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Il potere della cultura e le città reali

Testo redatto in occasione del convegno dal titolo "Il potere della cultura e le città reali.Politiche culturali ed Enti Locali". promosso dalla Federazione di Catania del Partito della Rifondazione Comunista

di Pina La Villa - venerdì 29 settembre 2006 - 5954 letture

Il potere della cultura e le città reali. Politiche culturali ed Enti locali, a cura di Salvo Basso

Da un opuscolo pubblicato in occasione del convegno dal titolo "Il potere della cultura e le città reali.Politiche culturali ed Enti Locali". Convegno promosso dalla Federazione di Catania del Partito della Rifondazione Comunista. Sabato 9 Ottobre 1999 - Sala Bonaventura - Via Sangiuliano, 313 - Catania.

“Un convegno che nasce da un partito, ma NON un convegno di partito. Ma aperto, anzi apertissimo al contributo di tutti gli uomini e le donne di buona volontà, interessati al rapporto cultura-società, a capire quanto e come spendono i Comuni ’siciliani’ e le Province per la cultura. Non un’interrogazione storica e filosofica su come i comunisti hanno reagito alla sfida della cultura di massa (sottotitolo del libro di Stephen Gundle che ha dato origine al titolo di questo incontro: “I comunisti italiani tra Hollywood e Mosca. La sfida della cultura di massa. 1943-1991”, Giunti 1995), ma molto più modestamente, anche, sapere cosa e come fanno i comunisti – nell’ambito delle politiche culturali – dentro (o fuori) gli Enti locali.

Cosa pensano e cosa organizzano. Ma non solo. Per tornare a Gundle: “Con gli anni Sessanta la cosiddetta egemonia intellettuale comunista.... era sbiadita. L’analisi sociale che il partito elaborava poteva nutrirsi di forza politica: ma scadeva di incidenza culturale. I dirigenti comunisti non capirono che il grande sforzo pedagogico messo in atto nel dopoguerra poteva non coincidere con la conquista del potere: alla strategia delle alleanze si sostituì il tatticismo degli apparentamenti” (questo lo scrive Enzo Siciliano, nella presentazione). Ma leggiamo direttamente Gundle: “I comunisti italiani considerarono sempre la politica culturale un elemento di primaria importanza. La sfera culturale non è stata mai tratta (ta) come un terreno secondario, utile solo a conservare le affiliazioni già esistenti e a costruire utili alleanze, anche se considerazioni tattiche di questo genere non sono mancate. La cultura era invece un campo in cui il partito poteva affermare un’influenza ben maggiore di quella che, per la barriera che ne impediva la partecipazione al governo, era in grado di esercitare nell’arena politica. Assicurandosi il sostegno di artisti, scrittori ed intellettuali di ogni genere i dirigenti comunisti pensavano di poter affermare quelli che sarebbero stati i valori e le idee dominanti nel paese. In tal modo il partito avrebbe potuto pilotare gli eventi e le scelte politiche da una posizione di forza nella società civile. Insita nel solco della teoria politica e sociologica italiana, quest’idea di un ruolo attivo della cultura nella lotta per il socialismo non venne fatta propria da nessun altro partito in Europa. D’altra parte anche se l’attenzione accordata dal Pci alla lotta ideologica e culturale ha costituito un elemento di particolare fascino per gli osservatori stranieri, non va dimenticato il carattere ambiguo dell’attività della sinistra in questo campo. Perry anderson, Martjn Jay e altri hanno mostrato come la battaglia culturale abbia fatto la sua comparsa in Occidente come reazione alle sconfitte e agli arretramenti degli anni Venti e Trenta. Non si trattava di un terreno su cui fosse possibile in qualche modo avanzare , ma di una sfera in cui gli intellettuali andarono a ritirarsi quando ogni processo sul piano politico cominciò a sembrare impossibile. Era dunque espressione non di una forma più completa e radicale di attività politica, ma piuttosto delle estreme difficoltà che i rivoluzionari si trovavano ad affrontare e, in una certa misura, della loro impotenza. Pur avendo Gramsci legato la lotta sul piano culturale ad un progetto politico, teorizzandone il ruolo nel preparare e migliorare le condizioni per l’avanzata politica e la conquista dello Stato, sarebbe ingenuo immaginare che il Pci sia stato esente da problemi di questo genere”.

E ancora:

“il rapporto del Pci con il mutamento culturale costituisce un problema di notevole interesse non solo per gli studiosi della storia d’Italia dopo il 1945, ma anche per chiunque abbia a cuore il ruolo della sinistra nell’Europa del ventesimo secolo”.

E ora? Partire da Gundle era/è necessario per fare/avere un po’ di storia (politica e culturale) alle spalle, per capire meglio che ora ha ragione, (da destra) Eugenia Cavallaro (in IDEAZIONE 6/96) quando scrive che “teorizzare la necessità di una egemonia, anche se incruenta come quella culturale, sembra oggi un’idea vagamente minacciosa...”.

Ma se per anni è stato assolutamente ’normale’ per il Pci tentare di raggiungere un’egemonia culturale, oggi ci chiediamo innanzitutto se esiste e poi a chi possa appartenere una presunta “egemonia culturale”, ammesso che questo sia un concetto ancora utilizzabile. Oggi, cioé, “è veramente possibile essere egemonici... amministratori del pensiero unico?”. Oggi non è più tempo di intellettuali organici (ad una classe, ad un partito...) dei quali non va comunque dimenticata la “tensione pedagogica continua e capillare” e “la capacità di creare nuovo pubblico” oltre ad “una larga base di operatori culturali”.

Ma oggi “la società cambia. E, mai come in questi tempi, cambia a velocità vertiginosa...La leggibilità delle stratificazioni sociali in termini di classi è da tempo frantumata in mille altre possibili, orizzontali e verticali. Gruppi sociali, tendenze culturali, aggregazioni generazionali, abitudini di consumo e livelli di vita diversi si moltiplicano e hanno una sopravvivenza effimera e fluttuante. L’omologazione azzera le differenze reali, ma offre infinite possibilità di differenziazioni:ogni individuo o gruppo può ritagliarsi come meglio chiede uno spazio, che coesiste senza conflitti con altri di segno opposto. Gli stili di vita sono innumerevoli e non hanno confini netti: in concreto, è più facile che il figlio del mio vicino di casa condivida abitudini e gusti con un suo coetaneo di Los Angeles che con me. Le fonti di informazione si sono moltiplicate in maniera abnorme, la comunicazione ha superato ogni barriera; il problema non è più l’accesso ma la selezione dei messaggi e la diversa capacità di decodificazione degli utenti”. Oggi “la cultura è diventata più scivolosa, proteiforme: casi di lunga dittatura personale come quelli di Moravia o di Guttuso sono, oggi, difficilmente immaginabili. Impossibile oggi affidare agli intellettuali il ruolo di avanguardia essendosi ormai esaurito il compito di nucleo avanzato della società di massa: la massa è dilagata fino a frantumarsi in mille rivoli e ad autoprodurre avanguardie di nicchia, più flessibili e riconoscibili. Non ci può essere un unico progetto riconoscibile per tutti...”.

Ma fin qui siamo ancora nel campo di storia e teoria.

Per quello che qui ci interessa discutere bisogna, ancora, più modestamente, interrogarsi per esempio sul ruolo degli assessori alla cultura, dopo l’invito nei mesi scorsi, da parte di Sergio Romano (su LIBERAL 11-06-98); “vi sono buone ragioni per togliere le istituzioni culturali dalle mani dei politici”) e di Geminello Alvi (su L’ESPRESSO 23-07-98; “soltanto degli incolti possono mai pensare che la cultura o i giovani siano assessorializzabili”) ad una loro abolizione-scomparsa. Il problema, senza dover necessariamente [ricordare? Condividere?] le accuse di Marc Fumaroli a “Lo Stato culturale” (Adelphi), quelle di Pierre Sansot contro le “smanie culturali” (nel suo “sul buon uso della lentezza”, Pratiche ), o l’Emanuele Trevi dell’”Elogio occasionale del giovane che non legge” (NUOVI ARGOMENTI 3/98), è stato ripreso recentemente (LO STRANIERO n. 6) da un doppio attacco di Goffredo Fofi e Piergiorgio Giacché. Bersagli privilegiati i poveri assessori alla cultura, all’interno di un ragionamento più saggistico e ragionato (in particolare il pezzo di Giacché). Fofi, allora, se la prende, citando espressione di Jean Dubuffet, contro l’”asfissiante cultura” che “ha invaso tutto e si sta prendendo tutto”; contro gli assessori alla cultura che “pensano al nostro tempo libero, alle conferenze, alle sagre, alle cerimonie, alle mostre, ai convegni, alle presentazioni, alle feste...”; contro “gli addetti alla cultura, ufficiali e non ufficiali (che) non sono mai stati tanti come oggi, e nello stesso tempo, poiché la massificazione non comporta automaticamente qualità, non sono mai stati così mediocri, e si potrebbe dire anche ignoranti”; contro, ancora, “una cultura scadente e rimediaticcia, una cultura “per tutti” estremamente abbassata nella sua qualità”, che “è diventata né più né meno che l’oppio dei popoli”, mentre “i suoi addetti sono dei mercanti di oppio (anche se essi stessi ne sono consumatori)”. “Bisogna aver chiaro – conclude Fofi – che la cultura è oggi uno strumento centrale (del potere[)] e che è onnivora e asfissiante perché deve coprire vuoti e crepe del potere. E bisogna sostenere o inventare un altro modo, contro questo che rimbambisce, di “fare cultura”: tra o da pochi e per pochi, ma che non dimentichi i più, per cercarvi fratelli”. Anche se poi – come spesso (sempre?) gli accade – Fofi come (contro) proposta alternativa suggerisce un’imprecisata arte “aristocratica e radicale”. Interessante comunque anche il pezzo di Giacché intitolato significativamente “l’età dello stagno”, atto d’accusa contro chi ancora cerca “la quadratura del cerchio fra politica e cultura, anche dopo la tragedia degli Stati Etici e la farsa degli Intellettuali Organici”. Si domanda Giacché: “ma se adesso, mentre si continua a discutere...la quadratura fosse già avvenuta? Se il dibattito sul difficile rapporto fra intellettuali e potere rischiasse di essere un’insufficiente copertura e una sovrabbondante finzione di comodo?”. In realtà la “nuova e pacificata alleanza” tra Cultura e Politica “ha raddoppiato la stagnazione dello stagno fino a un punto di insopportabile e indeformabile conformità”. Tra Cultura e Politica “delle due l’una “bisogna liberare la Cultura dalla Politica “e viceversa”. Le domande di Giacché sono comunque, anche le nostre, e quelle dunque di questo convegno: “nelle Amministrazioni esistono davvero le “politiche culturali”? E nei partiti ha ancora senso parlare di ’Culture politiche’?” le domande sono anche queste stiamo cominciando, forse, a entrare nel tema e nel vivo di chi la politica la fa tutti i giorni sospeso, tra l’altezza della morale e la bassezza dello “sporcarsi le mani”, tra “il cielo della teoria” ed il “territorio della prassi”, tra il pensiero dell’”immaginazione al potere” ed il “fare i conti con la realtà” (che sono anche, aggiungiamo noi, delibere, funzionari...). Le domande di Giacché alla fine diventano solo politiche: “ Non è forse vero che la politica si è tradotta tutta in amministrazione?”, ma a questa domanda ci arriva da una constatazione che ancora riguarda da vicino l’oggetto (misterioso) del convegno: “più che di una combinazione, fra azione politica e proposta culturale si è realizzato dunque un connubio: sono diventate in effetti una cosa sola, ma anche una cosa da nulla”.

Gli attacchi più forti (efficaci?) sono comunque ancora per i poveri assessori alla cultura (peraltro, aggiungiamo noi, non tutti ’di rifondazione’). “Se si considera la rete delle attività celebrative e festivaliere, convegnistiche e ricreative, psico-pedagogiche e socio-terapeutiche messe in campo, si dovrà calcolare non solo che l’utenza è in grado di competere con qualunque audience televisiva, ma anche che il personale coinvolto a vario titolo ha dimensioni da classe sociale e forse è quella più numerosa. Persino trascurando gli effetti (che sono almeno pari ai difetti), si dovrà ammettere che non c’è azione politica (e amministrativa) più vistosa di questo “lavoro culturale”... E’ stata coniata così la cultura dell’assessore, gemella della politica dell’operatore culturale: in entrambe si ritrovano i sogni realistici e i segni utopistici mescolati insieme, in un impasto di fertile passività ed attivismo sterile che investe tutto il territorio dei bisogni e tutto il calendario dei desideri. Ambedue ’lavorano’ per stendere, sotto un cielo multicolore proprio come la bandiera della pace ma anche come le strisce delle prove tivvù, la laguna delle mille iniziative politico-culturali che luccicano tutte e però risuonano davvero tutte come la latta. Ma non fraintendiamo: non scandalizza il fatto che tante confuse iniziative nell’insieme suonino false. Quello che preoccupa è la loro quantità e la loro metallica rigidità, nel senso dell’opaca e immediata istituzionalizzazione. Ormai, nulla è meno effimero delle attività politico-culturali: in un paio di decenni se ne sono accumulate tante da risultare prima un mascheramento e poi una sepoltura (e non c’è termine più esatto, se ’poltura’ rendesse l’idea di una poltiglia di politica e cultura).

Contro la ’poltura’ nessuna speranza?

“Occorre saper accettare l’evidenza dell’impossibilità di ’andare contro’: non c’è alcuna corrente nello stagno dell’impegno politico e del lavoro culturale. Anche ’stare fuori’ è diventato problematico: non si danno sponde che non siano melmose e che prima o poi non si confondano felicemente con l’avanzata marcescibile della palude. Non c’è dunque via di scampo e forse non c’è nemmeno alternativa al battere la moneta falsa ma volenterosa di un culturame da terapista o di un politicume buonista”.

Contro la “poltura” proprio nessuna speranza?

Forse la consapevolezza-ammissione (che per noi apre uno spiraglio, e ci ritorneremo) che “tutto il lavoro politico-social-culturale finalmente consiste nel fondare e tessere relazioni, scambi, incontri ravvicinati....altrimenti che senso avrebbe mai?”. Ma prima di approfondire lo spiraglio (il senso del lavoro politico e culturale è fondare e tessere relazioni, scambi, incontri) vale forse la pena approfondire lo sconforto e il pessimismo. Leggendo, per esempio, ermanno bencivenga (l’articolo,dell’agosto 1997, pubblicato su TUTTOLIBRI e ripreso da CITTADICITTA’ n. 0/2 è purtroppo quanto mai attuale...): “Quest’anno, in vacanza a Bolgheri, ho assistito a una gustosa rappresentazione in piazza della ’Serva padrona’ di Pergolesi, insieme ad altri quattro gatti. Gli organizzatori si lamentavano. ’A luglio in Toscana’, dicevano, ’ ci sono state 250 sagre: da quella del popone a quella dello sputo. E in una sagra si fanno sempre le stesse cose: si mangiano salsicce e si suona musica becera. Come si può pretendere che gente abituata a queste attività primordiali sappia apprezzare un’operina del Settecento?” Oppure il Paolo Fai (allora assessore alla cultura di Solarino-SR), in “La tirannide della maggioranza” (EUPOLIS n. 19): “Ma sarà mai possibile ’detelevisionizzare’ le comunità, e disintossicarle dal veleno del ’ludismo’ e festaiolismo diffuso, abilmente sostenuti da certo amministratori inclini a mantenere nel sonno piuttosto che stimolare la funzione critica di quelli che dovrebbero essere i veri protagonisti della vita politica, cioè i cittadini? Ci sarà mai un tempo in cui l’assessore alla cultura da ’cagnolino da compagnia npiù o meno lezioso’ si trasformi in ’bestione da guardia più o meno ringhioso che impedisce saggiamente con la sua follia, che l’amministrazione utilitaristica straripi dal suo colmo, tracimando al di là di una dignitosa prestazione e disvelando/liberando magagne di libidinoso affanno di potere’ (Toesca). Se, e quando, ciò avverrà allora parleremo davvero di rivoluzione antropologica....Fino ad allora, sconsolatamente, “tra Intellettuale (Assessore alla cultura -Intellettuale) e Potere non c’è mai stata né mai ci sarà coincidenza, anzi c’è sempre stata e sempre ci sarà scissione. L’Intellettuale, quello vero, è sacerdote di se stesso, quindi dell’istinto di conservazione, che è irrazionale”. Sempre sul piano della sconsolazione, le parole di Francesca Sanvitale (su NUOVI ARGOMENTI n. 3/98): “Il divario tra cultura e politica, tra cultura e potere è di così vasta portata da non lasciare alcuna speranza che la cultura possa incidere in qualsiasi modo e in qualsiasi settore, nel palazzo della poltica. E la demonizzazione o il disprezzo di tanta parte dell’opinione pubblica, e dei mass-media che la costruisce, aiuta ad allargare il divario, a confondere il superfluo con il necessario, l’utile con il demagogico, ad allontanare qualsiasi fonte di dialogo attraverso il quale riconquistare una dignità culturale che si vuol credere perduta. Anche la funzione e il rispetto della cultura fanno parte delle possibili utopie”. Ma è proprio (anche) questo il punto: “la centralità della cultura significa la necessità di rivedere radicalmente l’impostazione programmatica dell’azione politica: e questo rinnovatamente, ogni volta che esperienze nuove si presentano e pongono problemi di aggiustamento della mira” (Pietro M. Toesca, “Manuale panegirico dell’assessore alla cultura”, Edizioni Riunite Nadir e Valdemone). Ma il discorso di Toesca, difficile/impossibile da riassumere in poche righe, è tutto sospeso tra una considerazione dell’assessore alla cultura come buffone del principe (teoricamente il popolo sovrano) o come sindaco a tutti gli effetti, cioè responsabile dei progetti di recupero dell’identità storica e dinamica della (piccola) città. Certo è che un problema – (il problema) rimane aperto, soprattutto di questi tempi di continua interrogazione su “quali nuove passioni e idee” possano ridare “vigore a una sinistra che ha visto crollare molti dei suoi principi e molte delle sue convinzioni” (Gundle). E’ dunque “necessario chiedersi” (ancora) se nelle varie sinister che si rompono (e NON si ricompongonpo) “vi possa essere ancora spazio per una politica culturale” (ancora Gundle). E se “l’idea della direzione culturale non è più condivisibile, il bisogno di politiche culturali resta di importanza prioritaria. In una società in cui sempre più spazio è dedicato al tempo libero e in cui esso è sempre più consumato piuttosto che creato, è necessario fare qualcosa per garantire scelte, pluralismo e opportunità. In particolare nelle società dominate dai mass media vi è il rischio che l’idea stessa della partecipazione attiva dei cittadini alla vita politica venga svilita. Oggi i ceti più poveri passano più tempo alla televisione di chiunque altro e c’è il rischio concreto di escludere i meno istruiti, i meno abbienti, i malati e gli anziani da forme di crescita e arricchimento personale e di partecipazione. Se si hanno a cuore diritti e doveri, non bisogna trascurare i diritti culturali. Nel corso degli anni ottanta si è andata affermando una concezione delle politiche pubbliche che riconosce il valore dei gusti popolari e della cultura contemporanea, ma che cerca di ampliarne le possibilità creando spazi per forme di espressione volontarie e non commerciali, facilitando l’accesso e offrendo, ove siano richieste, le opportunità per la crescita culturale ed educativa. Lo scopo deve essere quello di contenere i costi così da non discriminare nessuno e dare a tutti la possibilità di contribuire alla creazione di una cultura che è qualcosa di più del mero consumo di prodotti esteri. Dimenticate o trascurate da gran parte della sinistra europea, le politiche per il tempo libero e la cultura rappresentano tuttora uno dei campi in cui essa può dare un contributo al miglioramento qualitativo delle società industriali avanzate” (ancora ed esclusivamente Gundle). Allora, se come riassume Eligio resta le “trenta tesi per la sinistra” di Alain Caillé “il compito della sinistra europea è quello di una democrazia dei perdenti”, questo compito, aggiungiamo noi, può/deve valere anche per le politiche culturali della sinistra (dal Ministero della Cultura al più piccolo assessore alla cultura del più piccolo paese). Forse l’assessore (vero) alla cultura dovrebbe, in una amministrazione – giunta, essere realmente svincolato da problemi di ricerca del consenso per concengrarsi sulla ricerca del senso (del suo lavoro culturale e politico, del suo e della sua giunta). Ma forse, qui, davvero, si sogna troppo. Se “la politica” è “al tramonto”, come ci ricorda-spiega Mario Tronti (Einaudi), figuriamoci la politica culturale. Se “adesso si tratta di pensare non la politica ma la crisi della politica”, concentriamoci sulla crisi della politica culturale. E se tanto abbiamo prima detto (- citato), è perché ancora Tronti si ammonisce che il problema adesso non è il ’che fare’ ma il ’che dire’. Ma dicendo e facendo “lampi di luce bisogna provare a gettare sulla notte della politica attuale”. Non ci sono naturalmente ricette preconfezionate che valgano bene, sempre, per tutti e tutte. Anzi. La prima regola, forse, sarà quella di concentrarsi sulla propria città, approntando un progetto mentale che muova dal “ritratto”, dalla diagnosi, dall’esistente per andare poi verso una nuova mappa (l’ipotesi di configurazione della città desiderata); semplicemente l’una e l’altra testimoniano di un modo di fare cultura nella città, della città e per la città. Perché cultura, come ricorda Franco Loi, viene da coltivare, e gli oggetti di questa azione sono l’uomo e la sua identità: la città siamo noi tutti, i cittadini che la abitano, la vivono e la producono; la città è lo specchio di quel che siamo e il luogo, la piazza, in cui poter discutere, liberamente, il futuro che desideriamo essere” (Gianni Cascone, in “La città. Rappresentazioni e scritture”, Giunti). Concentrarsi aulla propria città ed organizzare situazioni che favoriscano la libera discussione, uno e due. Magari con la controindicazione del “reato di conferenza” sul quale ci fa riflettere Claudio Magris di “Utopia e disincanto” (Garzanti). Per il resto non ci sono davvero ricette, se non forse un altro consiglio-raccomandazione-possibilità: bisogna sforzarsi di “costruire un sistema di reti fra comuni confinanti” (Carlo sorrentino, in “I pensieri della città”, Assessorato alla Cultura del Comune di Scordia). Le città, ha scritto Raoul Vaneigem, o “implodono o esplodono”; dipende dalla loro capacità di apertura (in “Noi che desideriamo senza fine”, Bollati Boringhieri). Per fare-realizzare questo ’respiro’ almeno intercomunale, bisogna avere in testa un concetto di “comunità” (o identità, o ’memoria’) come qualcosa di non-ontologico, non-metafisico. La comunità cittadina alla quale pensiamo è quella temporanea, ovvero un gruppo di individui che percorre insieme un tratto di strada e che condivide un progetto”; una comunitàù “non fissata una volta per tutte”, ma che si scioglie felicemente “per ricostruisri con nuovi soggetti e rispetto ad altri progetti”; insomma una “comunità come insieme di individui che si adoperano a vicenda come risorse. In questo modo si evita il rischio della comunità chiusa-ghetto” (Enzo Scandurra, “La città che non c’è”, Dedalo). Per adoperarsi a vicenda come risorse c’è bisogno di una risorsa-cultura che “è una risorsa innanzitutto nella misura in cui è in grado d’attivare gli individui. Quindi è soprattutto risorsa relazionale e mobilitante”. E a proposito degli equivoci ’economicistici’ del termine risorsa: “soltanto se la risorsa culturale riesce a determinare processi d’attivazione da parte dei cittadini si avrà quella giusta reinterpretazione del patrimonio culturale utile a provocare una ri-produzione culturale che può arrivare a sviluppare confortevoli risultati economici. In altri termini la risorsa cultura riesce a diventare economica, e tradotta in sfruttamento turistico rivolto naturalmente verso l’esterno, l’azione culturale delle città deve essere pensata come ’mobilitazione degli indigeni’.” Questa mobilitazione che significa, anche, “far arrivare ai cittadini conoscenze” non in senso “pedagogico o nozionistico” ma conoscenze che servano a predisporre “situazioni diverse nella vita cittadina, che vengano colte dalla comunità dei cittadini” (Sorrentino). Infine: si possono fare, ancora, tante cose, perché la battaglia tra politica e cultura è aperta ed infinita. E questa battaglia dolce e dura appassionatamente noi comunisti siciliani la vogliamo combattere, ora, qui. Parlando, agendo, senza stancarci di farlo, tentando di comunicare sempre meglio. “Oggi le possibilità di comunicazione, reali e virtuali, sono sconfinate e con potenzialità da fantascienza. Ma vedo e so che esse non significano di per sé un miglioramento virtuoso nei rapporti umani, in tutte le loro specificità sociali piccole e grandi e in tutte le istituzioni in cui si accorpano le conservazioni burocratiche, convenzionali, dell’esistente. Contro le violenze, che hanno una tremenda varietà e cecità, io non vedo altra via d’usci-ta che quella di una rivoluzione culturale ininterrotta, lunga, ostinata e penetrante. E so bene che, ancora più di qualsiasi altra rivoluzione, essa è praticabile e praticata solo entro aperte, apertissime isole di resistenza entro le quali il convivere per fare e il fare per il convivere avvengano non dico per amore, che pure può esserci e c’è, ma quanto meno per piacere che è impossibile trovare senza gentilezza, rispetto, tolleranza” (Luciano Della Mea, INOLTRE n. 2). Dalla Sicilia continua la nostra rivoluzione culturale. Ininterrotta e instancabile. Dalla Sicilia forse parte anche per ’oltre’ la (nostra) rivoluzione culturale. Perché, perché se non ci fossimo non cambierebbe niente. Ecco perché ci siamo.


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Il potere della cultura e le città reali
28 gennaio 2008, di : sitar

Ho letto soltanto oggi questo articolo così forte ed avvincente. La forza della cultura... l’unica vera speranza per ognuno di noi per risollevarci dallo stato di apatia cronica in cui stiamo precipitando senza accorgercene.