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Ricordando Pippo Fava

A venti anni dall’omicidio di mafia del giornalista Giuseppe Fava, quanti possono oggi affermare, di aver contribuito a creare quella società civile, tanto cara al giornalista, rinunciando totalmente alla cultura mafiosa. Solo anche quella del piccolo mondo che ci circonda.

di Piero Buscemi - sabato 3 gennaio 2004 - 6410 letture

Il 5 gennaio prossimo saranno 20, gli anni che ci siamo lasciati dietro dall’omicidio del giornalista Giuseppe Fava. Venti anni di giochi di parole, di indagini deviate verso un "grottesco" omicidio passionale, di un processo agli esecutori materiali distrattamente dimenticato dalla stampa nazionale. Di bugie in attesa di giustizia. Venti anni da una sera di fine feste natalizie. L’anno nuovo, il 1984, era stato festeggiato da pochi giorni e Pippo Fava forse quella sera, si era svestito a fatica dei panni del cronista controcorrente, per vestire quelli dell’uomo di tutti i giorni. L’uomo che grida dagli spalti di un campo di calcio, che spara i botti di fine anno per scacciare la sventura, che va a’ Pescheria perché lì, il pesce è sempre fresco. L’uomo convinto che, la mafia è solo un problema che esiste fuori la porta di casa sua. Ma forse, Pippo Fava non li tolse mai quei panni di giornalista che cercava la verità ad ogni costo, che nascondeva la rabbia contro i soprusi dei mafiosi con l’enfasi delle parole nei suoi articoli, che prese i suoi "carusi" e li portò per strada a graffiare il lerciume dai muri dei Palazzi di Catania, che accese la speranza di una rinascita della società civile, messa a tacere dall’indifferenza. E Pippo Fava ha pagato per questo suo sogno da dividere con la città, come tanti altri folli donchisciotte commemorati sulle steli topografiche. Ha pagato con la vita, lasciandoci un’eredità di coscienza che segnerà per sempre le generazioni dei futuri cronisti.

Si, il prossimo 5 gennaio saranno venti anni. Il tempo sufficiente per veder trascorrere due generazioni: di giornalismo isolano dalle mezze verità, di uomini di potere che hanno occupato i posti lasciati vuoti, di primavere politiche e di inverni dei quali non si riesce a vedere la fine.

Lo potremmo ricordare rubandogli le parole e potremmo ripartire da quelle incise sulle lapidi evocative, inchiodate in bella mostra nell’atrio di qualche scuola dedicata in suo nome. O magari dalle storie che ci ha raccontato nei suoi libri, con i personaggi schiacciati, offesi, umiliati dalle arroganze. Creati e resi vivi dai dialoghi intessuti, talvolta troppo semplici, ma anche troppo somiglianti a quelli che ogni giorno, invadono la nostra vita. Troppo simili a quelli che ci sfiorano o ci stringono la mano e senza saperlo, o forse facendo finta, sostengono, esaltano, approvano. Subiscono piccoli uomini che tramano nell’ombra, capaci di maneggiare e sconvolgere i nostri destini. E farne carta straccia.

Lo potremmo ricordare nelle aule dei dibattiti, degli appuntamenti con la storia, troppo spesso mancati; delle occasioni di riscatto, dei ricordi confusi dal tempo di chi lo ha conosciuto di persona. Lo potremmo ricordare tra le sue invettive ancora attuali, lanciate attraverso le pagine di qualche sgualcito numero de "I Siciliani" e provare a farle nostre. Ma ci piacerebbe farlo senza entusiasmi eroici. Ci piacerebbe farlo, ma con l’umiltà di chi ha assorbito dalle sue parole, la consapevolezza che le lotte delle quali Pippo Fava rivendicava il coraggio nell’affrontarle, si possono combattere ogni giorno, sottraendo piano piano, quel potere troppe volte elargito con sufficienza, ai nuovi cavalieri dell’apocalisse, che oggi gli suggerirebbero nuovi spunti per altre storie di sangue e di ingiustizie da tramandare ai posteri.

Perché sarebbe stato sufficiente, in questi venti anni, aver lasciato un segno di continuità della sua opera umana che ci ha trasmesso con i suoi scritti. Sarebbe stato sufficiente aver tradotto in fatti, i suoi messaggi di cambio di cultura per non vanificare la sua morte. Sarebbe stato sufficiente zittire le ipocrisie di tanta Gente di Rispetto, alla quale diamo ancora credito.


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