Una voce dal profondo, di Paolo Rumiz
Una voce dal Profondo / Paolo Rumiz. - Milano : Feltrinelli, 2023. - 288 p., br. - (I narratori). - ISBN 978-88-07-03573-9
Si apre con una serie incalzante di passati remoti (che meglio sarebbe chiamare alla latina perfetti) Una voce dal Profondo, a connotare il radicamento di un’esperienza di viaggio nel magmatico territorio del sacro, in una temporalità che, ritmata dai rintocchi fatali della successione verbale, scardina il qui ed ora per affondare nel mito. E il mito, come la testa recisa di Orfeo che continua a cantare anche dopo la sua morte, impone la sua visione e il suo linguaggio alla rivisitazione di un’Italia ferita e dimenticata eppure intensa e bellissima.
- Copertina di Una voce dal profondo, di Paolo Rumiz
Cominciò verso le due di notte... durò per uno, massimo due secondi... tornò il silenzio...: i perfetti cadenzano e scandiscono una percezione uditiva inaudita che coinvolge lo scrittore nel cuore della notte ad Alicudi. Prima un latrare di cani, poi un silenzio, reso più teso dal frinire dei grilli, dal pulsare del sangue nelle orecchie, dalla voce di un uccello notturno, infine una scia sonora, che si sprigiona dalle viscere della terra simile a un canto armeno o al rotolare dei ciottoli smossi dalla corrente di un fiume.
Silvio, il pescatore, memoria vivente del luogo, dice che quel rombo notturno si ripete spesso e che i locali lo chiamano “ˈu treno”. Nulla a che fare con lo sferragliare di locomotive e vagoni, scoprirà Paolo Rumiz, ma una dolente lamentazione funebre, come suggerisce la parola greca thrênos.
Quella voce dal Profondo suona come una chiamata ineludibile cui lo scrittore non può sottrarsi, anche se si sente sovrastato dalla complessità della prova che lo attende: Era un libro ancora tutto da scrivere, una monumentale “Sinfonia delle Tenebre” che forse non avrebbe mai trovato un compositore. Troppa vastità labirintica. Troppa paura, forse, di entrare nelle fondamenta di una Terra incognita che ci porta dritti al sommerso della psiche e apre vertiginosi itinerari in noi stessi.
E il viaggio comincia col viatico di una carta strutturale-cinematica dell’Italia che racconta ciò che sta sotto, una carta rigorosamente scientifica, che, grazie ai colori vividi e contrastanti con cui designa le diverse ere, immediatamente assume le caratteristiche dell’oggetto magico che soccorre l’eroe delle fiabe nelle sue peripezie.
Ed è un viaggio della memoria, perché Paolo Rumiz rivisita da sud a nord l’Italia delle eruzioni e dei terremoti, l’Italia di Efesto, di Poseidone, di Eolo e soprattutto delle Grandi Madri, rileggendo e rimeditando, anche con l’aiuto dei suoi taccuini, i tanti viaggi che dal 2009 l’hanno condotto, spesso a piedi, su e giù per isole e montagne, per borghi e città, per grotte e monasteri. Come l’autore riconosce nelle ultime pagine del volume, baricentro del suo errare è Napoli, in cui tutto si mescola e si confonde alimentando simboli vivi e potenti in cui si connettono poeti e santi (Virgilio e San Gennaro), dee e madonne, maschile e femminile, sacro e profano. Ne sono espressione le feste, soprattutto quelle legate ai riti pasquali di morte e rinascita, in cui il legame materno Demetra-Persefone facilmente si sposta a quello Maria-Gesù. Napoli aveva fatto quadrare il cerchio tra fertilità e morte. Forse stava lì il segreto. Nella compresenza dell’esuberanza dei vivi e della familiarità con i morti. Nel fatto che tutto avesse un significato plurimo. Multisensoriale, magmatico, inafferrabile, teatrale.
Al polo opposto della porosità di Napoli (come acutamente aveva intuito Walter Benjamin) sta la rarefazione dell’Aquila, la città martoriata dal terremoto del 6 aprile 2009, ma soprattutto martoriata dal crimine dell’incuria, dalla spettacolarizzazione televisiva della tragedia, dal dramma del grande esodo. L’Aquila era vuota di rumori e di odori. Mancavano i cigolii, la voce delle stoviglie, il profumo del forno e della vecchia cioccolateria. I campanili tacevano.
La ricerca della voce del Profondo imprime al racconto il suo timbro linguistico, fatto di distensioni e contrazioni. Le distensioni in cui il piacere del narrare ricrea ambienti, luoghi, incontri, cene luculliane con gli umili prodotti della terra. E qui il tessuto discorsivo è punteggiato da metafore che riconducono l’eccezionale al quotidiano (l’insonnia della terra, il mestolo dei venti, la mandria delle acque transumanti) con un gusto che rende vivo e animato il paesaggio. Ecco un passo emblematico: Da Sorrento ai Flegrei, Procida e Ischia comprese, si estende una cucina ribollente di infernali minestroni, con decine di padelle grandi e piccole poggiate su un sistema ramificato di fuochi, miasmi e acque sulfuree. Un posto che sfiata, scoreggia, risuona, traballa, brulica e mormora scongiuri, col quale però è necessario convivere.
Le contrazioni prevalgono quando l’anima si sente investita dal mistero del Sacro, da quell’árreton, quell’indicibile presente nella cultura greca, evocato da una breve serie di nomi o da un nome soltanto: Grotte, nascondigli di santi e di briganti. Di nuovo, la voce del Profondo. Il buio degli antri ipogei, la santità della Terra, le voci venute da Oriente. Ma quei nomi emblematici del suo errare Paolo Rumiz, forzando le convenzioni linguistiche, li scrive con la lettera maiuscola, fin dal titolo. E lo stesso accade per Sommerso, Terribile, Terra, Tenebre ed altre parole-chiave.
Una voce del Profondo, per questa sua cifra, è racconto e rielaborazione di esperienze che danno carne e sangue a quell’etica del viandante cui recentemente ha dedicato un poderoso saggio il filosofo Umberto Galimberti (2023). Paolo Rumiz sa che la natura precede di milioni di anni la comparsa dell’essere umano; sa che la vita è possibile solo nell’interconnessione di minerali, vegetali e animali, di ciò che sta sotto e ciò che sta sopra; sa che l’essere umano è la forza geofisica più distruttiva, ma sa anche che la Necessità, con la potenza della greca Anánke, impone che, da padrone della natura, ne diventi il custode.
Paolo Rumiz è un viandante.
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