Guerra in Ucraina tra letteratura, certezze e mezze informazioni
L’uso del luogo comune e della retorica nella propaganda di guerra. Contro il pensiero unico. A partire dall’analisi di un testo pubblicato sul quotidiano La Stampa
La guerra ispira spesso – oltre che i cittadini comuni scolarizzati fino al punto che consente loro il ricorso topico a metafore sul nemico di turno che, Vladimir Putin come Saddam Hussein o Slobodan Milošević, è sempre e senza eccezioni «il Male assoluto», «il mostro», «il nuovo Hitler», secondo una tecnica retorica, molto popolare, nota col nome di reductio ad Hitlerum – anche gli spiriti poetici, o retorici, che a proposito di essa possono esibire con successo tutta la loro vena patriottico-militaresca.
Una volta erano i poeti e gli oratori, soldati essi stessi, ad essere ispirati a enfatiche tirate sulla difesa armata della patria: basti ricordare, dall’antica Grecia, il famoso verso «Fino a quando starete inerti, o giovani?» di Callino di Efeso (VII sec. a.C.) che invitava a combattere gli invasori Cimmeri. Oggi sono spesso i giornalisti (e le giornaliste). Sono presenti, tali spiriti, sui media sia nazionali sia locali, e alcuni sono davvero magistrali nell’esprimere letterariamente il loro odio (forse non meno dell’Oriana Fallaci di La rabbia e l’orgoglio) – anche se è soprattutto sui loro profili Facebook che pronunciano sermoni con tonanti inizi «Voi! Siete complici di Putin, voi che…», e come argomentazione recitano il mantra obbligatorio «c’è un aggressore e c’è un aggredito!», o anche «se la Russia smette di combattere, finisce la guerra; se l’Ucraina smette di combattere, finisce l’Ucraina» e via discorrendo. Quando dico «sermoni» non intendo screditare nessuno; semplicemente, voglio dire che costoro fanno ricorso al vero e proprio genere retorico moralistico dei discorsi dal pulpito (almeno quelli di una volta) con cui, dall’alto della propria certezza teologica e vicinanza a Dio, si condannano con sicura veemenza i peccatori ignoranti da cui, con il «voi», ci si premura di tenersi distanti. Naturalmente, tutti i parlanti facciamo inevitabilmente “retorica”, cioè cerchiamo di argomentare per persuadere; ma non tutti facciamo ricorso, consapevolmente o inconsapevolmente, ad un alto tasso di ‘letterarietà’, a particolari effetti di stile e a toni indirizzati alla ‘pancia’ del pubblico.
Qui vorrei abbozzare una disamina dell’articolo di Francesca Mannocchi Cari pacifisti vi scrivo, pubblicato su ‘La Stampa’ del 5 novembre 2022, che presenta tali caratteristiche – senza però, sia assolutamente chiaro, fare retorica pura o invitare all’odio cui ho prima fatto cenno. Anzi, a fronte di molti altri scritti, esso si mostra nel complesso relativamente sobrio: siamo davanti ad una giornalista brava e onesta, che tuttavia non mi sembra sfuggire ad alcune trappole della cultura dominante. Ma proprio per la sua onestà e mancanza di eccesso può essere utile analizzare la struttura dell’articolo in questione, molto osannato proprio per essere «toccante», in modo da vedere cosa resta, tolto l’aspetto letterario, sul piano delle argomentazioni.
Citerò i passi di F.M. dentro virgolette («…») e evidenzierò alcune sue espressioni col corsivo (che dunque è sempre mio).
Il (preteso) «fatto»
«Quando si parla di pace nel contesto di questa sanguinosa e drammatica guerra istigata dalla Russia, alcune persone non vogliono riconoscere un semplice fatto: non esiste pace senza giustizia»: l’inizio è quello di un postulato la cui negazione dovrebbe riportare all’attualità italiana della manifestazione per la pace del 5 novembre 2022 – quella di Roma, sembrerebbe, in cui l’appello alla pace va in buona misura insieme al rifiuto dell’invio di armi all’Ucraina. Prudentemente, però, questa non viene nominata, come non viene chiarito quale sarebbe la fascia di persone che non vuole riconoscere quel «semplice fatto». E tuttavia, aggiungo, che «non esiste pace senza giustizia» non mi pare per nulla «un semplice fatto», perché la giustizia (almeno intesa nel senso più rigido e astratto del termine) non è detto che sia un valore: per esempio, non lo fu (e fu un bene che non lo fosse) nel Sudafrica di Nelson Mandela dove la fine dell’apartheid prese la forma non della Giustizia portatrice della bilancia che deve eguagliare la pena ai crimini ma dell’Equità capace di condurre una popolazione divisa in due – con aggressori e aggrediti (sì, c’erano anche lì) che non sempre erano stati così nettamente distinguibili in, rispettivamente, bianchi e neri – dal razzismo alla convivenza attraverso l’opera della “Commissione per la verità e la riconciliazione” presieduta da Desmond Tutu [1]. Lì, la giustizia venne intesa nel senso concreto di avvicinamento tra le parti in conflitto e portò alla pace.
Dunque, se proprio si deve parlare di «fatto», esso è, per me e per moltissimi altri, che non esiste pace senza equità, senza un reciproco ascolto e riconoscimento. Ma l’articolo di F.M. si fonda tutto sull’altra idea in cui naturalmente è già implicita la visione dicotomica della guerra (“uno ha ragione e deve vincere la guerra, l’altro ha torto e deve perderla”), perché concepisce l’equità in termini di resa (su quest’ultima parola ritornerò più sotto) e non può prevedere, come mezzo per arrivare alla pace, che … la guerra.
Verso la ‘letteratura’ (e la pretesa che si creda, a prescindere)
Poi comincia, da parte dell’autrice, la narrazione della propria esperienza che, F.M. avverte subito, conferma ciò che «il mondo» (il sottoscritto direbbe: il ‘nostro’ mondo occidentale nella sua componente politico-mediatica dominante) ha visto; o meglio, conferma il modo in cui esso ha interpretato: «Ho trascorso le ultime settimane in Ucraina, spinta lì dagli attacchi che il 10 ottobre hanno riportato il terrore nelle strade di Kyiv, che hanno colpito ancora Dnipro e Zaporizhzhia uccidendo venti persone e ferendone più di cento. Il mondo ha guardato a quegli attacchi come a una fase nuova del conflitto, la strategia del terrore, si dice. Ed è vero, funziona così. Si colpisce la vita quotidiana, si condannano i civili a uno stato di tensione e privazione permanente sperando che, alla lunga, persino il più solido degli animi ceda e chieda a chi è chiamato a prendere decisioni, di fare un passo indietro, concedere qualcosa all’avversario, consegnare all’invasore ciò che chiede» [2].
Qui il tricolon asindetico (sequenza di tre membri in una frase senza la congiunzione) finale in climax ascendente (scala concettuale che presenta le parole in modo da produrre l’effetto di una sempre maggiore intensità: qui dal semplice retrocedere di un passo al successivo dare qualcosa, fino all’estremo dare tutto, laddove di fatto i tre passi indicano sempre una sola cosa: la ricerca di un accordo col nemico), preceduto dall’allitterazione di c/ch («ceda e chieda a chi è chiamato»), suggerisce che la scrittura si sta già facendo ‘letteraria’, sta diventando autonoma dalle argomentazioni (e dai «fatti») per farsi emotività in cui il proprio sincero dolore si mescola con la personale capacità tecnica di adoperare lo strumento verbale.
Infatti, la frase successiva riprende l’espressione già usata e, a sorpresa (in termini retorici si parlerebbe di aprosdòketon), la contesta, ma per negarne non la validità bensì la portata che, secondo l’autrice andrebbe anzi estesa: «La strategia del terrore, si è detto. Come fosse un dato inedito e invece, semplicemente, ci eravamo distratti, perché inchiodati alla cronaca del presente, abbiamo perso di vista i disegni imperiali del regime di Putin che seguivano un calendario dilatato». Così, dopo due proposizioni che in asindeto producono l’effetto di fare sostare i lettori su ognuna delle azioni enunciate («ci eravamo distratti», «abbiamo perso di vista»), l’autrice scopre che il terrore fa parte strutturalmente della guerra di Putin – ma, mi viene da chiedere, perché?, forse conosce qualche guerra che abbia una struttura diversa? – e sembra scoprire anche i suoi «disegni imperiali», ancora una volta come se essi fossero specifici dell’autocrate russo e dal 24 febbraio, e ignorare che con quel «regime» l’Occidente, nonostante ne conoscesse la natura già da prima, non aveva mancato di instaurare relazioni commerciali infischiandosene, fino ad allora, della sua autocrazia e della guerra iniziata nel Donbass ben 8 anni fa. Negotium non olet.
La rivelazione della strategia bellica di Putin continua nella frase successiva, dove viene menzionata in forma virgolettata, come se si trattasse di una precisa citazione di parole di Putin, quasi una sua pubblica confessione: «“O la resa o la morte” è il metodo putiniano della guerra». Ora, se F.M. sta pensando, come terza possibilità fuori dall’alternativa imposta dal tiranno, a quella del negoziato, ebbene risulta che la posizione di Zelensky sia esattamente speculare e addirittura messa nero su bianco all’interno di una legge secondo cui o i Russi vanno fuori dall’Ucraina o la guerra deve continuare [3] (e, su questa linea, la stessa dicotomia di F.M., “o pace-con-rigida-giustizia o continuazione della guerra”, se non tradisco il suo pensiero, rientra ancora nel medesimo paradigma culturale putiniano). F.M. non mente ma, dicendo solo mezza verità (certamente non per cattiva fede ma perché questo è ciò che la sua impostazione le consente di vedere), non mi pare che la causa del «vero» prima richiamata venga portata avanti bene.
Poi c’è la minaccia di Putin presentata proprio mentre l’autocrate la pronuncia, facendocela vedere e sentire come se fossimo presenti alla scena (è la figura retorica detta enárgheia in greco o evidentia in latino, insomma descrizione vivida dell’immagine in modo da porcela quasi davanti agli occhi): «L’aveva detto durante l’assedio dell’Azovstal, a marzo. “Che non entri e non esca nemmeno una mosca” è stata la regola che Putin ha imposto sull’ultima battaglia di Mariupol». A ciò segue immediatamente un altro efficacissimo tricolon, emulo del ben noto “veni, vidi, vici”: «l’arma era l’assedio, la conseguenza la fame, l’effetto la resa».
Quindi ancora una serie di azioni di guerra/terrorismo, come se fossero specifiche del crimine perpetrato in Ucraina e, di nuovo, come se tutto fosse iniziato in quel momento: «La guerra allora era iniziata da otto settimane e già c’erano tutti gli elementi per capire che circondare e affamare le persone fossero i tasselli di una strategia precisa. Le truppe russe avevano già devastato terreni agricoli, distrutto attrezzature, minato i terreni fertili, danneggiato le rotte di rifornimento, bloccato i porti, tagliato l’elettricità e distrutto le centrali elettriche, interrotto le forniture di acqua e di gas, distrutto magazzini di cibo, e depositi alimentari. Colpito consapevolmente i mezzi dei corridoi umanitari e le code dove le persone aspettavano la distribuzione di pane e aiuti alimentari, ucciso volontari, massacrato civili».
Poi la cronaca dolorosa (condivisibilmente dolorosa) si fa quasi diario intimo in cui il trascorrere del tempo è annotato in forma di ricordo che si va precisando poco a poco, mentre la scrittura avanza; meglio: sotto la guida della scrittura. Perché effettivamente la scrittura – ecco la ‘letteratura’ – sembra avere preso il comando della mano della narratrice. Essa le impone ancora la vividezza del racconto e l’anafora (anche con variazione) di un verbo indicante la ricezione delle testimonianze delle vittime, con la sottolineatura finale di un’azione simultanea che avviene in un Paese lontano dalla guerra, cioè l’Italia, e che però è colpevolmente di tipo opposto a quella del Paese martoriato. Quest’ultimo, concretizzato visivamente con l’elenco delle varie categorie di persone (alcune nominate anaforicamente, con effetto di allungamento del numero delle categorie: «anziani…, anziani»), soffre mentre alcuni italiani negano (anche qui con un’anafora) quella sofferenza: «Nelle settimane successive, era aprile, ero a Bucha. Ho visto i cadaveri in strada, ascoltato i racconti dei civili torturati, ho ascoltato le vedove di uomini giustiziati sulla porta di casa, visitato anziani colpiti alle gambe e lasciati marcire di dolore nelle cantine, anziani rimasti senza gambe, amputate perché non c’era più niente da fare. Li ascoltavo mentre qui, in Italia, alcuni di quelli che invocavano la pace, negavano le stragi di Bucha, negavano le evidenze della strage del teatro di Mariupol».
Preciso che il sottoscritto non è mai stato tra questi negatori e non ha mai capito come fosse possibile negare le stragi ma si è chiesto e si chiede anche come sarebbe stato possibile, dall’Italia, affermare o credere che quelle fossero, come vuole F.M., «evidenze»: cioè essere certi che ciò che ‘i nostri’ giornalisti (da subito intestatisi una narrazione unilaterale, quasi fosse necessaria tale unilateralità per riconoscere la criminalità dell’azione di Putin), dicessero la verità o non fossero essi stessi vittime di inganni. Particolarmente in una guerra, vale il principio che, fino al pronunciamento di una parte ragionevolmente considerabile terza o fino alle dichiarazioni congiunte dell’aggressore e dell’offeso, non c’è possibilità di stabilire cosa sia vero e cosa no – e (cosa che non sembra ovvia a molti), per agire per la pace, non abbiamo nemmeno bisogno di stabilirlo. Così come non ho bisogno di sapere se dice la verità mio fratello o la dice mia sorella quando si picchiano, o uno picchia l’altra) e io voglio farli smettere e far fare loro la pace. Qui il giornalismo paga uno scotto terribile alla credenza ingenua che si possa essere davanti a «fatti» e non si sia invece, sempre, davanti a un «racconto» e a una interpretazione» di fatti.
Nel racconto di F.M., il tempo si fa poi vettore della Verità, che però, a quanto pare, sarebbe dovuta rifulgere già prima del suo accertamento da una parte terza: «Sono passati i mesi, a quei cadaveri in strada, che erano lì, lo so perché ci ho camminato in mezzo, ha reso giustizia l’indagine giornalistica, ha reso giustizia la Commissione d’inchiesta delle Nazioni Unite i cui esperti hanno concluso che in Ucraina siano stati “senza dubbio” commessi crimini di guerra. I tifosi della pace-come-resa dell’Ucraina che avevano negato la responsabilità russa su quegli eccidi, però, non si sono mai scusati. Oggi, probabilmente, saranno in piazza con la bandiera arcobaleno». Non difendo minimamente chi ha negato quella responsabilità, è ovvio, ma questi ha fatto esattamente come chi ha negato, o addirittura non ha mai dato informazione dei lati oscuri e anche criminali di Zelensky [4], di cui, se non sbaglio, nessun Tg ha mai dato notizia. E poi, allora, cosa dovremmo dire di quelli che ci hanno ammannito come vere notizie poi scoperte come false, ma la cui smentita non è stata data o non è stata data con la stessa enfasi? Come vere ci siamo bevute, come F.M. vorrebbe che facessimo con tutto (mentre sarebbe stato meglio né negare né credere: tanto la guerra resta guerra), ad esempio, la notizia relativa ai “denti d’oro strappati dai Russi agli Ucraini torturati” che, propagandata da Serhiy Bolvinov, capo del dipartimento investigativo del Servizio di sicurezza ucraino nella regione di Kharkiv, e prontamente resa pubblica da tutti i media [5], è stata poi sconfessata, con pochissimo risalto e solo da alcuni media. La maggior parte delle persone che conosco, infatti, non sa della smentita.
Inoltre, F.M. mostra di non sapere che la resa – ogni resa – non coincide necessariamente con la fine della resistenza [6]. All’interno di un pensiero dicotomico («o resistenza-armata o resa», così come «o si danno armi all’Ucraina o vuol dire che si è ingiustamente equidistanti»), vengono totalmente ignorate possibilità terze come quelle della resistenza non armata e dell’equivicinanza. E assistiamo alla diffusione di questo pensiero dicotomico ogni giorno, dal 24 febbraio, in tutti i telegiornali e lo abbiamo sentito ribadito, per esempio, da Umberto Galimberti quando presentava un rifiuto tanto categorico quanto dogmatico (e contraddetto dalla realtà!) dell’azione del papa che, per la via Crucis, fece tenere la croce a una donna ucraina e a una donna russa, l’una accanto all’altra [7].
Dolore autentico e ‘pienezza’ letteraria. E le argomentazioni?
Nella parte centrale dello scritto, l’aspetto letterario si espande al massimo ricorrendo a immagini poetiche: «Ho osservato l’Ucraina per settimane nella maestosa luce che ha la città quando la bella stagione staffetta con l’autunno, (…) ho scoperto che la guerra fa al viso di un uomo quello che il mare e il vento fanno agli scogli, li consuma e insieme li definisce». La cornice continua ad essere quella della testimonianza personale, segnata dai soliti verbi che non permettono dubbi e dissensi. Ed è giusto non avere dubbi su questo, che però non ha alcun rapporto con quello di cui la narratrice vorrebbe persuadere i pacifisti (almeno quegli «alcuni», non meglio identificati), che, non va dimenticato, sono i destinatari del suo articolo, perché si ravvedano.
A questo punto ci viene presentata una scena di illuminazione che porta alla consapevolezza suprema: «Sono salita sui tetti degli edifici colpiti, incidentalmente si direbbe, così come si direbbe che i morti siano collaterali. Ho guardato le città dall’alto, e lì mi è stato chiaro cosa provochi un missile quando colpisce una centrale elettrica e un ponte, cosa produca quando danneggia una scuola, e quando i vetri di una finestra si frantumano sul corpo di un’anziana mentre cuce a maglia con gli aghi e i gomitoli, dritto rovescio, dritto rovescio e poi, improvvisamente, è colpita da una scheggia e muore». Qui, la realtà veduta (evidentemente le macerie) si trasfigura in una realtà che le sta dietro, certamente verisimile ma in questa forma solo immaginata (più precisamente: inventata, quindi ancora letteratura), fatta di dettagli che mostrano lo sconquasso della vita quotidiana (in una scuola, in un corpo di anziana dedita a una sua azione tipica che, grazie all’anafora, possiamo vedere nel suo sereno svolgimento lento e continuo). Dunque, vista e visione, cronaca e letteratura si confondono, forse ‘aiutate’ da una memoria poetica, con rivisitazione in chiave positiva, dell’episodio di Gesù portato dal demonio «su un monte altissimo» e tentato: «Ti darò tutto questo, se ti prostri e mi adori» (Matteo 4, 8-9). Dall’alto della sua postazione, la narratrice ha avuto tutto ciò che un’anima intellettuale può desiderare: la chiarezza sul mondo – e senza prostrarsi davanti al demonio; o, almeno, non al demonio evangelico ma forse a quello letterario sì.
Perché l’afflato continua: «Dopo aver incontrato gli occhi sfiniti dei sopravvissuti mi sono domandata quale fosse – se c’era – un modo rispettoso di chiedere agli ucraini cosa sia per loro la parola pace, oggi, mentre qui, in Italia, imbizzarrisce il dibattito tra pacifisti storici (e improvvisati) e i difensori del sostegno armato al popolo ucraino». La metafora dell’imbizzarrimento rimanda al comportamento di un cavallo focoso, forse selvaggio. Benché la metafora lo identifichi con la forma di relazione verbale che si instaura tra due tipi di persone, i «pacifisti storici (e improvvisati)» e chi vuole inviare armi a «sostegno» degli Ucraini, l’aggettivo denigratorio del primo e il semplice sostantivo di connotazione positiva del secondo – positività doppia perché presente anche nel precedente «difensori» – (nonché il titolo dell’articolo) lasciano capire che non è certo quest’ultimo a stare dalla parte della selvatichezza che, ancora una volta, si sviluppa in contemporaneità, e in senso contrario, alla condizione delle vittime caratterizzate dalla spossatezza leggibile nei loro occhi.
E continua anche la presa di consapevolezza della narratrice che ora mette insieme i fili dell’intero universo ucraino, presentato nelle sue varie componenti: «La prima cosa che ho capito, tessendo le risposte che ho ricevuto da nord a sud, da est a ovest, da soldati e civili, da attivisti e bambini, è che pace, lì, sia una parola imperfetta». L’elenco dettagliato dei luoghi e delle persone (tutto presentato in coppie opposte e complementari) che hanno fornito quelle risposte, anziché il semplice richiamo alla totalità nel suo insieme, svolge un’importante funzione enfatica al fine della persuasione, in quanto, come già sapeva Aristotele (Retorica 1365a 10-11), «suddivise nelle loro parti, le stesse cose risultano più grandi, poiché un maggior numero di cose appare essere superiore».
Poi, in cosa consistono quelle risposte, anzi la tessitura di quelle risposte? Consistono nel far capire che «lì» – a differenza che «qui, in Italia», come aveva detto prima – «pace» è «una parola imperfetta», come mostra la teoria degli uomini e delle donne di Ucraina di cui si mostra in modo toccante la normalità della vita tragicamente tolta loro dalla guerra: «Lo è per Stanislav, che è un soldato, e mentre sistemava le munizioni dell’obice di cui era responsabile mi ha detto che pace per lui è sposare la sua fidanzata, fare dei figli, comprare un barbecue e invitare i suoi amici a vedere la partita, in tv, la domenica. Ma che non c’è pace senza libertà. Pace è una parola imperfetta anche per Liljia, che ha sessant’anni ed è tornata a vivere a Irpin. Di madre e padre russi, vive a Kyiv da sempre, suo padre è sepolto in Crimea e lei non può andare a piangerlo sulla tomba perché la Crimea è occupata da altri russi. Quando le ho chiesto cosa significasse per lei la parola “pace” mi ha detto che sta imparando a vivere dentro la guerra. Ha risposto così, dopo una pausa che è servita a disegnarle sul volto il sorriso di chi ha capito che non finirà presto, che niente sarà – comunque – più come prima, anche se le armi tacessero domani».
A quale scopo sono state nominate queste persone e i loro sogni che si infrangono davanti alla «parola imperfetta» che lì è la pace? La risposta è subito data: «È la saggezza dell’esperienza delle vittime che dovrebbe indicare la via e dare le parole d’ordine a chi scenderà in piazza, oggi».
E sembra essere suggerito che si tratta di chiedere una pace da conquistare con le armi. Infatti, sembrano chiederlo le vittime stesse di cui F.M. riporta le parole che, secondo la logica (comprensibile) dell’individuazione del responsabile originario, spiegano l’ostilità ucraina come dovuta all’ostilità russa: «Le parole come quelle di Liljia, che qui consegno testuali: “Noi voltiamo le spalle ai russi perché loro hanno voltato le spalle a noi. Dobbiamo solo imparare a viverci dentro. I tempi in cui eravamo sangue dello stesso sangue sono passati e non torneranno mai più. Nessuno vuole tornare a quello che esisteva prima del 1991, pace per noi è andare da qualche parte nel futuro, ma i russi invasori che volevano un unico grande Paese hanno costruito un’unica grande prigione”».
F.M. commenta: «In questi otto mesi di invasione russa in Ucraina il valore delle parole dei testimoni è stato progressivamente indebolito, fino ad essere quasi del tutto ignorato, perché la portata delle evidenze di cui ci rendevano consapevoli non poteva che richiamare a una responsabilità collettiva, cioè solidarizzare con gli invasi, aiutare le vittime a difendersi, e cioè a liberarsi dall’invasore e chiedere giustizia. Per i giustiziati, i torturati, le donne stuprate, gli anziani lasciati morire di dolore, e risarcimenti per i ponti distrutti, le strade danneggiate, le scuole rase al suolo, le fosse comuni, le condotte idriche frantumate». Non mi è molto chiaro chi non vorrebbe «aiutare le vittime a difendersi» (che non per tutti è sinonimo di aiutarle a difendersi con le armi), e chi avrebbe «indebolito» o «ignorato» il valore delle parole dei «testimoni», naturalmente dei testimoni attendibili, e quindi, ancor prima, chi sarebbero i testimoni cui riconoscere tale qualità: come riconoscerli in regime di guerra in cui la corretta individuazione dell’aggressore in Putin non è mai andata insieme a nessuna analisi più profonda e la condanna (giusta) dell’invasione ha del tutto cancellato (non per condividerlo ma almeno per comprenderlo) il punto di vista dell’invasore? Oppure, come fa anche la stessa F.M., è sempre stata raccontata una parte dei «fatti»? Il grido di rivendicazione di sostegno alla lunga serie di vittime è sacrosanto, ma cosa ha a che fare con il dare ascolto alle loro richieste di armi? Perché, innanzitutto, noi non abbiamo dato a Zelensky tutto l’aiuto che egli chiedeva: chiedeva infatti la no fly zone ma, responsabilmente, non gliel’abbiamo concessa; gli diamo le armi, dunque, non perché ce le chiede ma perché riteniamo (chi lo ritiene) di potergliele dare. E chi non ha ritenuto giusto dargliele, ha proposto altro, che i nostri Governi non hanno voluto mettere in atto: la rinuncia alla totalità del gas russo e il rimedio alla conseguente crisi energetica mediante una riduzione dei consumi, che significherebbe «ecologia», e mediante tasse straordinarie per le classi abbienti, che significherebbero «giustizia sociale»; non chiusura delle ambasciate straniere in Ucraina ma, al contrario, loro ulteriori aperture in tutte le città di quel Paese, interposizioni non armate, gemellaggi tra associazioni sportive e culturali, scuole e università europee e russe e ucraine…
Mezza informazione e Pensiero Unico
Di più, F.M. sembra ignorare che ci sono pacifisti e nonviolenti ucraini [8], o, comunque, sembra non averci parlato o avere scelto di informarci solo di altre voci. Ma in tal modo la cronaca dolorosa della guerra in Ucraina diventa una cronaca dolorosa per la guerra in Ucraina, in pieno accordo del resto con ciò che in tutti questi mesi abbiamo sentito in tutti i telegiornali. Infatti, in nessun Tg si è mai parlato di pacifisti e nonviolenti ucraini – come se non esistessero. E infine cosa chiede F.M.? Poiché, di fatto, le armi sono state costantemente inviate, lei, come tutti i Tg, chiede che nessuno possa anche solo pensare diversamente. Scrive ai pacifisti per persuaderli (con la forza della poesia, perché quella delle argomentazioni, almeno a me, sembra mancare) che quel che viene già fatto è bene. E zitti…
Comunque, la consapevolezza e l’illuminazione ormai sono state raggiunte e F.M. può istruire e ammonire con le sue certezze (tra le quali non colgo il sequitur) i pacifisti «storici (e improvvisati)» sulla arcinota distinzione tra aggressori e aggrediti e solo adesso, dopo tanta enfasi, viene finalmente esplicitato che in errore sono quelli contrari all’invio di armi: «Perché, in una guerra di invasione, val la pena ricordarlo a chi scende in piazza, funziona così. Sono gli invasi che vivono nei bunker, scendono in metropolitana con i sacchi a pelo per paura di morire schiacciati dal tetto di casa, solo da un lato del confine si vive con le sirene antiaeree nelle orecchie dal 24 febbraio, è per questo che da un lato del confine non può esserci pace senza giustizia. (…) La manifestazione di oggi chiama al negoziato, alla pace, sacrosanto. Attenzione però a non confondere la pace con la debolezza di aver ceduto al ricatto di un dittatore. Alcuni sostenitori dello stop all’invio di armi ritengono che sfilandosi dalla guerra diminuiranno i combattimenti e si morirà di meno. Anche questo è sacrosanto. Invito, però, i partecipanti – soprattutto i tanti che spinti da nobili intenzioni riempiranno strade e piazze – a chiedersi quanto siano diventati strumenti di una parola così pura ma usata, oggi, sul ring di leader perdenti e in crisi di identità politica che provano a raschiare un magro consenso, scendendo in piazza con le bandiere arcobaleno». Non riesco a vedere dove stia l’argomentazione, perché, con lo stesso criterio, si potrebbe allora invitare la scrittrice a chiedersi quanto lei sia diventata strumento della parola «pace» usata sul ring dei leader vincenti, quelli di “Fratelli d’Italia” in testa. Naturalmente, si potrebbe anche ricordare a F.M. che in una guerra d’invasione, con una resistenza armata muoiono anche i civili: lei ha chiesto ai civili con bambini (ma anche a quegli «occhi sfiniti dei sopravvissuti» di cui sopra) se sono disposti a sacrificare le vite di questi bambini all’ideale astratto della «libertà», scorrettamente intesa come resa e accettazione duratura dell’occupazione? (A proposito: la rivoluzione fino ad ora disarmata in Iran, che sta andando avanti da metà settembre, non è un buon modello per pensare la protesta senza violenza in un regime di occupazione? Al momento, sono registrate circa 500 morti, a fronte dei 100.000 morti ucraini – e 100.000 russi).
E tuttavia c’è ancora qualcosa nel ragionamento di F.M. che mi sfugge, perché lei in realtà ammette che l’idea pacifista del non invio di armi, pur denigrata con quello «sfilandosi», poterebbe ad una diminuzione del numero di morti («Anche questo è sacrosanto», dice). «Però»…, c’è il «però» del presunto darla vinta al tiranno, ed è un «però» che per lei è un argomento più forte di quello della salvezza delle vite ucraine – di quelle stesse di cui aveva pianto stupri, uccisioni, amputazioni di gambe… Davvero, non riesco a capire.
Quello che mi pare di capire, invece, è che il racconto delle sofferenze, diventato funzionale al solo punto di vista della narratrice, ormai illuminata e illuminante, sfocia alla fine nella piena colpevolizzazione di coloro che volessero rifiutare l’ortodossia, presentati come cinici egoisti che sono per la pace perché guardano – loro! – solo al proprio interesse economico: «Viene da pensare, con un realismo dettato dall’esperienza e non dal pregiudizio, che sfilandosi dalla guerra, oggi, diminuirebbero la spinta dei rifugiati sui nostri confini (leggasi sul nostro welfare) e poi, certamente, le bollette del gas. Diminuirebbe la paura dei cittadini del costo economico di questa guerra di liberazione». Di fronte a tale bassezza morale, i pacifisti dovrebbero invece, secondo F.M., avere presente qualcosa che non è venuto fuori da nessuna precedente argomentazione, cioè che, se si accettassero le (presunte) loro idee egoistiche, «verrebbero meno anche tutti i valori che fino ad oggi hanno sostenuto la nostra idea di democrazia, autodeterminazione e libertà. La nostra idea di mondo giusto, l’unico nel quale una vera pace è possibile».
Ora, per parte mia, spero di aver mostrato che quello di F.M. (e di tanti altri) in realtà non è l’«unico» modo di pensare un mondo giusto e i valori di democrazia, autodeterminazione e libertà, e che quello da lei proposto con una bella toccante scrittura letteraria, se lo guardiamo senza questa sua bella veste, non risulta necessariamente il migliore – specialmente se la pace è prospettata come frutto di una guerra sempre sull’orlo di diventare guerra nucleare.
Sì, è bene, anzi fondamentale, parlare delle vittime della guerra con compassione e stando dalla loro parte: il che non esclude di stare anche con l’altra parte. Di più, nella scrittura la compassione ha bisogno di non lasciarsi prendere dall’afflato poetico; altrimenti, forse, fa un cattivo servizio non solo ai destinatari dello scritto ma anche a chi lo scrive.
[1] Cfr. D. Tutu, Non c’è futuro senza perdono, r.it. Milano 2001.
[2] La “Kyiv” nominata nel testo è naturalmente Kiev. Ma il ricorso alla traslitterazione della parola ucraina, piuttosto che l nome italiano della città, ha un effetto retorico: significa “io che vi sto scrivendo sono là, sul posto”. Solo mandando una cartolina da Parigi, noi scriveremmo “per le strade di Paris…”.
[3] Cfr., p. es., l’articolo Ucraina. Zelensky firma il decreto: mai negoziati con Putin. E avanza verso Kherson, in Avvenire.
[4] Su cui cfr. Kvivindependet.com e, ancora, Amnesty.it e GiuristiDemocratici.it.
[5] Basti qui citare “La Stampa” del 5 ottobre (O. Smirnov, Denti d’oro prelevati dai cadaveri: le nuove prove degli orrori dei russi) e “Il Giornale” del 6 ottobre (Redazione, Kharkiv: denti d’oro strappati ai morti).
[6] Su questo aspetto cf.r M. Cortese, Resistenza o resa, e A. Cozzo, La nonviolenza oltre i pregiudizi. Cose da sapere prima di condividerla o rifiutarla, Di Girolamo, Trapani 2022, p. 30.
[7] Cfr. In onda (La7, minuti 11:20-12:34): «Mah, io do ragione alla chiesa latina ucraina. Come si fa a chiedere alla chiesa latina ucraina di consentire che la croce sia portata da una donna russa e una donna ucraina? Non si capisce il dolore di questa gente? Come quando uno subisce un delitto in casa, in famiglia, e gli si chiede subito, come spesso accade, se perdona; ma la psiche ha bisogno di tempo per fare queste cose. Io capisco il papa che annuncia e che parla un linguaggio simbolico ma in Ucraina non si è parlato un linguaggio simbolico! Si è parlato in un linguaggio terroristico, in un linguaggio feroce! E come si fa a chiedere a chi ha subìto ferocia di essere accompagnato da un russo, da una russa in questo caso, o comunque da una figura dell’aggressione, come se fosse un amico o un’amica? Dai, cerchiamo di capire che la psiche umana non ce la fa a fare queste cose (...interruzione da parte dei due giornalisti di guerra, poi lui riprende:), sarebbe come se nel 1943-44, quando è cominciata la Resistenza partigiana, Pio XII avesse fatto una via crucis con un italiano e un tedesco! Ve la immaginate una cosa del genere?». Senonché, fuori dal mondo astratto della psiche di Galimberti, una concreta signora russa e una concreta signora ucraina, naturalmente senza alcuna costrizione esterna avevano già scelto di accompagnarsi reciprocamente e di essere persone che restavano amiche.
[8] Sui quali cfr. F. Daza Sierra, Ukrainian Nonviolent Civil Resistance in the face of war: Analysis of trends, impacts and challenges of nonviolent action in Ukraine between February and June 2022, ICIP & Novact, Barcelona 2022, in Novak.org (235 azioni di resistenza civile nonviolenta in Ucraina tra febbraio e giugno 2022: 148 atti di protesta e dissuasione, 51 movimenti di risposta nonviolenta, 36 misure di non collaborazione con l’occupante); articoli vari su Resistenza nonviolenta alla guerra in Ucraina: esplorare molteplici prospettive, in PeaceEdCampaign.org; R. Rijtano, Guerra in Ucraina, resistere all’invasione di Putin senza le armi, LaViaLibera.it.
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