Francia - Africa , la fine di un’epoca

Jacques Chirac ha appena dato il suo addio al continente africano il 15 ed il 16 febbraio scorso, in occasione del 24° vertice Africa - Francia di Cannes...
Jacques Chirac ha appena dato il suo addio al continente africano il 15 ed il 16 febbraio scorso, in occasione del 24° vertice Africa - Francia di Cannes. Questo ha segnato il termine di tanti decenni di una relazione passionale e caratterizzata oggi dal disinteresse. Dunque, si volta pagina. Ed ora?
Cosa lascia dietro di sé, alla fine del bilancio, dopo dodici anni d’esercizio del potere, in materia di politica africana? Un interesse reale, certamente - sebbene diminuito nel tempo-, ma anche una forte tendenza a relativizzare le norme della democrazia, appena gli interessi economici della Francia sono in gioco….come è avvenuto in Costa d’Avorio a seguito del tentativo di colpo di stato del 19 Settembre 2002, quando uno sparuto gruppo di militari,dotato però di mezzi ed armi più sofisticate e potenti di quelli dell’esercito ivoriano, ha tentato di prendere il potere in questo paese ricco di risorse agricole e minerarie, che aveva iniziato ad aprire il proprio mercato ad investimenti di società cinesi, statunitensi e giapponesi a tutto danno dell’economia francese che fino ad allora era stata il suo unico partner. A seguito dell’uccisione per errore di otto militari francesi, Chirac, scavalcando completamente l’ONU, ha ordinato alle sue truppe di distruggere tutti i mezzi dell’aviazione ivoriana, causando più di sessanta morti ed oltre mille feriti tra i civili. Tale atto ha costituito una gravissima aggressione militare, che non può passare sotto silenzio e che deve essere denunciata all’opinione pubblica.
Se l’Asia ed il mondo arabo sono sempre apparsi in primo piano nelle “fascinations” di Jacques Chirac, l’Africa non è lontana, più per la ricchezza di materie prime che per la sua politica, giudicata volentieri "ripetitiva", ma con la convinzione che il continente è allo stesso tempo fondamentale per il predominio della Francia, ed indispensabile per qualsiasi candidato all’elezione presidenziale. Primo ministro, poi sindaco di Parigi, ha sempre favorito il mantenimento di una "cellula africana" madre di molteplici reti. E quindi intendeva consolidare quella relazione quasi paternalista e patrimonialista di una volta. Gli anni durante i quali preme alle porte dell’Eliseo, sono per lui quelli del relativismo democratico. C’è questa piccola famosa frase pronunciata nel 1990 a Abidjan, durante una lunga intervista con Houphouët (primo presidente della Costa d’Avorio): "Il multi partitismo è un genere di lusso che i paesi in via di sviluppo non hanno i mezzi per poterselo permettere” Due anni più tardi, in occasione di un’intervista con Jeune Afrique (settimanale africano), Chirac insiste nel determinismo. Parla di "gravità sociologiche", di "etnie diverse", di "evoluzioni delle mentalità" ed anche di "condizioni geografiche e climatiche più dure", per spiegare che ai suoi occhi l’Africa non può avanzare allo stesso ritmo democratico del resto del pianeta. È l’epoca dei casi di denaro sporco, dei finanziamenti occulti del RPR, della concorrenza istigata dalle reti di Pasqua (ex esponente della destra francese) e di Elf (multinazionale francese), madre di tutti i vizi. Se Chirac non è venale, è realistico: la politica non è un pranzo di gala.
Quando, alla vigilia delle presidenziali del 1995, Jeune Afrique, pubblica un sondaggio d’opinione realizzato presso un migliaio dei suoi lettori africani, è Jacques Chirac che arriva largamente in testa, distanziando in buona misura Lionel Jospin e Édouard Balladur. La sua immagine di "amico" dell’Africa, è dovuta soprattutto alla propria opposizione alla svalutazione del franco CFA (moneta usata in 14 paesi ed all’epoca strettamente legata al Franco francese) : "Tradire l’Africa, è una sciocchezza incommensurabile!" “Sono concezioni di banchieri e di funzionari, creerete sommosse! " urlava –all’inizio del 1994 agli orecchi di Pierre Messmer e di Michel Roussin. Nulla di ciò si è avverato, ma il suo forte intervento è rimasto nella memoria. Appena eletto, ecco Chirac imbarcato nel primo di una serie di viaggi africani che, a volte, danno l’impressione di “tournées” d’ispettorato del ministro delle colonie come nel passato. Lo scettico di ieri ha ceduto il posto all’afro-ottimista scalpitante. Egli sviluppa, entusiasta, un raffronto che gli è caro: “l’Africa d’oggi è l’Asia di trenta anni fa”. Evoca con ammirazione il "modello" che è secondo lui l’uomo di Singapore Lee Kwan Yu. Si oppone agli Americani e cerca di convincere il mondo che "gli anglosassoni" sognano di strappare alla Francia le sue posizioni africane senza pagare alcun prezzo.
Questo legame carnale tra un uomo che sappiamo essere ipersensibile al contatto di ogni realtà fisica, che dà del tu ai Capi di Stato, i quali, spesso, fanno finta di accoglierlo nell’ambito del loro paese, conoscerà soltanto poche eccezioni. Solo o quasi il presidente del Mali Alpha Oumar Konaré rifiuterà di entrare nella danza, fino a boicottare un mini summit convocato a Dakar in occasione di una visita del “governatore” Jacques Chirac. Oggi ancora, quest’ultimo gli serba rancore per quest’affronto: "Proviene da una formazione ideologica che non lo avvicina a noi", dirà.
1997. Un governo socialista ritorna al potere in Francia e, in materia di politica africana, è una quasi glaciazione che si annuncia. L’ossessione dell’etica e la fobia delle reti, hanno da sempre tenuto Lionel Jospin alla larga di un continente che non conosce, mentre Hubert Védrine (ex ministro degli esteri francese) non nasconde affatto la sua preferenza intellettuale per i problemi europei o arabi, certamente più "gratificanti" ai suoi occhi. Risultato: la diminuzione dell’aiuto si accompagna ad uno sfaldamento proporzionale della considerazione, di cui usufruiscono in Francia i capi di Stato africani.
E’ l ’ora della deafricanizzazione, della normalizzazione politica e diplomatica,della banalizzazione e del grigiore dell’allineamento all’Europa, il tutto senza alcuna compensazione protocollare per gli interessati. I presidenti africani di passaggio sono spesso ricevuti da un oscuro funzionario del protocollo, cenano con un segretario di Stato, regolano interamente la loro fattura in albergo e dovranno presto, addirittura, pagare l’accesso ai saloni d’onore degli aeroporti. Jacques Chirac compatisce, ma non può nulla. Se Jospin non vede nessuno o quasi, " lui almeno, non ha l’aria di avere vergogna di noi", sospira un” baobab” del villaggio.
E come dire che la rielezione, nel 2002, "dell’amico Jacques" è stata accolta sul continente - più esattamente, nei palazzi presidenziali - con tanto entusiasmo e speranza. Tuttavia, una molla in lui sembra essersi rotta. L’aggressività verbale e le sue reazioni spesso istintive, hanno ceduto il posto ad un senso di stanchezza. Certamente decide il capo, ma spetta a Dominique de Villepin, più fresco, più vivace, fare in modo che l’Africa continui a tenere il suo posto nelle preoccupazioni della Francia. Chirac chiama sempre meno al telefono i suoi colleghi del continente, delega questo compito al suo consulente Michel de Bonnecorse. Si dice deluso dall’aspetto pavloviano delle crisi africane, al punto che egli un giorno pare abbia pensato di dotare la Francia di una nuova politica in materia, ma ciò non avverrà. In occasione del vertice Africa-Francia di Parigi, nel febbraio 2003, Jacques Chirac si sofferma sul tema dell’impunità. "Ci sono, dirà, metodi ieri tollerati, che non sono più accettabili oggi." Di che cosa parla veramente? Di lui? Della Franceafrique che ha così a lungo incarnato? Il nuovo Chirac trova sul terreno economico accenti a volte terzomondismi, ed a volte anti globalizzazione, a metà strada tra il De Gaulle del discorso di Phnom Penh e il José Bové di Porto Alegre. Anche se la contraddizione tra il Presidente francese e quest’ultimo, difensore accanito in Europa delle sovvenzioni assegnate agli agricoltori francesi, è un poco maldestra, nessuno ha il cattivo gusto di accusare il primo di doppio linguaggio.
Realpolitik cruda: a rischio di sentire Jacques Foccart (ex segretario generale dell’Eliseo agli affari africani dal 1960 al 1974) rigirarsi nella tomba, Chirac abbandonerà in piena campagna elettorale Ratsiraka il Malgascio e Patassé il Centroafricano, come Jospin aveva abbandonato l’ivoriano Bédié ed il Congolese Lissouba alla loro triste sorte. In compenso, sosterrà sul filo i presidenti Déby Itno e Bozizé, minacciati da una serie di ribellioni. Ed ancora: per quanto riguarda il Presidente del Ciad, l’Eliseo ordina un semplice intervento aereo, senza impegnare truppe al suolo. Mercoledì 12 aprile 2006, mentre tutti ritenevano che i giorni, o le ore, di Idriss Déby Itno fossero contati, una fonte molto vicina a Chirac evocava dinanzi a noi l’ipotesi della sua deposizione: "se lo desidera, potrà vivere in esilio in Francia, almeno inizialmente", prima di aggiungere: "Ha molto deluso il presidente."
Ma quello che ha “deluso" Jacques Chirac al di là di tutto, è certamente la crisi ivoriana. Impigliato come Gulliver nelle reti di una situazione che non controlla, male informato e prigioniero di schemi di altri tempi, il presidente francese lascia al suo successore “il bambino e l’acqua sporca del bagno”: Licorne (la forza militare francese in Costa d’Avorio dal secondo semestre del 2002), i suoi settemila uomini, il suo buco finanziario e la sua incapacità a trovare un futuro politico apparentemente senza uscita. Colui che un giorno del 1997 qualificò il periodo coloniale una "bella pagina della nostra storia che non rinnego”, non fu altro che un governatore dell’ Africa Occidentale Francese e dell’Africa Equatoriale Francese riunite.
Quando era ancora sindaco della capitale, alcuni avevano soprannominato Jacques Chirac "Il Signor Governatore di Sua Maestà a Parigi", tanto egli era pronto a rendere servizio al re Hassan del Marocco. Una veste dalla quale non si è mai separato. Nessun problema, nessun contenzioso. È l’amico sincero, affidabile. Con lui Hassan II condivideva le idee; del Re si conosceva il gusto per le novità delle culture, il confronto, in breve la curiosità, la storia che soffia come piccola brezza. Ma quanto riposante gli sembrava questo vento, dopo quattordici anni di mitterrandismo pallido e rigido, dove la tramontana si alterna incessantemente con lo scirocco. "Maestà, devo molto a vostro padre", dirà in seguito il Presidente francese al re Mohammed VI dopo il decesso del monarca assoluto. In quindici anni d’esercizio, non è esagerato dire che la politica magrebina di Jacques Chirac fu effettivamente una politica marocchina. Certamente, colui che il Saudita Fahd qualificò un giorno "figlio del generale De Gaulle", ha sempre cercato di avere una politica araba in senso largo. Chirac è uno dei rarissimi uomini di Stato francese a non considerare Israele come un rimorso di coscienza obbligato, parla volentieri del mondo arabo con una mescolanza di fraternità e di pietà lirica. A ciascuno le sue parole.
Chi non si ricorda di alcune sue frasi durante l’intervista fatta dal giornalista americano Arnaud de Borchgrave, del Washington Times: “che cosa volete che importi ad un libanese che ci siano bombe che scoppiano a Parigi? Ne ha l’abitudine. Questa gente è massacrata in tutti i sensi, ovunque”. Nel corso della stessa intervista, lo stesso Chirac dava il suo parere a proposito dell’incursione americana contro la Libia: "È una sciocchezza in più. Hanno rafforzato l’opinione libica contro il grande Satana ed anche quella favorevole a Gheddafi. Se, almeno, lo avessero ucciso! ... " La caduta è brutale, ma il linguaggio piace.
Perché dunque quest’uomo che a lungo coltivò a Parigi delle amicizie libanesi e dei pranzi arabi, che tentò anche un momento di imparare la lingua di Ibn Khaldoun - alcune parole, che cita sempre con orgoglio - si è trovato come impotente ogni volta che si trattava di parlare agli Algerini? Del suo incontro abortito con il presidente Liamine Zéroual a New York nell’ottobre 1995 all’impossibile trattato d’amicizia con Abdelaziz Bouteflika, il fondo della paranoïa franco-algerino è stato spesso toccato nel corso dei suoi due mandati. L’errore fondamentale nella vita politica di Jacques Chirac fu la guerra dell’Algeria, dove fu tenente: questa guerra, Chirac l’ha vissuta con la violenza delle idee, degli impegni fisici e della morte con la quale si gioca. "eravamo in Algeria nel quadro di una missione che ritenevamo di difesa dell’interesse nazionale", dirà bene più tardi. In Algeria, Chirac ha ucciso nella legalità e nella legittimità dell’esercito, come furono uccisi molti dei suoi compagni. Nel 1962, votò contro il referendum di De Gaulle sugli accordi di Évian. Quindi, dopo alcune oscillazioni che lo fecero esitare ai limiti del legalismo, si attenuò per lui il miraggio algerino. La sua percezione del Magreb, dell’Africa e del Sud in generale è rimasta a lungo segnata da quest’esperienza. Evidentemente, non è stato per lui il migliore insegnamento . THIERRY ABDON AVI
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