Binomi di parole (8): Trapianto e traduzione
La traduzione è femmina...: e infatti procrea, moltiplica, anziché autoreplicarsi. Non è e non può essere autoreferenziale...
Oggi ragioniamo sul GENERE. Che, vorrei ricordare, non l’hanno scoperto le femministe americane o i movimenti LGBTQ+ ma – almeno nel nostro Bel Paese – l’hanno inventato i Grammatici all’alba della lingua italiana.
Trapianto: sostantivo maschile. Traduzione: sostantivo femminile. E infatti chi fa un trapianto di cornea guadagna molto di più di chi traduce romanzi. Ma non è così dappertutto: in inglese abbiamo Transplantation: sostantivo neutro, e Translation: sostantivo neutro. Fanno anche rima. E non hanno alcun rapporto col maschile e il femminile.
Il TRA(NS) è ciò che li accomuna.
Nel primo caso, il termine nasce in agraria ed è riferito alle piante, per poi migrare in ambito medico, giungendo a definire la sostituzione di un organo. Nel secondo caso, ci si riferisce alla trasposizione di un testo da una lingua all’altra.
Ovvio che vince il primo. È maschio, è utile alla salute, può salvare vite umane.
Ma anche la traduzione, più femminile e sommessa, può salvare vite: pensiamo al film Arrival (Denis Villeneuve 2016), dove senza una professoressa di lingue l’esercito americano non riuscirebbe a comunicare con gli alieni, o alla decisiva decrittazione dei messaggi inviati dalla macchina Enigma durante la II guerra mondiale.
Il trapianto, nella sua prima accezione, ha pure un risvolto colonialista. Nel tardo Settecento, Crèvecoeur, emigrato negli USA, nelle sue Lettere di un agricoltore americano elaborò la teoria della transplantation, appunto, con la quale indicava il “trapianto” degli europei nell’Alma Mater d’oltre oceano, un evento che avrebbe creato una nuova razza di esseri umani, più forte ed energica, superiore insomma. Anche i neocolonialisti che stanno cercando, oggi, di raggiungere Marte si rifanno a questa teoria. Gli umani saranno “trapiantati” su Marte come le patate nel film The Martian – sopravvissuto (Ridley Scott 2015) e inizierà così la nuova era, auspicata da Elon Musk, del genere umano come specie interplanetaria.
La traduzione non può competere. Anzi, c’è sempre chi sta lì col fucile puntato a contestare scelte lessicali e sintattiche; e comunque chi traduce non migliora l’habitat di una pianta né di un pianeta, né dà nuova vita a un cuore o un rene o un arto, ma è tutto il contrario: nell’atto del tradurre si perde sempre qualcosa (vedasi Lost in Translation, Sofia Coppola 2003).
O forse no? Non è che invece, nella traduzione, possiamo pensare di guadagnare qualcosa? In fondo, mentre nel trapianto alla fine abbiamo sempre la stessa pianta o lo stesso organo che semplicemente cambia di posto, qui no: qui creiamo un nuovo testo, nuove parole, nuove opportunità per chi, prima, non poteva accedere a quello originario.
La traduzione è femmina, si diceva: e infatti procrea, moltiplica, anziché autoreplicarsi. Non è e non può essere autoreferenziale. Di un testo possiamo avere decine, centinaia di traduzioni, in tutte le lingue, fatte in epoche diverse, e questo fa girare le energie, tiene viva la cultura, il dialogo, la riflessione poetica e critica, creando ponti tra una nazione e l’altra e fra un’epoca e un’altra. Se noi possiamo leggere le poesie indiane, o se gli australiani possono leggere Dante, è per merito dei traduttori e delle traduttrici.
Mi si dice che prima o poi l’intelligenza artificiale farà il loro lavoro. In parte, lo sta già facendo. È importante, importantissimo che i professionisti della traduzione non si tirino indietro proprio adesso, sconfortati o amareggiati, perché al contrario possono e devono inserirsi in modo attivo nelle scelte dei programmatori, nell’elaborazione dei dati e dei software, e restare vigili sulla lingua non solo per non perdere il lavoro, ma anche per evitare che l’eccesso di rapidità che contraddistingue questa rivoluzione porti a un impoverimento nello stile della Neolingua orwelliana.
Perché dopo, sarà troppo tardi.
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