune famiglie locate in un edificio confiscato a un mafioso palermitano ad abbandonare lo stabile per timore di ulteriori ritorsioni.
Ed è proprio su questo tema che il 20 e il 21 settembre scorsi, promossa da Libera, si è svolta presso la Pontifica Accademia delle Scienze Sociali del Vaticano la Conferenza sull’uso sociale dei beni confiscati alla criminalità organizzata. All’evento hanno preso parte le delegazioni di associazioni provenienti dall’America Latina, rappresentati di alte cariche di Interpool, CPI (la Corte penale internazionale), OSCE e altre istituzioni, oltre a membri della realtà universitaria, ecclesiastici e magistrati giunti da Argentina, Brasile e Italia. Condividere le esperienze comuni, riflettere sulla questione e offrire una dimensione globale alla strategia di utilizzo sociali dei beni sottratti alle mafie era l’obiettivo di fondo della conferenza.
Al di là dei contenuti emersi, ciò che pare interessante, per tante ragioni, è il documento stilato da Papa Bergoglio e inviato come messaggio ai partecipanti all’incontro. È interessante, in generale, perché attesta una sensibilità per la questione della criminalità organizzata che, di fatto, non è stata sempre appannaggio della Chiesa romana; su queste pagine, in altre occasioni, si è cercato di fare il punto sul lungo, e spesso colpevole, silenzio delle gerarchie cattoliche in merito (https://www.girodivite.it/La-Chiesa-davanti-alle-mafie-in.html). Un decennio fa, era stato lo stesso Papa Francesco, nell’omelia pronunciata a Cassano all’Ionio nel giugno 2014, a parlare apertamente di scomunica, riferendosi ai mafiosi: «i mafiosi sono scomunicati, non sono in pace con Dio».
Un mutamento di atteggiamento dinanzi al problema che viene ribadito, appunto, dal messaggio sopra citato. Bergoglio, infatti, afferma esplicitamente che la lotta contro la criminalità organizzata è «una delle sfide più importanti per la comunità internazionale, poiché [le mafie rappresentano], insieme al terrorismo, la minaccia non militare più rilevante contro la sicurezza di ogni nazione e la stabilità economica internazionale». Difficile equivocare le considerazioni del Papa, che non si limita, tuttavia, a sottolineare la gravità del fenomeno, ma prende anche le distanze dall’approccio al tema del cardinale Czerny – a capo del Dicastero per lo Sviluppo Umano Integrale, presso il quale è stata istituita una Commissione destinata a occuparsi di rendere operativa la scomunica pronunciata dal papa dieci anni fa – per il quale la mafia è un problema italiano. Se, di fatto, il cardinale ha svuotato dall’interno il lavoro della Commissione promossa dal Pontefice, demandando alla Cei il compito di occuparsene e confermando quanto la questione del contrasto alle mafie sia tutt’altro che pacificamente acquisita in seno alla Chiesa cattolica, Bergoglio ha, invece, nettamente ribadito che la criminalità organizzata ha un respiro ben più ampio di quello nazionale italiano, che quella delle mafie è una ferita transnazionale e va, per conseguenza, affrontata come un «problema mondiale con una reazione mondiale».
La differente valutazione del fenomeno offerta dal Papa e dal cardinale Czerny riproduce una spaccatura osservabile in ogni altro ambito delle comunità associate, fra quanti riconoscono l’urgenza di contrastare le mafie partendo dalla loro globalizzazione e quanti, invece, continuano a parlare di un problema locale, tutt’al più italiano; senza contare, ovviamente, i negazionisti puri o i fiduciosi ottimisti che celebrano la fine delle mafie. Volto a elogiare il modello italiano di recupero e reinserimento dei beni mafiosi nella società civile, il messaggio di Bergoglio sopra richiamato è interessante anche per altri motivi, a partire dalle considerazioni significative intorno al danno sociale provocato dalla criminalità organizzata. Nella sua brutalità, quest’ultima, osserva il Pontefice, «attenta al bene comune: attacca milioni di uomini e donne che hanno diritto a vivere la propria vita e a cresce i propri figli con dignità e liberi dalla fame e dal timore della violenza, dell’oppressione o dell’ingiustizia». Bergoglio afferma che è intollerabile «dimenticare queste vittime perché solo pensando a loro si può comprendere il danno provocato dal crimine organizzato». In tal senso, continua il primate cattolico, i proventi del crimine possono fungere da riparazione dei danni causati alle vittime e alla società, possono servire «alla ricostruzione del bene comune e alla pacificazione».
Al di là delle divergenze, non da poco, interne al mondo cattolico, quantomeno alle sue gerarchie, la posizione del Pontefice non lascia dubbi sul fatto che una componente di quel mondo sia adeguatamente lucida nell’analisi del problema, che abbia ben chiaro che non esiste conciliazione tra i comportamenti mafiosi e la chiesa, che le consorterie criminali sono tutt’altro che battute o sconfitte, che il danno sociale ed economico portato alla vita associata sia enorme. A fronte del perdurante silenzio del ceto politico italiano circa il tema mafioso o, almeno, della sospetta rilassatezza con la quale tratta la questione, le parole di Papa Francesco non possono che apparire confortanti. A parte i soliti noti, anche il Vaticano pare aver scorto che esiste un problema rilevante, ormai ampiamente diffuso oltre i confini nazionali e capace di erodere gradualmente il piano dei diritti individuali e collettivi e non da oggi.
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