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La parola che uccide: I Siciliani, di Pina La Villa | [1] | [2] | [3] | [4] | [5] | [6] | [7] | [8] | [9] | [10] | Addamo | Orioles | [Bibliografia]

 

Appendici: Riccardo Orioles e l'esperienza a "I Siciliani"

Riccardo Orioles scrive per "L'antimafia difficile" questo bilancio dell'esperienza de "I Siciliani"

Parlare d'esperienza ha il tono d'epitaffio, cioè è stata una cosa bella, simpatica, coraggiosa, che adesso si può mettere tra due fogli d'album e si conserva. La storia de "I Siciliani" è una storia segnata da profonde immaturità e da grandi debolezze perché eravamo pochi, periferici, e ci siamo trovati d'improvviso in un mare che non era il nostro, con problemi specifici locali, Catania non è Palermo, da certi punti di vista è peggio, da altri punti di vista la vicenda è stata come un'esplorazione che vale per tutti, io credo, e che ha acquisito un salto di qualità in quella che sono stufo di chiamare "lotta alla mafia", che in effetti è anche lotta per qualche cosa. E per che cosa? Ecco, la storia de "I Siciliani" è anche in questa domanda: qual è l'alternativa, l'obiettivo, storico, non arbitrario, non derivante dalla fantasia o dagli studi elitari di qualcuno, ma scaturente dalla struttura della società, qual è questo salto di qualità che, in qualche modo, può servire da orizzonte? Naturalmente noi non abbiamo mai teorizzato, il tempo delle teorizzazioni è passato, e abbiamo cercato di mettere insieme tanti frammenti, tanti pezzetti d'esperienza, tante ipotesi, verificate o no. La telefonata è arrivata alle dieci e mezza... La prima fotografia è quella di una sera come tutte le altre, con Antonio che ha appena finito il suo pezzo e si alza per andarsene via, con Claudio che stava dicendo qualche cosa a Gariddi, il nostro tipografo, quarant'anni di lavoro a Milano, è tornato perché vleva fare qualche cosa in Sicilia, Lillo che, come al solito, stava litigando con l'altro tipografo, Miki stava facendo ancora un pezzo, il direttore arrivato verso le otto, contento perché aveva strappato dal sindaco di un paesino un contratto pubblicitario di 150.000 mila lire, che avrebbero pagato nel giro di un mese: eravamo felici, perché, facendo i conti, quel mese avremmo avuto quasi un milione e duecentomila di pubblicità: in quel momento è entrata la fotografina, che era stata col direttore a fare queste foto pubblicitarie, io ero scocciato, non ricordo per quale ragione, c'era Antonio sulla porta, "bé, mi dai un passaggio, bé, ci vediamo domani allora". La telefonata è arrivata alle dieci e mezza e, in questi casi, credo che la fisiologia dell'uomo ha le sue salvezze. Alle undici mi trovavo a fare il mio mestiere di cronista di nera e a rilevare distanze, a ricostruire traiettorie, a parlare con i testimoni, con i poliziotti; alle undici e un quarto eravamo all'ospedale, molto calmi, c'erano delle cose da fare. Verso l'una e mezzo di notte ci siamo ritrovati, senza darci alcuna indicazione, perché la sede ci faceva paura, a casa di una nostra amica, la signora Roccuzzo, che ha preparato il tè per tutti, e abbiamo cominciato a discutere: Lillo Venezia ha detto che bisognava uscire subito, qualcun altro ha detto "in sede alla redazione domani alle nove e mezzo". L'indomani trovammo davanti alla sede un gruppo di ragazzi di un paesino in cui c'era la nostra tipografia, che erano venuti per fare la "diffusione militante" del giornale. Non sentivo da parecchi anni la parola "militante", ero venuto a Catania per fare il borghese, non il rivoluzionario, e alcuni meccanismi mentali si sono messi in moto: fare il giornale, organizzare la "diffusione militante", mandare subito qualcuno nelle scuole dove i ragazzi avevano le assemblee in corso. Un'altra fotografia potrebbe essere la nostra Cettina, che era a capo delle fotocompositrici, che piangeva e teneva in mano la strisciata delle fotocomposizioni, e così via. Uscita l'edizione straordinaria ci siamo trovati in una situazione che avevamo previsto molte volte, contro la quale nessuno di noi aveva la minima obiezione sul piano dell'analisi, è ovvio, siamo a Catania, c'è la mafia, la mafia ammazza, può capitare anche a noi, è nelle regole del gioco. Però una cosa è pensarlo, altra cosa è trovarsi improvvisamente immersi in una realtà che fa saltare ogni precedente punto di riferimento, impone per forza, a calci nel sedere, di cominciare a ragionare in modo radicalmente diverso. Alcune delle scelte fatte allora, non come scelte del momento, ma come scelte della realtà e come le uniche cose da fare in quel momento, erano scelte che, viste adesso, a cinque anni di distanza, hanno del miracoloso e sono come l'eredità che noi lasciamo al resto del movimento antimafioso. A partire da quel momento la redazione si riunì ogni giorno, per tre quarti d'ora circa, per le riunioni operative, a turno qualcuno organizzava la scaletta con i punti da trattare, si davano gli incarichi, poi si riferiva sugli incarichi del giorno prima, nel modo più naturale, senza che dovessimo obbligatoriamente schierarci per una posizione o per un partito. Da giornale a movimento di massa Nei primi giorni ci trovavamo totalmente isolati e ci siamo resi conto che non potevamo fare marcia indietro, che eravamo ormai troppo avanti e che l'avversario era estremamente potente, quindi dovevamo avere l'obiettivo immediato di moltiplicarci il più possibile, di esplodere, di non essere più giornale, ma di diventare, in tempi velocissimi, movimento di massa. Come fare? Non eravamo politicizzati come gruppo, eravamo un giornale, non volevamo cadere nell'orbita ideologica di qualcuno, per motivi difensivi, dovevamo elaborare una "ideologia" con obiettivi strategici intermedi e non ci aiutavano molto i libri, ma i ragazzini con cui parlavamo nelle assemblee nelle scuole eccetera. Nel giro di tre-quattro mesi si organizzò un modo di pensare molto caratteristico, basato sulle riunioni operative e su piccoli gruppi, non c'erano più di due o tre persone a fare la stessa cosa, con l'individuazione di una serie di obiettivi che centravano i punti di maggiore contraddizione di una società mafiosa. Nostri interlocutori erano i ragazzi delle scuole, che non avevano il problema del posto o del lavoro, ma intendevano lottare per qualche cosa di più, una realizzazione della vita, una realizzazione di noi stessi: si trattava di una situazione emozionalmente molto alta che saltava i passaggi intermedi: il lavoro serve ad avere una sicurezza, una vita serena, mentre il ragazzino di liceo percepiva che si poteva essere immediatamente felici, che si poteva cercare immediatamente la sicurezza, che si potevano cercare subito alcune cose, non dopo il diploma o dopo il posto di lavoro, che si poteva avere molto senza il bisogno di chiederlo a nessuno. Si formò così il movimento per i Centri Giovanili Autogestiti: si trattava di ragazzi che cercavano di aggregarsi intorno ad attività inventate sul momento. Grazie al lavoro della sinistra ufficiale non riuscimmo a conseguire l'obiettivo di occupare alcuni spazi, stabilimenti industriali abbandonati, perché questi locali erano già nell'ottica di, non vorrei usare la parola "intrallazzo", di un'operazione in cui doveva entrare l'Arci, un architetto di sinistra, che non andò mai in porto, ma fu sufficiente a mobilitare tutti contro il nostro tipo di progetto. Un'altra situazione contro cui ci trovammo a cozzare fu questa: sì, lottiamo contro la mafia, ma qui a Catania i mafiosi sono importanti, hanno le fabbriche, hanno i posti di lavoro in mano, e se acchiappano i mafiosi, che cavolo facciamo, le fabbriche chiudono e tutti a casa, discorso non di un professore, ma di una ragazzina, Sabina, figlia di un operaio di questi: rispondemmo elaborando una proposta alternativa, quella dell'utilizzo popolare dei beni mafiosi sequestrati, che dovevano essere posti sotto controllo di un organismo apposito e utilizzati per mantenere ed aumentare l'occupazione. Questi due obiettivi, centri popolari autogestiti ed utilizzazione alternativa dei beni mafiosi poi, due o tre anni dopo, divennero oggetto di conferenze, incontri, dibattiti della sinistra ufficiale, la FGCI, a fase conclusa, fece un bel documento sui centri giovanili e il PCI cominciò, timidamente, a parlare di utilizzazione alternativa, ma nei sei mesi in cui questi obiettivi cominciavano ad aggregare forze, il ruolo della sinistra organizzata fu di netta e intransigente opposizione. Nella nostra storia abbiamo fatto da collettore, da canale catalizzatore, ma non erano nostre né le idee né la spinta che queste idee riuscivano a raccogliere: il solo nome de "I Siciliani" riuscì a coagulare, per un anno e mezzo circa, una diversa sinistra che si basava sulla grande contraddizione reale esistente a Catania, tra il potere mafioso e la grande massa di coloro che da questo potere erano espropriati. L'Associazione dei Siciliani, sorta parallelamente intorno al giornale, con intenti molto modesti, di aiutare materialmente la diffusione, si trasformò rapidamente in un'avanguardia politica che diventò un interlocutore ricercato dai partiti: ne facevano parte svariate persone, alcuni venivano dagli autonomi, altri erano liberali, altri comunisti in servizio permanente effettivo, altri cattolici: nel giro di pochi mesi queste componenti si erano omogeneizzate su ipotesi concrete, non tanto per la forza della nostra proposta, quanto per la debolezza delle proposte di partiti ufficiali. Ripensando a quegli anni ho una grande rabbia e un grande rimpianto: la rabbia è quella che, con il senno di poi, mi ispira la condotta della sinistra ufficiale, quasi mai d'appoggio, qualche volta di sabotaggio, in ogni caso d'incomprensione totale; gli intellettuali che si raccolsero intorno all'ipotesi ebbero due tipi di comportamento, alcuni rimasero sino alla fine insieme a noi, quelli di sinistra, che non avevano mai fatto politica attiva eccetera, altri invece, alla prima possibilità, utilizzarono il peso nuovo acquisito individualmente, per precipitarsi in quella o questa soluzione di partito, molti in buona fede, ma con il risultato di bloccare lo sviluppo di un movimento a Catania, senza che nessuno peraltro riuscisse poi a spostare alcunché all'interno del palazzo in cui era entrato con il famoso obiettivo di "cambiare dall'interno". Dal Giornale del Sud a "I Siciliani" Sotto l'aspetto professionale "I Siciliani" erano già qualcosa di estremamente anomalo: il gruppo giornalistico nasce intorno al 1980, come gruppo dei cronisti del Giornale del Sud, con la precisa caratteristica dell'estrema libertà d'iniziativa: non eravamo molto ortodossi come giornalisti, eravamo molto liberi nell'espressione, dopo una serie d'inchieste sulle carceri passammo per il "giornale della malavita", ed eravamo disponibilissimi a valerci delle fonti più svariate, per ultime quelle ufficiali; peraltro invece le esigenze del direttore erano ferocissime, l'orario di lavoro, teoricamente sei-sette ore, era assolutamente libero, ma per acquisire il fondamentale diritto di andare la notte in pizzeria, bisognava non andare via dal giornale prima delle due di notte. Il giornale avversario era "La Sicilia", il giornale dei cattivi, noi eravamo i buoni e non potevamo permetterci la minima svista, bisognava spesso creare la notizia, o far diventare notizia il crollo di un cornicione, via Palermo 234, il direttore ci tirò fuori due pagine e mezzo bellissime perché la signora cui era caduto addosso il cornicione era la moglie di una guardia notturna, licenziata due giorni prima per intrallazzi nella sua ditta, a pianoterra abitava un ragazzino arrestato due giorni prima per un furto, a sua volta "sciarriato" con il cognato per una storia di giornaletti pornografici rubati, insomma siamo stati su questa storia per quindici giorni scrivendo cose molto belle. Fummo licenziati tutti quando il direttore cominciò a fare campagna contro la base di Comiso ed io contro Ferlito; a "I Siciliani" fu più dura, perché non avevamo una struttura organizzativa alle spalle, si andava col biglietto d'andata per fare un'intervista, non si parlava d'alberghi o rimborsi, e tuttavia c'era questa forma di autodisciplina che ci spingeva a cercare e scrivere una cosa che nessun altro al mondo aveva. Non ci sentivamo, a partire dal direttore, dei grandi giornalisti, e forse non ci sentivamo neanche dei giornalisti, ci sentivamo dei portavoce, gente che facesse un lavoro, diciamo per conto di qualcun altro: a questo buon mestiere ci siamo aggrappati soprattutto dopo il 5 gennaio 1984, lasciando entrare in dialettica, a nostra insaputa, due cose differenti, da un lato un livello molto alto di efficienza tecnica, le notizie erano buone e non sono mai state smentite, dall'altro la necessità pressante di uscire dal ghetto, di essere punto di riferimento. Su questo abbiamo commesso infiniti errori, perlopiù di timidezza, nella campagna per la legge La Torre o nella vicenda de "I Siciliani" giovani, nato con un'assemblea di venti ragazzi, che alla seconda assemblea erano diventati una sessantina e successivamente riuscì a coinvolgere 320 ragazzi. Eravamo molto forti su alcuni terreni, molto meno su altri, sul piano politico avevamo molta spinta, ma poca consapevolezza, e avevamo una fiducia smisurata nei cosiddetti intellettuali della sinistra catanese, nel PCI, nei sindacati, nella Lega delle cooperative: non erano l'ideale, ma altra cosa dalla Democrazia Cristiana, vuoi mettere? e tuttavia le delusioni erano frequenti. Questa situazione è durata per quattro anni, sino a quando non ci siamo trovati davanti a una scelta: o arroccarci nel mensile, che andava bene, oppure giocare la carta del settimanale popolare, dove tutti potessero scrivere: abbiamo fatto tardi questa scelta, quando eravamo ridotti in pochi, isolati dalle forze politiche ufficiali. Era un brutto giornale sotto molti aspetti, fatto con mezzi deboli e in fretta. Il nostro contributo Per quanto riguarda la lotta alla mafia abbiamo portato, la realtà ci ha portato dei contenuti specifici, come nel caso dei "cavalieri di Catania": da quando "I Siciliani" hanno cominciato a lottare, Rendo non è stato più il grande industriale progressista, la gente non ci crede più. C'era a Catania, non solo nel PCI, questa solida convinzione: Catania è una città miserabile, africana, messicana, brasiliana, con i contadini col forcone, con Brancati, le donne vestite di nero, e quindi, giustamente, ci vuole la rivoluzione industriale, la borghesia moderna, ci vuole Rendo, non per un fatto di corruzione, ma per l'incapacità di elaborare un'analisi specifica sulla Sicilia, e così la maggior parte dei giornalisti del giornale di Rendo è iscritta al PCI. I "cavalieri" rappresentano una forma di potere mafioso, secondo me "ultima": la tipologia dei "cavalieri" catanesi, il tipo di potere, il tipo di rapporto mafia-politica si è sviluppato più tardi e più lentamente che a Palermo, in una situazione più moderna, più metropolitana: Rendo è meno classico, meno radicato, ma molto più grosso di un Cassina, per esempio, opera con tipologie differenti. Un secondo contributo è stato quello del rapporto tra mafia e poteri occulti, per esempio la massoneria, non privo di connessioni con il primo. Un terzo contributo, troncato dalla chiusura del giornale, è quello del rapporto "nuovo" tra mafia e politica: il rapporto tradizionale era di corruzione, nel senso che era il mafioso a corrompere il politico, il rapporto nuovo può essere inteso in senso opposto, cioè lo stato corrompe la mafia, ossia lo stato ha i suoi interessi specifici, ad esempio l'intervento in un determinato scacchiere politico, tramite la fornitura di armi, e si serve di strumenti adatti, tra i quali può esserci qualche gruppo mafioso, collegato con l'imprenditorialità, cosicché il rapporto tra mafia e politica, le contraddizioni che ne conseguono, si spostano a livelli più alti, per cui, mentre ieri potevamo dire che il potere mafioso è Lima e che Andreotti è mafioso in quanto protettore di Lima, oggi possiamo dire che il politico mafioso è Andreotti e che Lima è mafioso in quanto dipendente da Andreotti: diciamo che la mafia non è più un fatto parassitario dentro lo stato, ma tende a inserirsi nel centro dello stato e, in taluni aspetti, a coincidere, quasi meccanicamente, con esso. Com'è andata a finire Come in tutte le storie, diciamo pure come va a finire: "I Siciliani" non escono più da un anno e mezzo: è in corso una trattativa con la Lega delle cooperative per fare un consorzio e rilanciare il giornale: alla fine il consorzio è stato fatto, ma con i "cavalieri" e non con noi e per tutte altre storie, per cui proprio in questi giorni è partita una lettera di denuncia di questa trattativa; nel frattempo a Catania il giornale padronale, "La Sicilia", ha cambiato direttore e ha cambiato il carattere delle testatine: questo è stato sufficiente a convincere i compagni perbene che "La Sicilia" era cambiata; il PCI sta facendo a Catania una buona campagna elettorale, con una bella lista, e con un programma in cui c'è la mafia a pagina uno, per dire che i commercianti sono incazzati per via delle estorsioni, e poi, da pagina 2 a pagina 143 un elenco di belle cose da fare. E' più o meno la nuova linea politica della Democrazia Cristiana, che non dice più a Catania che la mafia non esiste, che non bisogna fare indagini sui "cavalieri", non spara più, il capolista è un signore perbene che fa parte del consiglio superiore della magistratura, tutto ritorna normale e si propone un grande patto con dentro il PCI: "La Sicilia" fa le lodi dei comunisti, i quali fanno le lodi de "La Sicilia", è arrivato il pluralismo anche nella stampa, perché non c'è più il giornale di Costanzo, ma anche il settimanale di Rendo, "I Siciliani" sono spariti, Antonio sta facendo un articolo per Il Manifesto, e forse glielo pagano, Claudio è appena tornato dal Sudamerica, dove ha cercato di raccogliere qualche cosa, Miki neanche questo, io sono qui, Elena ha abbandonato il mestiere e sta facendo delle supplenze, ogni tanto ci si vede e si chiacchiera: ci siamo dati appuntamento tra un anno, le idee sono tante e belle, siamo abbastanza ottimisti, adesso sappiamo come si fa un giornale in Sicilia, cioè coinvolgendo centinaia di persone che giornalisti non sono, sappiamo che un giornale in Sicilia non ce lo farà nessuno e che potrà spuntare se un organismo collettivo, non legato al "palazzo", si porrà quest'obiettivo in tempi lunghi, lavorando intanto per realizzarlo senza sperare in vie di mezzo; sappiamo anche che dall'aspetto tecnico si possono fare molte cose e con pochi soldi attraverso i computers. Quando abbiamo iniziato "I Siciliani" ci siamo indebitati per circa 250 milioni, comportandoci da milanesi, rispetto a furbi milanesi che si sono comportati da catanesi: gli stessi materiali, con la stessa funzionalità, adesso si potrebbero trovare per 60 milioni. Infine, sul piano dell'esperienza di mestiere, per una volta voglio ricordare persone di cui nessuno parla, Miki Gambino, il miglior cronista di nera in Sicilia, il nostro fotografo, Nuccio Fazio, la fotografa Giusi Spampinato, la nostra compositrice Cettina, adesso a Milano perché non ha più trovato lavoro, Mario Sparti, nostro tipografo, il professor D'Urso, il primo in Italia a intuire il rapporto tra logge massoniche e mafia. Insomma, un'esperienza come la nostra ha coinvolto tante persone ed ha lasciato in ognuno qualcosa: io penso che saranno loro a girare la prossima puntata.


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