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Monopolio e speranza nell’opera di G.K. Chesterton

G. K. Chesterton (Londra, 29 maggio 1874 – Beaconsfield, 14 giugno 1936), è stato uno scrittore e giornalista britannico. Celebre per la serie narrativa con protagonista la figura di padre Brown. In campo economico fu fautore del distributismo.

di Salvatore A. Bravo - domenica 21 aprile 2024 - 464 letture

La violenza del monopolio oligarchico è la realtà del nostro presente, non è possibile pensare il nostro tempo senza “storicizzare” il monopolio oligarchico, condizione necessaria per elaborare percorsi emancipativi. L’esodo da un sistema sempre più disumano, in cui la vita è perennemente offesa, vuole ed esige il contributo dei resistenti. Bisogna assediare il sistema con una pluralità di gesti, che possono segnare e segnalare la costituzione di un comune percorso. L’emancipazione dev’essere preparata con una pluralità di posizioni, in cui rintracciare il “sentiero luminoso” della libertà.

Confrontare e comparare criticamente visioni economiche e culturali è una delle modalità per sottoporre il Capitale ad un martellamento critico per svelarne limiti, contraddizioni e crimini. Il distributismo è una teoria economica e politica in Italia quasi sconosciuta, pertanto ogni opera che contribuisce ad elevare conoscenze e dialettica è meritoria. Le oligarchie producono i discorsi, vorrebbero determinare i destini dei popoli con la produzione di un ordine del discorso organico al dominio. In questo clima politico, bisogna assediare il potere con discorsi che possano liberarci dal fatalismo del presente. Il distributismo insegna che la trasformazione sociale e politica inizia con la consapevolezza che niente è impossibile. L’esodo dal capitalismo, come visione del mondo, è necessario per neutralizzare la discesa verso l’abisso. L’apertura al futuro comincia con un numero innumerevoli di passi, purché sia chiaro il percorso che è necessario intraprendere: un esodo.

Il profilo dell’equilibrio di G. K. Chesterton ha nel titolo la sintesi contestuale di un testo profetico: l’Autore addita la palude in cui siamo caduti, mentre, senza accorgercene, siamo divenuti preda di due forme alternative ma equivalenti di monopolio, che hanno divorato l’autonomia del soggetto, la sua mente critica e creativa. Il capitalismo nella sua forma oligarchica proletarizza e rende le soggettività dipendenti dai potentati economici; il comunismo storico sussume facendo leva sulla burocrazia statale, riduce i cittadini a servi del Sistema: in entrambi i casi si assiste ad una ipertrofia di parti della struttura sociale che irrompono sull’equilibrio sociale e gli arrecano nocumento: la dismisura è la violenza legalizzata dell’economicismo, che opprime ed aliena, portando i popoli alla condizione di plebe.

Il distributismo in G. K. Chesterton non è una semplice teoria economica, non riduce l’essere umano a semplice funzione consumante e produttiva, ma traduce l’economia in una teoria antropologica, nella quale deve risplendere la totalità compiuta della persona. L’umanesimo è il sottofondo di ogni emancipazione: senza umanesimo l’essere umano è spinto fuori dall’orizzonte della storia.

Capitale e lavoro

Il giudizio sul capitalismo è radicalmente negativo. Il capitalismo nella forma monopolistica ha la sua genealogia “nel deserto”, poiché lì dove vigeva la piccola proprietà esso non ha attecchito, oppure ha incontrato delle resistenze a che il tessuto comunitario ed economico fosse dilaniato. Nella terra arsa, in cui preesisteva un deserto fatto di oligarchie, il suo radicarsi è stato invece veloce e funesto. Nella lettura di G. K. Chesterton, al fine di neutralizzare il capitale è necessario limitare le spinte oligarchiche e diffondere il possesso dei mezzi di produzione. Si deve rinsaldare ciò che il capitalismo ha separato: il capitale e il lavoro. La divisione causa la proletarizzazione generalizzata, non solo economica, ma anche psichica. Il soggetto impara il male della dipendenza, disimpara ad essere autonomo e concepisce l’obbedienza servile come la normalità del vivere senza qualità. Il deserto è il capitalismo, poiché divora con la piccola proprietà la relazione umana, la quale è orizzontale e verticale, e in questo processo nichilistico alla fine non resta che la vita desertificata. Dove la piccola proprietà ha attecchito con difficoltà, il passaggio di consegna delle oligarchie è estremamente agevole. Il deserto non può che produrre altro deserto.

“La verità è che la supposta evoluzione della piccola proprietà in capitalismo è proprio una raffigurazione di qualcosa che non avviene sostanzialmente mai. Ciò è attestato persino da testimonianze attinenti alla geografia, fatti che, a me pare, si tenda stranamente a omettere. Nove volte su dieci, non sorge una civiltà industriale del moderno genere capitalista, per quanto altrove riesca a farlo, in luoghi che abbiano sperimentato fino a un certo momento una civiltà distributiva, qual è quella contadina. Il capitalismo è un mostro che attecchisce nei deserti. La servitù industriale è sorta comunemente in spazi vuoti, in assenza completa o in presenza di una tenue civilizzazione precedente. Per questo si sviluppò facilmente nel Nord dell’Inghilterra, piuttosto che nel Sud, in quanto il Nord era desertico e barbaro rispetto al Sud, in cui fiorivano le gilde e una civiltà contadina. Allo stesso modo, crebbe facilmente nel continente americano, più che in quello europeo, proprio perché in America non vi era un humus anteriore, salvo qualche selvaggio, mentre in Europa fioriva una cultura di fattorie” [1].

Il deserto del capitale produce violenza e squilibrio, poiché i soggetti subiscono una condizione sociale ed esistenziale non rispondente alla natura umana. L’equilibrio è tensione dialettica tra le parti, in modo che l’esteriorità sociale sia speculare all’interior homo.

G. K. Chesterton usa la metafora dell’arco, il cui equilibrio è dato dialetticamente dalla tensione contrapposta tra le varie parti, e alla stessa maniera l’arco “umano” è possibile con lo sviluppo creativo della complessità vitale. Il deserto delle oligarchie prosciuga la vita con la sussunzione, mentre lì dove la persona governa il suo destino, le potenzialità umane trovano humus per il loro sviluppo:

“Che cosa intendiamo per uguale pressione, parlando delle pietre componenti un arco? Ne discuteremo in maggior dettaglio, ma in linea generale ci riferiamo al fatto che la passione dei giorni nostri per l’incessante e costante attività di acquisti e vendite si accompagna a un’estrema disparità tra ricchi e poveri. La continuità della civiltà contadina (che i suoi detrattori non riescono proprio a spiegare) trova la sua radice nel fatto che, laddove si nutra un senso dell’indipendenza, si stima questo valore al pari di qualsiasi altro elemento della dignità umana, normale pertinenza di ogni persona, come ad es. non andare in giro nudi o non dover subire una bastonatura dal proprio capo” [2].

Autonomia e libertà

Il distributismo ha come obiettivo assiologico ed ontologico l’autonomia del soggetto umano senza individualismo. Autonomia non significa competizione, ma capacità di governare i mezzi di produzione, da cui trarre i proventi per il proprio ed altrui benessere senza sfruttamento. Il monopolio capitalistico, con il suo asservimento, nega la proprietà privata: questo può sembrare un paradosso, ma costituisce la verità profonda del monopolio, il quale risponde alla logica della crematistica e del dominio. Il monopolio ingenera proletarizzazione, diffonde pubblico malessere, e non a caso nei sistemi liberali si può criticare e parlare vanamente di tutto, ma non dell’essenziale, e in specie della causa prima dei mali che affliggono la comunità: il monopolio, appunto.

La proprietà ha il suo senso etico nel soddisfare i bisogni reali del soggetto, la relazione proprietà/individuo è formativa, insegna l’autonomia critica ed economica, libera dai desideri smodati, in quanto il soggetto è “padrone” della sua vita e non è nevroticamente competitivo. Il soggetto vive quotidianamente l’esperienza della cura di sé, e della conquista della libertà quale obiettivo politico quotidiano. Il monopolio nega il senso etico della proprietà, trasforma il popolo in plebe, che dipende dai “capricci-interessi” dei padroni. La proprietà scompare dall’orizzonte sociale quale mezzo per soddisfare i bisogni reali. La piccola proprietà non diviene potere politico antidemocratico, poiché come l’arco vi è equilibrio fra le parti. Dove vige il monopolio crematistica la piccola proprietà scompare per essere schiacciata dalla potenza economica politica dei monopoli.

Il pensiero di G. K. Chesterton è sotto certi aspetti anarchico, poiché nessun sistema ha il diritto di mettere un guinzaglio al cittadino. La libertà è processo di autogoverno che collabora con l’alterità, senza abdicare all’identità personale. L’aggressività competitiva e sradicante tipica dei sistemi monopolistici è sublimata nella conoscenza di sé, mediante la prassi e la cura della proprietà. G. K. Chesterton contempla la possibilità che ciascun proprietario possa produrre energia sufficiente ai propri bisogni in modo autonomo, tema quanto mai attuale e non più procrastinabile. L’uso astratto ed impersonale dell’energia ha condotto al disastro economico. Egli si chiede se la tecnica sia davvero al servizio della persona o delle oligarchie, tale domanda fondamentale è scomparsa dalla pubblica discussione.

Un sistema oligarchico e crematistico non può che spingere verso l’integralismo economico di ogni componente tecnica e culturale. L’autonomia implica la capacità di porre domande e di mettere in discussione “gli imperativi” (così li chiama l’Autore) su cui si regge il sistema monopolistico. La grande distribuzione distrugge il tessuto economico, instilla pregiudizi ed “educa” al gigantismo economico, presentato come necessario e migliore rispetto alla distribuzione del piccolo negozio in loco. Il monopolio dei grandi centri commerciali produce plebe e abitua a cattivi prodotti standardizzati, si è consumatori passivi, non si ricerca realmente ciò che fa per sé, ma ci si affida a una produzione consegnata a grandi strutture economiche:

“La verità è che i negozi dei monopolisti sono davvero molto convenienti: per i monopolisti, appunto. Essi hanno il vantaggio di concentrare l’attività economica, e quindi la ricchezza, nelle mani di sempre meno cittadini. La loro opulenza talvolta consente loro di pagare stipendi passabili, e di comprare negozi migliori pubblicizzando beni peggiori. Che i loro beni siano migliori, invece, finora non l’ha dimostrato nessuno, e gran parte di noi può raccontare numerosi casi concreti in cui gli acquisti si siano rivelati un pessimo affare. Ora, ho espresso questa mia opinione (tanto choccante per l’editore del giornale e i suoi inserzionisti) non solo perché rappresenta un esempio della mia tesi generale, secondo cui occorre ridar nuova vita alle piccole proprietà, ma perché è un punto essenziale per comprendere un’altra realtà degna di nota. Parlo della psicologia che sta dietro a tutto ciò, del gigantismo di per sé, della ricchezza di per sé, della mera pubblicità, dell’arroganza. Ciò consente di formulare un primo congruo modello del modo in cui si fanno oggi le cose, e del modo in cui (pregando Iddio) si potrebbero disfare domani” [3].

Felicità e speranza

Una vita felice è una vita in consonanza con il tutto e con le sue cause, ed è possibile solo laddove il soggetto torni ad essere il padrone della propria vita, senza delegarne il comando delle redini. G. K. Chesterton cita per l’appunto questo inciso di Virgilio, secondo cui felice è solo colui che conosce le cause della totalità: sotto questo aspetto, i monopoli agiscono in direzione diametralmente opposta, favorendo l’ignoranza generale dei meccanismi di potere. Il soggetto, non comprendendo le cause in cui è implicato, si adatta, e ciò non può che favorire comportamenti fatalistici, che mortificano fino a una passività depressiva. Il distributismo ridona a ciascuno il senso della casa e dell’appartenersi senza egoismo.

Il proletarianismo è l’unico risultato del capitalismo nella sua fase monopolistica, esso produce schiavi salariati senza capitale, liberi in teoria, ma servi del capitale nella realtà materiale, privi di alcunché di realmente proprio, e in primis di se stessi. Il distributismo contro ogni fatalismo è speranza immanente, con la quale abbattere il Moloch dei monopoli che opprimono e umiliano i popoli. La speranza è prassi, non può che palesarsi con progetti politici o proposte, da cui ricominciare un cammino per sconfiggere il monopolio capitalista. G. K. Chesterton, contro fatalisti e innumerevoli obiezioni e proposte anche interne allo stesso movimento distributista, elenca una serie di spunti, da cui iniziare per invertire la tragica rotta:

i. Una tassazione dei contratti tale da scoraggiare la vendita della piccola proprietà a grossi proprietari, e da incoraggiare la ripartizione di grosse proprietà tra proprietari più piccoli;

ii. Una metodologia analoga alla legge testamentaria napoleonica e alla eliminazione del carattere di primogenitura;

iii. L’istituzione di una zona franca per i poveri, in modo che la piccola proprietà sia sempre difendibile dalla grande proprietà;

iv. La protezione deliberata di certi esperimenti nelle piccole proprietà, se occorre con dazi, persino locali;

v. Sussidi per stimolare tali sperimentazioni;

vi. Una lega per devolvere volontariamente parte di proprietà, o qualsiasi combinazione di iniziative dello stesso genere” [4].

Per poter rompere l’isolamento, in cui il monopolio oligarca ha portato i popoli, è fondamentale “dialettizzare” il presente per rompere la plumbea cappa del fatalismo che incombe su tutti, e pertanto rapportarsi e ripensare collettivamente le alternative al sistema attuale non può che essere salutare, dinanzi alla barbarie che avanza con le parole del falso progresso. Pensare in modo dialettico è il primo gesto di disobbedienza civile da cui ricominciare. Le parole di G. K. Chesterton ci invitano a sperare ed ad agire, e ciò non è poco in un momento storico in cui le oligarchie insegnano la rassegnazione:

“Ciò che va compreso sin dall’inizio è che qualsiasi grado di liberazione dalla pressione attuale avrà un effetto, probabilmente, di stampo più morale di quanto non immagini gran parte dei nostri critici. Sino ai giorni nostri, il monopolio plutocratico è ciò che ha trionfato ineludibilmente, e la proprietà privata lo sconfitto costante. Mi avventuro a pensare che una sola, reale, sconfitta di un monopolio avrebbe finalmente un effetto istantaneo e incalcolabile, ben oltre il suo limitato perimetro, così come accadde per le prime sconfitte sul campo dell’impero militare della Prussia, che si riteneva imbattibile. Man mano che ciascun gruppo o ciascuna famiglia ritrova una vera esperienza della proprietà privata, ricomincerà ad essere un centro di influenza, una specie di missione” [5].

Per riprendere il cammino interrotto della libertà e della liberazione dal totalitarismo liberista è necessario riaprire il dibattito su temi che sono occultati dallo spazio pubblico mediante “il monopolio del pensiero pubblico”. Rompere la cappa che vorrebbe neutralizzare la discussione allo scopo di impedire l’accertamento dialettico dei falsi miti e dei dogmi del liberismo è l’incipit per attraversare la tempesta del totalitarismo liberista che umilia, domina e aliena l’umanità.

[1] G. K. Chesterton, Il profilo dell’equilibrio, traduzione di Angelo Magliocco, 2022, pag. 7

[2] Ibidem, pag. 11

[3] Ibidem, pag. 39

[4] Ibidem, pag. 49

[5] Ibidem, pag. 24


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