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L’Ungheria al voto e al bivio

Elezioni politiche - 9 e 23 aprile 2006. Due visioni differenti del futuro e della democrazia dividono il paese in parti quasi uguali.

di T.M. - mercoledì 12 aprile 2006 - 3299 letture

«Abbiamo tanta paura della destra...Qui non si tratta semplicemente di una o di un’altra ideologia ma di distruzione, di una demenziale astiosa cagnara nazionalista e dello spazzare via anche il più pallido pensiero democratico. È incredibile quanto sia di animo servile gran parte della gente. Come se tremassero al pensiero della responsabilità, della libertà di giudizio sulle cose, come se tutti desiderassero Hitler... Fa venire i brividi, fa paura il tono dei discorsi.»

Queste parole giungevano dall’Ungheria, qualche giorno prima delle sue elezioni politiche. A scrivere non era un osservatore politico ma una persona “qualsiasi”. Nei suoi sessant’anni di vita ai cambiamenti e ai non-cambiamenti avrebbe potuto fare il callo. Ma ché... Senza nostalgie per nessun capitolo della storia, senza animosità nei confronti né di vincitori né di vinti, con qualche utopico convincimento e con molte delusioni, domenica 9 aprile anche lei è andata a votare.

Del primo voto politico dell’Ungheria nella nuova “era” europea i concittadini europei italiani hanno sentito parlare ben poco. Nulla di sorprendente, in fondo. È curioso - e, di nuovo, non sorprendente - osservare quali erano i periodi d’oro dei rapporti tra l’Italia e l’Ungheria. Il Rinascimento e il Ventennio. Per il resto dei secoli: ordinaria amministrazione di floridi commerci per alcuni, baionette e fango di trincee opposte per altri. La cultura ungherese - con quella sua lingua inventata dagli dei in un convegno olimpico per creare un idioma capace di tradurre tutti gli altri e restare impenetrabile alle “versioni” altrui - ha importato e metabolizzato il meglio (e il peggio) della cultura universale ed è rimasta pressoché ignorata. Proprio le elezioni politiche 2006 avrebbero dovuto destare attenzione? In queste settimane l’Ungheria, lungo i suoi fiumi Duna e Tisza, vede una delle peggiori piene - in certe zone: alluvioni - di tutti i secoli. A Budapest mancavano pochi centimetri alla tracimazione. Niente morti, niente notizia. E niente paura: nelle zone ancora isolate dalle acque, ci sono i gommoni con urne mobili per votare.

Hanno votato, al primo turno, il 67,53% dei circa 8 milioni di elettori. Con un sistema di calcolo dei voti che è una sfida alla umana comprensione. La legge elettorale risale al 1989 - l’anno del cambiamento “epocale” - e si cercava di garantire la più ampia garanzia formale alla rappresentanza democratica. All’unica camera siedono 386 deputati. 176 entrano dai collegi uninominali, chi al primo turno se ha raggiunto più del 50% dei voti, chi nel ballottaggio tra i primi tre “piazzati”. Con le liste territoriali (regionali e della capitale) sono distribuiti altri 152 mandati, con sbarramento al 5 % dei voti. I “resti” finiscono in una lista nazionale che assegna teoricamente 58, praticamente molto più seggi. È a questo punto che la faccenda dei calcoli s’ingarbuglia a tal punto che abbandoniamo l’impresa di capire fino in fondo.

Le prime elezioni del 1990 avevano portato al governo un centro(destra) espressione di quella che era l’opposizione nostalgico-reazionaria. Era fisiologico, si poteva dire. Era “fisiologico” riportare nello stemma del paese la corona del regno? Mah...

In quel paese, dopo la guerra, il “socialismo reale” era “piombato” non dopo un secolo di capitalismo moderno ma a sostituzione di una anacronistica forma di semi-feudalesimo. Eppure, i primi anni della nuova democrazia ungherese erano sprecati per riportare gli orologi indietro di decenni. Pareva che insieme alla Costituzione della Repubblica Popolare avessero abolito anche il codice della strada, tanto la gente era allergica a qualsiasi regola imposta. Diventavano “normali” le manifestazioni in piazza (e negli stadi) dove si gridava “al forno, al forno”, riferendosi agli ebrei. A completare il lavoro di restaurazione mancava soltanto la statua - prospettata - di Miklòs Horty, amico-nemico di Mussolini. Le fabbriche, qualche anno prima definite ancora dalla Costituzione “patrimonio collettivo”, passavano in mano ad imprenditori svegli (tedeschi, italiani...); molta improvvisazione e molte furberie, mano d’opera a costo di cicca, operai zitti, la parola sindacato una bestemmia. A voce bassa, una signora scriveva ad un giornale: «Sì, ora abbiamo la libertà. La libertà di morire di fame.» Scriveva al giornale perché non riusciva, con il suo stipendio di impiegata, a pagare la bolletta della luce e del riscaldamento, servizi - come altri - privatizzati, venduti al miglior offerente straniero. Aumentavano anche i sussidi di disoccupazione, le pensioni, oltre le reali possibilità di una economica non più pianificata e non ancora “governata”. Perché si avvicinavano le elezioni.

Sorpresa? Dalle elezioni del 1994 i voti ai partiti liberal-democratico e socialista sono in aumento; la destra a pari passo si è “incattivita” senza cambiare però parole d’ordine. “Radici cristiane”, “orgoglio nazionale”, “una sola bandiera”, “comunisti ladri”... Ma al governo le persone chiedono “soltanto” le stesse garanzie sociali che avevano durante il “regime”.

E ora che ad andare in chiesa non si è guardati con sospetto, le chiese si svuotano. Ora che canzoni e poesie, sceneggiature e romanzi non si devono scrivere “tra le righe”, dilaga la cultura commerciabile. Insomma, ora l’Ungheria è un paese... normale. Era abituato e talvolta si piaceva nello storico ruolo di cerniera. Perché reggeva il peso dell’alleanza con “l’Est” e reggeva il confronto - culturale, scientifico - con l’occidente. Male ha retto l’invasione di quell’allegro esercito di occidentali (di sinistra e di destra) volenterosi esportatori delle materiali manifestazioni della “democrazia”: blue jeans, profumi firmati e compagnia cantante. È sempre meglio delle bombe, è vero. 1990: ricordo una signora che diceva ad un “compagno” del Pci: «Io qualche anno fa stavo insegnando ai pionieri della mia scuola che i valori fondamentali erano giustizia, solidarietà, interesse collettivo... Tu venivi in vacanza con la valigia piena di belle cose per “insegnarci” che i valori stavano in quello che ci si indossava.» Da quelle parti l’arma opportuna non era all’uranio impoverito. Bastava la “bomba” del consumo.

No, non c’è un “morale della favola”. L’Ungheria è un paese “normale”, da guardare socchiudendo gli occhi per penetrare gli abbaglianti contrasti di ombre e luci delle sue immense pianure. L’Ungheria era, meno di vent’anni fa, una Repubblica Popolare il cui inno nazionale iniziava con le parole «Dio, benedici gli ungheresi con buon umore e abbondanza...» Lo cantavano allora i comunisti mangiabambini e anche oggi gli ungheresi continuano a chiedere, a Dio e al governo, “buon umore” e abbondanza. Il governo uscente guidato dal socialista Gyurcsàny (ricordo come spiazzò il povero Bruno Vespa quando l’aveva ospite: giovane simpatico dalla faccia pulita, pure intelligente ma, accidenti, di sinistra...) ha portato a casa dall’Europa cospicui finanziamenti per continuare la ricostruzione dell’economia - e della dignità - di un paese.

Ora si vedrà che fine faranno, quei soldi. Per qualche punto percentuale e per alcuni deputati si avrà una maggioranza parlamentare e un governo di coalizione; al secondo turno si deciderà la sorte di 110 seggi. È possibile la riconferma della coalizione uscente, ma forse ha pagato la «cagnara astiosa» della destra. Due visioni differenti del futuro e della democrazia dividono il paese in parti quasi uguali. L’Ungheria, ora, è «cerniera» di se stessa.


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