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"Cuore di madre" di Roberto Alajmo

La scrittura di Alajmo registra con sobria scorrevolezza, con sfumature di amara, attonita ironia, questa atmosfera di insensatezza, irrealtà, lucida follia, di allucinante cinismo e di orrore.

di Antonio Carollo - mercoledì 1 aprile 2009 - 4483 letture

“Cuore di madre”, romanzo di Roberto Alajmo, Mondadori, ha avuto un’ottima accoglienza da parte del pubblico e della critica. E’ arrivato secondo al Premio Strega 2003 ed è stato finalista al Premio Campiello, sempre nello stesso anno; ha vinto, anche, altri premi di tutto rispetto. A distanza di sei anni dalla sua uscita non voglio scrivere una vera recensione, qualche annotazione sì.

Conobbi (come spettatore) Roberto Alajmo ad uno degli “Incontri sotto le stelle” dell’estate 2005 del Premio Viareggio Repaci. Da finalista era stato chiamato a presentare il suo ultimo romanzo, “E’ stato il figlio”, Mondadori. Ascoltai con attenzione le sue acuminate osservazioni sulla gente e sulla città di Palermo, oltre che su alcuni passaggi del romanzo. Naturalmente il clima vacanziero (eravamo in uno stabilimento balneare detto bagno) e la serata piuttosto densa (erano previsti gli interventi di altri tre scrittori) non si prestavano ad approfondimenti. Finì con una cocomerata offerta dal titolare del bagno. Il Premio quell’anno lo vinse il vecchio leone Raffaele La Capria con “L’estro quotidiano”, Mondadori, ma il libro di Alajmo mi incuriosì molto. Lo comprai e lo lessi d’un fiato. Ricordo che la mia immersione nella narrazione fu totale: secoli di (mia) lontananza dalla Sicilia furono cancellati: mi ritrovai nel magma dell’anima siciliana.

“Cuore di madre”, con altri quattro libri del nostro, recuperato tramite il mio vagabondare nel Web è per me una riscoperta. Il racconto è centrato sul segmento di vita di un uomo e di una madre durante la custodia obbligata di un bambino rapito. Esso si presenta come un unico blocco narrativo, solido e compatto (Camilleri). La scrittura è asciutta, procede senza impennate, con sorvegliata leggerezza carica di senso, svelando via via una realtà grottescamente insensata. Si apre con un gustoso piccolo saggio sulle diverse ipotesi riguardo alle origini della nomea di iettatore appiccicata al protagonista, Cosimo Tumminia, un uomo di quarant’anni, magro, dall’aria dimessa, triste, taciturno, isolato, senza amici, vestito di nero, “sempre in giro con la madre più triste di lui”.

Cosimo ha un rapporto di totale dipendenza dalla madre nonostante abbia compiuto una specie di strappo andando a vivere da solo in una casa di campagna. Gestisce un’officina di biciclette con rari clienti in un paese in saliscendi inadatto all’uso di quei mezzi di trasporto. Mano mano siamo introdotti in un mondo di squallida quotidianità ove ogni gesto è dettato da una logica di meccanica egoistica utilità. Misuriamo la solitudine dell’uomo dalla continua attesa di un cliente che non arriva mai, dalla maniacale e ossessiva dedizione alla risoluzione di parole crociate, dalla mancanza di rapporti sociali e sentimentali, dalla ordinarietà ed elementarità dei suoi pensieri e comportamenti.

Cosimo si trova a svolgere il ruolo di custode di un bambino rapito, a lui consegnato da certi signori a cui noi può dire di no, senza apprezzabili alterazioni nel suo aplomb psichico e mentale, badando semplicemente alle piccole incombenze di circostanza in totale assenza di un pur minimo sussulto di carattere morale. Lo stesso avviene con la madre. Una volta conosciuto il segreto del figlio la donna prende in mano la situazione e gestisce la convivenza col bambino con fredda razionale naturalezza, scevra da ogni tensione emotiva. Il bimbo, dopo un’iniziale disperata reazione, si è lasciato andare e giace in totale inerzia.

Gli sforzi per farlo mangiare mirano a tenerlo in vita solo per adempiere senza intoppi o danni all’imposizione ricevuta da gente pericolosa. Non c’è pietà, nessun sentimento umano. La scrittura di Alajmo registra con sobria scorrevolezza, con sfumature di amara, attonita ironia, questa atmosfera di insensatezza, irrealtà, lucida follia, di allucinante cinismo e di orrore. Il racconto si snoda senza un attimo di respiro sino al finale non scontato e rabbrividente.

Con “Cuore di madre”, titolo volutamente sarcastico, Roberto Alajmo ci consegna un’opera dalla cifra stilistica ben definita, capace di contenere e stemperare, nella leggera tessitura di un linguaggio affabile, allegorico e personale, le sue accensioni di uomo e di artista sensibile e reattivo verso una realtà che disturba fortemente la sua coscienza.


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