Paulu Piulu: in romanzo la "mente bambina"
Il romanzo Paulu Piulu, esordio nella narrativa di Giorgio Morale, scrittore originario di Avola (Siracusa) da poco pubblicato dall’editore salentino Manni
Il romanzo Paulu Piulu, esordio nella narrativa di Giorgio Morale, scrittore originario di Avola (Siracusa) e residente a Milano, da poco pubblicato dall’editore salentino Manni, si presta a diverse letture.
La cosa più evidente a una prima lettura è che aggiunge una nuova testimonianza di grande intensità emotiva alla presenza dell’emigrazione nella letteratura italiana, dove per gran tempo è stata lungamente assente: penso invece, da qualche decennio in qua, ai libri di Laura Pariani, Carmine Abate, Melania Mazzucco. Segno che un’esperienza di grandi dimensioni della nostra storia moderna è stata assimilata e adesso viene rielaborata da figli o nipoti dei diretti protagonisti.
Qui si tratta dell’emigrazione degli anni 60, rivolta prevalentemente dal sud dell’Italia verso il Nord industrializzato dell’Italia e dell’Europa. L’emigrazione del padre di Paolo, il bambino protagonista, dalla Sicilia alla Germania, è seguita nel suo itinerario, dall’insorgere del progetto al suo perfezionarsi. Prima vengono i racconti dei pionieri, che, “con qualche parola straniera che s’inseriva nei discorsi rendendoli più convincenti, narravano di grandi fabbriche e miniere dove i soldi si scavavano insieme al carbone”. Poi c’è il primo contatto con la Germania, dove “tutti facevano così: lavoravano come bestie e dicevano che il lavoro era Chaisse, cioè ‘merda’. La sera andavano nei locali, a ballare e ubriacarsi, specialmente il sabato”, mentre “nelle baracche c’erano così tanti spifferi, che sembrava di dormire all’aperto”. Abbiamo poi il dramma della partenza e quello dei ritorni, quando “il padre ha un odore sconosciuto. Forse è questo l’odore della Germania, fatto di scarpe e indumenti nuovi”. Riviviamo le mirabilie raccontate ai parenti, ma anche le incredulità della nonna, che nega risolutamente: “Tutte sciocchezze. Non è vero niente”. Per finire con le problematiche del lavoro e del rapporto con i lavoratori tedeschi.
Il punto di forza di Paulu Piulu è però il fatto che l’emigrazione sia vista soprattutto dalla parte di chi resta, il bambino protagonista. Uno dei brani più coinvolgenti è quello della partenza, e in particolare la scena del “bacio che avvinse il padre e la madre e li tenne ambedue con gli occhi chiusi, le bocche che aderivano, le mani dell’una dietro la nuca dell’altro, lasciando Paolo per la prima volta escluso da un loro abbraccio. A domandarsi come nella loro vita potesse realizzarsi una scena tanto bella quanto imbarazzante”.
Questo introduce a un altro piano del testo, secondo cui si potrebbe dire che Paulu Piulu è la storia della scoperta del mondo da parte di un bambino. Il tempo e lo spazio connotano fortemente la vicenda, il contesto storico-ambientale è molto finemente ricostruito, ma l’interesse fondamentale dello scrittore è tutto focalizzato sull’avventura della scoperta. All’inizio Paolo è molto piccolo. Addirittura, all’inizio lo vediamo che “alla sua nascita, spiritello mobile, svolazzava nei cieli della sua stanza”. Trattandosi dell’infanzia, entrano in gioco le scoperte più elementari, che sono poi le più importanti: la madre, il padre, la casa, la pioggia, il mare, le stagioni, le feste, le città, i soldi. Le scoperte insomma che disegnano la nostra mappa mentale e decidono il nostro rapporto col mondo.
Fra tutte le scoperte di Paolo, impressionante è il racconto della scoperta della morte. Annunciata nei timori delle veglie notturne, evocata nelle preghiere prima di dormire, la morte diventa protagonista del breve capitolo intitolato Estate. In questa stagione così forte, mentre la natura scoppia di vita, avviene la rivelazione dell’ineluttabilità della morte, che lascia Paolo senza parole. Il narratore non commenta, dice solo che “nei mesi seguenti Paolo continuò a balbettare”.
Il tema della morte ritorna in modo enigmatico nell’epilogo, che ci porta, con una ellissi di circa trent’anni, nella Milano di oggi, dove il protagonista adulto è raggiunto dal verso della piula, l’uccello notturno che la tradizione popolare siciliana indica come annunciatore della morte.
Il narratore riesce a mantenere per tutto il racconto la compresenza di due punti di vista, quello del bambino e quello dell’adulto, senza che si sovrappongano ma anche senza che uno vada perso. Il risultato è una stupefacente capacità di esprimere quella che Giulia Niccolai ha definito, recensendo questo libro, “la logica strampalata di una mente bambina”. Che in Paulu Piulu si presenta senza indulgenze o sentimentalismi, con una scrittura curata ma asciutta, di grande tensione stilistica, che la esalta.
- Ci sono 1 contributi al forum. - Policy sui Forum -
Mi fa piacere trovare menzione di questo libro che a suo tempo mi era sfuggito nell’archivio di girodivite. Io l’ho appena letto grazie a una recensione uscita su www.ildito.it, che inserisco di seguito.
26/09/2005 Paulu, la memoria e l’esordio di Morale di Giuseppe Condorelli
Aggrappato alla memoria sua e di un’isola tanto magica quanto crudele e "matrigna", Paulu Piulu - romanzo d’esordio di Giorgio Morale che la prestigiosa Piero Manni di Lecce ha appena pubblicato nella collana “Pretesti” - snoda una narrazione ‘esemplare’ di formazione, scandita da una infanzia segnata da una dignitosa povertà ad Avola prima del grande salto nella Germania industrializzata degli anni ’70.
Di chiara matrice autobiografica - anche se nell’ottica della focalizzazione zero - la storia ripercorre, senza la retorica larmoyant e bovaristica di tanta letteratura regionalistica, le vicende in cui tanti siciliani possono riconoscersi: il lavoro alienante e agro nei campi del padre bracciante, una infanzia “dal margine”, del freddo e della fame, il mito (un po’ esotico) della terra promessa (America o Germania poco importa), la disillusione dell’impatto con la ‘civiltà’, la necessità delle radici.
Per orientarsi e spostarsi lungo questa “bildung” il giovane protagonista Paolo - che assume il ruolo del “piulu” (onomatopea del verso della gazza) - si fa voce, “lamento” appunto attraverso una intima corrispondenza col mondo arcaico che lo circonda - cavallo, la stalla, il mare, la pioggia, ape, erba, feste comandate (così come si intitolano i brevi capitoli che lo compongono) - e con quello crudele dall’altro della fabbrica, dell’indigenza, della città e de suoi rapporti disumanizzati.
Per orientarsi (anche nel suo presente di insegnante a Milano) Paulu-Giorgio utilizza la memoria come una bussola, si fa palombaro: non a caso l’inizio del romanzo è ricco di metafore marinare - che poi alludono a quella dell’esistenza come viaggio: “Come un’ancora Paolo invocava la mano che la madre tendeva da un letto all’altro. Paolo l’afferrava, facendo passare la sua attraverso le assicelle che formavano la sponda del lettino, incerto confine con il mare aperto, come il parapetto di una nave”.
Paulu Piulu è anche libro ‘solare’ in una accezione particolare, bufaliniana quasi, sospeso tra luce e lutto: se è vero che “l’estate illumina meglio i ricordi”, quella luce è anche in grado di mettere a nudo le ombre di una esistenza assai contrastata - città/mare; fabbrica/alienazione; partenza/fuga; orto/radici, una esistenza sostanzialmente connotata da una sorta di animismo magico, una dimensione a volte mitica in cui il protagonista è totalmente immerso: una compenetrazione nel mondo della natura e dei suoi esseri.
Grazie ad un registro linguistico ondulato e dolce, il romanzo dell’infanzia di Giorgio Morale è il romanzo della verità e l’epigrafe della Cvetaeva - La storia delle mie verità, ecco l’infanzia - ce ne restituisce tutto il senso: dalla dignitosa povertà, dalle trasgressioni, dall’amore per la lettura fino alla maturazione della coscienza, esplicitata da quel “desiderio d’altezza” che è voglia di mutamento e di trasformazione.
Anzi nella seconda sezione (“La torta di sabbia”) dopo i conflitti della prima, il romanzo sembra ritrovare in alcuni capitoli una deliziosa atmosfera retrò: se volessimo istituire un paragone cinematografico potremmo benissimo pensare a “Les choristes” di Barratier per quel suo modo discreto e spontaneo di maneggiare alcuni momenti fondanti dell’infanzia.
Lungo questo tragitto, lungo questa geografia che non è solo interiore ma reale e dolorosa, non si smarrisce però l’identità se non per farsi più forte, più radicata: nella figura (circolare) del padre che non certo a caso apre e chiude la vicenda - a quarant’anni di distanza - si avverte ancora la necessità dell’appartenenza, dell’identità e dei legami familiari, di una attrazione - alla Vittorini? - per quei luoghi che ormai Paolo esule nella moderna Milano continua a rivisitare: “I luoghi sembravano l’anima buona delle cose. In essi erano sedimentati gli affetti e le storie, svincolati dalla vicenda delle vicende umane. Ed essi li porgevano, puri, indifesi, disponibili.”
Ed è proprio questa purezza, questo humus quasi pascoliano del nido ma attraversato da “astratti furori” a rendere piacevole la mistica dell’infanzia di Paulu Piulu.