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La Germania, le mafie, il silenzio doloso

Un manipolo di circa un migliaio di individui si muove con una certa tranquillità per le strade tedesche ed entra negli ambienti che contano: nelle stanze della politica, della finanza, negli uffici bancari o in quelli imprenditoriali, nei locali del mondo sanitario.

di francoplat - mercoledì 7 febbraio 2024 - 648 letture

Tessono relazioni, interloquiscono con quelli che il magistrato Giuseppe Lombardo – procuratore aggiunto della Dia di Reggio Calabria – definisce «soggetti infedeli», si introducono nel mondo immobiliare, negli esercizi commerciali, nelle acciaierie, nel traffico di migranti o nella contraffazione dei marchi tedeschi, si dedicano all’estorsione o al narcotraffico così come al traffico d’armi, e riciclano, riciclano qualcosa come cento miliardi di euro l’anno. Cifra, forse, sottostimata di quella realtà che Luigi Muto, figlio blasonato del boss di Cetraro (CS) Francesco e cerniera con la Germania, ha definito «la lavatrice d’Europa», più nota, almeno fino a ieri, come «locomotiva d’Europa», la realtà tedesca, appunto; un altro rampollo ‘ndranghetista, Vincenzo Farao di Cirò Marina, diceva intercettato: «in Germania possiamo fare tutto».

Per fortuna per la ‘ndrangheta e per i suoi ramificati complici e purtroppo per la restante parte della società civile, Farao aveva ragione. È dal ministero dell’Interno tedesco, su sollecitazione pressante di Marcel Emmerich, presidente del gruppo parlamentare dei Verdi al Bundestag, che arriva un dato quantitativo inequivocabile: in Germania, sarebbero attivi 1003 individui legati alle mafie italiane, residenti permanentemente in terra tedesca, dei quali 519 affiliati alla ‘ndrangheta, 134 a Cosa nostra, 118 alla camorra, oltre 37 membri della mafia pugliese e 33 della Stidda. Una variegata compagine di criminali, tutt’altro che frammentaria e autoreferenziale; anzi, a detta di Lombardo, si tratterebbe di un sistema criminale integrato, coordinato in maniera sofisticata, in grado di riunire al vertice l’élite delle consorterie criminali storiche del nostro Paese, con una forte propensione alla migrazione illecita.

Non paia casuale o sgraziato il riferimento alla migrazione. Nelle “cose” di mafia, raramente c’è qualcosa di insolito o del tutto nuovo e anche la notizia fornita dalle autorità politiche tedesche non stupisce più di tanto. Da decenni, i nostri magistrati ripetono in Europa che il fenomeno delle mafie non è più un problema solo nostrano e che deve essere affrontato con strumenti già sperimentati in Italia, a partire dalla definizione del 416 bis, quello che sancisce il reato di associazione mafiosa, assente in Germania come altrove. Sin dalla fine degli anni Ottanta, del resto, pentiti, tra i quali Gaspare Mutolo, studiosi e inquirenti avevano ben chiaro che la caduta del muro di Berlino avrebbe rappresentato, insieme agli accordi di Schengen sulla libera circolazione in Europa, un elemento attrattivo per le mafie. «Kaufen, kaufen, kaufen», comprare, comprare, comprare, ripetevano alcuni ‘ndranghetisti, ascoltati dagli investigatori tedeschi, alla notizia del crollo del muro berlinese; e Mutolo, dal canto suo, spiegava che la Germania era ritenuta un territorio di conquista per le organizzazioni mafiose, a cui facevano gola l’edilizia e i terreni: «in realtà avevano capito che si poteva investire su tutto perché c’erano delle leggi favorevoli».

C’erano e, nonostante siano passati decenni, ce ne sono ancora di leggi favorevoli o, perlomeno, non troppo sfavorevoli. Ma le mafie italiane non sono arrivate congiuntamente alla caduta del muro di Berlino; erano già là. Lo sosteneva qualche anno fa Margherita Bettoni, coautrice del saggio “Die mafie in Deutschland” (2017), quando osservava che la mafia italiana era arrivata in Germania negli anni ’70, insieme ai lavoratori emigranti. Lo sosteneva, nello stesso periodo, una tesi di laurea uscita dall’officina accademica di Nando dalla Chiesa, “Le organizzazioni mafiose italiane nella Germania Nord-Occidentale: modello di insediamento” (a.a. 2016-17), di Simone Laviola, il quale retrodata ulteriormente i primi insediamenti mafiosi in terra tedesca: «l’espansione mafiosa in Germania ha pertanto una lunga storia che ha radici addirittura nella seconda metà degli anni Cinquanta del secolo scorso […]; i mafiosi seguirono i flussi migratori e si mimetizzarono grazie ad essi arrivando a stabilirsi nelle stesse zone nelle quali c’era una forte presenza di loro compaesani lavoratori».

La longevità delle mafie è davvero sorprendente, anche fuori dai nostri confini. Certo, il boom mafioso non è iniziato negli anni Cinquanta, ma era chiaro già nell’ultimo decennio del XX secolo che le mafie non erano e non sarebbero state un personaggio effimero della storia tedesca. È da quel momento che si diramarono nelle regioni economicamente più forti – Baden-Württemberg, Baviera, Essen, North Rhine-Westphalia – e anche in quelle meno ricche, ad esempio nell’Est della Germania, in Turingia, nella città di Erfurt, roccaforte ‘ndranghetista.

Ed è possibile ricostruire una sorta di mappa della presenza della ‘ndrangheta in Germania, anche sulla base delle inchieste “Stige”, “Tritone”, “Propaggine”: in Turingia, ad esempio, è rintracciabile la presenza dei clan Pelle e Romeo; in Assia nel Baden- Württemberg, provenienti da Cirò Marina ci sono gli uomini del clan Farao-Marincola; a Stoccarda, invece, si registrano i membri della famiglia Grande Aracri di Cutro. E non sono i soli. Perché la Germania vanta, non unica in Europa, un sistema mafioso di estrema eterogeneità, almeno stando alle considerazioni della Dia nella sua relazione del secondo semestre del 2022: il traffico di stupefacenti è “cosa” anche dei clan albanesi o della mafia cinese, che non disdegna neanche l’evasione fiscale dei proventi derivanti dal commercio all’ingresso di calzature e abbigliamento, né pare del tutto irrilevante la presenza di un «sodalizio multietnico che curava l’importazione dalla Germania di droga destinata a vari territori lombardi» (documento reperibile in Rete).

Non vale la pena insistere oltre, il fenomeno e la cecità davanti a esso dei paesi europei può indignare, ma non stupire. Anche se va detto che non tutti in Germania tacciono. Non tace, come si è detto, il parlamentare verde Emmerich, né ha taciuto e tace una coraggiosa giornalista tedesca, Petra Reski, che da oltre vent’anni segue da Venezia gli intrecci mafiosi tra il nostro Paese e la Germania; coraggio d’indagine che ha pagato con il licenziamento in tronco alcuni anni fa per aver evocato sul “Der Freitag” un imprenditore italiano nell’articolo “Ai boss piace il tedesco”. Si tratta di voci non isolate, alle quali se ne potrebbero aggiungere altre, a partire dall’associazione “mafianeindanke”, nata in Germania dopo la strage di Duisburg del 2007, e volta a sensibilizzare l’opinione pubblica e lo stesso ceto politico sul problema dell’infiltrazione di mafiosi in quella realtà. Proprio quest’associazione – il cui sito presenta un’interessante panoramica del problema mafioso in terra tedesca – ricorda che «il contrasto alle droghe in Germania è fuori controllo», citando una denuncia dell’emittente radiotelevisiva “Norddeutscher Rundfunk” del settembre scorso, e che il porto d’Amburgo è la nuova porta della cocaina in Europa. E sempre dalle penne e dalla riflessione dei membri di questo gruppo di attivisti antimafia tedeschi emerge un’altra interessante considerazione: noi notiamo – scrivono in un articolo su Duisburg 15 anni dopo – una «crescente distorsione popolare a riguardo dell’importanza delle mafie in Germania. Questo romanticismo mafioso […] spesso non ritrae la mafia come criminali senza scrupoli ma come gangster nobili».

Quindi, no, non mancano le sensibilità, non manca una certa attenzione. Ma ciò non cambia la sostanza delle cose, non è sufficiente per spiegare a chi vive fuori dall’Italia la necessità di un piano comune d’intesa contro la globalizzazione del fenomeno mafioso. Perché questa disattenzione, perché questa, almeno apparente, diffusa cecità? Alla domanda «perché nessuno fa niente?», Nicola Gratteri, intervistato da “Il Fatto quotidiano”, ha risposto: «perché le mafie in Europa portano soldi, contanti e liquidi che finiscono nel prodotto interno lordo dei Paesi. Fanno economia: nella visione mercantile, in quella dei commercianti e degli imprenditori, vuol dire che arrivano milioni di euro in contanti. E quindi l’approccio è quello di considerare l’arrivo delle mafie come un’opportunità» (1 febbraio 2024). Insomma, pecunia non olet, secondo il magistrato.

Un altro magistrato, ora parlamentare pentastellato, ossia Roberto Scarpinato, già nel 2014 osservava: «quando non si cerca di capire la fonte dei soldi e si accetta l’ingresso indiscriminato di capitale nel proprio Paese, allora la moralità stessa di un popolo è a rischio». E aggiungeva: «la Germania deve decidere se accogliere la mafia o combatterla». Senza emanare sentenze tranchant, si può dire che, allo stato attuale delle cose, i tedeschi paiono in ritardo rispetto quella scelta, paiono incerti, dubbiosi, come sospesi, sedotti, forse, da quel fenomeno e forse ritratti, spaventati, increduli. Né si può dare loro del tutto torto. Quanto abbiamo impiegato nel nostro Paese a dire apertamente e senza ambiguità che esiste la mafia? Quando è arrivata una legislazione degna di questo nome, capace di codificare un reato che presupponesse l’esistenza di un vincolo associativo mafioso? Quanto, ovviamente, in rapporto alle origini storiche delle mafie tradizionali. Un secolo e più, si potrebbe dire. Senza considerare, ovviamente, i tanti recalcitranti amministratori – a partire da Roberto Maroni – che hanno opposto dei “no” vigorosi davanti all’ipotesi che le loro terre fossero condite di denaro mafioso. E senza considerare che, ultimamente, pure nel nostro Paese avvertiamo come l’eco lontana delle voci che davano le mafie per sconfitte, se non inesistenti. Lontane sirene che tornano, derubricano pure da noi la questione, la silenziano.

Ciò non significa affatto scagionare i tedeschi dalle loro responsabilità in merito alla tardiva elaborazione di una forte risposta alla penetrazione mafiosa; spesso, le mancate risposte sanno di convenienza più che di ignoranza. Del resto, si è detto in altre occasioni che le mafie assolvono a una funzione rilevante nel mondo globalizzato, che si sono conquistate una sorta di oligopolio dei servizi essenziali, dall’arbitrato nelle situazioni di conflitto tra interlocutori fraudolenti – corrotti e corruttori – alla ripulitura del denaro sporco da far diventare candido, dalla gestione dei rifiuti tossici a quella della vendita delle armi nelle zone di conflitto. Rievocando Peppino Impastato, si potrebbe dire che se è vero che la mafia è una montagna di merda, è anche vero che non può che sguazzare a proprio agio nella merda e, se quest’ultima è la cifra di una realtà complessivamente più corrotta e inquinata, viziata da una feroce avidità e da un ancora più feroce desiderio di sopraffare l’inerme o l’onesto o l’ignaro, allora le mafie non possono che trovare interlocutori a cui rivolgersi nella stessa lingua, usando la stessa sgraziata grammatica del dominio cinico, oltraggioso. In Germania, come altrove.


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