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La parola che uccide: I Siciliani, di Pina La Villa | [1] | [2] | [3] | [4] | [5] | [6] | [7] | [8] | [9] | [10] | Addamo | Orioles | [Bibliografia]


[2] Il dibattito sulla mafia a Catania
Gli anni Ottanta del liberismo e del riarmo e, in Italia, della normalizzazione dopo le turbolenze degli anni Sessanta e Settanta, sono anche gli anni in cui si apre in Sicilia la pagina più violenta della storia della mafia. Di fronte a una classe politica da sempre collusa e ad un'opinione pubblica assuefatta, la mafia - i cui interessi economici e il cui spazio d'azione, nel frattempo, col traffico di eroina, sono diventati molto più ampi - alza il tiro.

All'inizio degli anni Sessanta, i lavori della prima Commissione antimafia avevano portato ad alcuni grandi processi: "Cosa nostra non è più esistita nel palermitano dopo il 1963. Era ko" [3], dice il pentito Antonino Calderone, a cui si deve la ricostruzione delle vicende della mafia a Catania. I processi di Catanzaro (1968) e Bari (1969) si conclusero però con ampie assoluzioni. Con gli organici pressoché al completo la mafia poté dunque riorganizzare i suoi affari.
Il volume d'affari era però enorme e la guerra per controllarlo divenne senza quartiere. Iniziò la guerra tra i corleonesi e le vecchie famiglie, con nuove alleanze e nuovi potenti.

"In questo periodo di punta [fine anni settanta] i profitti annui del commercio siculo-americano sono dell'ordine delle centinaia di milioni (un miliardo?) di dollari. Abbiamo qui l'origine della guerra di mafia già annunciatasi in periferia con l'assassinio di Di Cristina e Pippo Calderone, poi esplosa con la morte di Stefano Bontade…" [4]

Con Pippo Calderone siamo alla storia della mafia catanese, fino agli anni sessanta fenomeno di scarso rilievo. Negli anni che vanno dal 1960 al 1980 si assiste però alla sua crescita, di pari passo al boom edilizio e ai finanziamenti regionali.

La nascita dell'istituto regionale sembra avere avuto un ruolo importante in questo come in altri campi della vita siciliana nel creare una comunicazione tra le varie parti dell'isola, nel compattare quella che era un'espressione geografica in una dimensione economica e istituzionale unificata. La regionalizzazione di Cosa nostra dunque speculare alla regionalizzazione della società isolana [5]

Una mafia forte dei suoi appoggi a Palermo e legata all'imprenditoria e al mondo politico locale si era sviluppata all'ombra del mito della "Milano del sud" e di quello della mafia lontana, anzi opposta allo spirito catanese come Palermo era opposta a Catania. Dalla stampa, di cui parleremo, al mondo accademico, alle istituzioni, per non parlare dei vari strati sociali diversamente coinvolti nel processo di trasformazione della città, nessun allarme. Un atteggiamento pressoché unanime. C'era la piccola delinquenza, c'erano gli scippi e le violenze, ma nulla a che fare con la mafia. E' vero che la mafia catanese non ha le tradizioni e il ruolo della mafia palermitana - fino a tutti gli anni settanta il suo è un profilo militare e organizzativo basso, non più di quaranta affiliati negli anni. Ciò restringeva le occasioni di conflitto interno. Assente anche la pratica dell'estorsione per una mafia con vocazione d'ordine, posta a protezione dei mafiosi [6] - ma è vero probabilmente che questo atteggiamento della società e della cultura catanese di volersi differenziare dalla capitale ha contribuito a nascondere troppo a lungo un fenomeno che, se pure in dimensioni ridotte, esisteva.
Negli anni ottanta però le cose cambiarono, la guerra di mafia portò a diversi delitti.

La cronaca ci mise davanti allo spettacolo di un quotidiano ammazzatoio. Anche questa fu una novità rispetto alla configurazione della delinquenza catanese, Catania era la città del raggiro, della frode arguta, e degli scippi. Gli scippi erano anche le manifestazioni più violente della criminalità e negli anni settanta raggiunsero una frequenza di diverse decine all'ora. Ma era roba da ragazzini; della loro estraneità al mondo della grande criminalità rimasero convinti per molto tempo i promotori dei comitati antimafia che nella mia città si costituirono sul modello palermitano: i più radicali nella denuncia ma anche i più populisti. Lo scippo era da leggere, per alcuni di loro, come una forma di lotta di classe e, quindi, naturalmente contrapposto alla mafia che veniva denunciata univocamente come l'espressione della imprenditoria locale, "i Cavalieri". Al contrario si capì presto che quella della microcriminalità era stata una scuola importante per l'iniziazione al mondo delle cosche catanesi. Su un altro versante della opinione cittadina l'imbarazzo e la confusione erano forti. In seguito alla politica del compromesso storico le sinistre erano entrate nell'area delle contrattazioni di sottogoverno ed erano interlocutrici, attraverso i sindacati, della imprenditoria più importante, quei Cavalieri in sospetto di mafia. Non di tutti allo stesso modo, dei Rendo più che dei Costanzo, per esempio, e questo segnava una differenza nei gradi di contiguità col malaffare. Non ci fu dibattito su queste questioni, anzi il linguaggio politico divenne sempre più criptico, chiuso all'interno di circoli ristretti che non riuscivano a parlare alla città; denunce come quelle che venivano da Democrazia proletaria, cadevano nel più imbarazzato silenzio, segnavano la marginalità politica di chi le faceva [7].

L'atteggiamento della stampa catanese è invece nelle parole di Agostino Sangiorgio, pronunciate a un dibattito sull'informazione che si tenne a Catania dopo l'uccisione di Fava:

La storia dell'informazione a Catania negli ultimi 15 anni è una storia di silenzi![…] Un blocco di potere estremamente compatto ha dominato e svilito questa città umiliando le intelligenze universitarie, gettando sospetti di connivenza su vasti settori della magistratura […] e infine abolendo quasi completamente il ruolo di giornalista. Un giornalista attento e acuto nel guardare a problemi e a questioni lontane, cieco e sordo dinnanzi ai problemi e financo alle notizie locali. La cultura del silenzio, del tacere per compiacenza, per conformismo, per bisogno o per paura ha dominato Catania fino all'omicidio del generale Dalla Chiesa"
Ma anche dopo l'omicidio Dalla Chiesa
"Anziché interrogarsi , guardarsi dentro e cercare di capire, Catania […] si mise a discutere di mafia. Il problema […]fu affrontato con disquisizioni da filologo" mentre il silenzio continuava." E nel giornalismo successe di tutto: smaccata indignazione, paura, ma anche onestà e risvegli. Giuseppe Fava con "I Siciliani" tentava di capire alla sua maniera: con una vocazione per il racconto più che per l'indagine, ma analizzando e spiegando. Dinanzi al disorientamento degli altri continuava ancora una volta a cercare di fare, bene o male che fosse, solo il suo e il nostro mestiere [8].

Questo era il dibattito catanese sulla mafia. Chi lo forzò fu Giuseppe Fava, nel più completo isolamento [9], ereditato poi dai giovani della redazione della rivista [10].


Note:
[3] Pino Arlacchi, Gli uomini del disonore, p. 72.

[4] Lupo, op.cit., p. 243

[5] Rosario Mangiameli, La mafia tra stereotipo e storia, Caltanissetta-Roma, 2000,p.152

[6] Mangiameli, La mafia tra stereotipo e storia, p. 7.

[7] Mangiameli, La mafia tra stereotipo e storia, p. 7.

[8] Dall'intervento di Agostino Sangiorgio al dibattito sull'informazione tenutosi a Catania dopo la morte di Pippo Fava, riportato su "I Siciliani", n. 13-14, Febbraio-Marzo 1984, nell'articolo Tre modi di vivere il giornalismo nel Sud, pp. 20-25.

[9] Mangiameli, La mafia tra stereotipo e storia, p. 7.

[10] Sul ruolo di Giuseppe Fava nel dibattito catanese sulla mafia si veda Mangiameli, op. cit. pp. 147-152: "A Fava bisogna dare atto che è stato uno dei primi a rendersi conto della nuova situazione; e tuttavia non per ciò Fava è riuscito ad andare oltre i propri strumenti culturali. L'immagine di una mafia tradizionale e quasi non violenta, in ogni caso lontana, relegata nella dimensione del latifondo cerealicolo, che dall'osservatorio catanese appare sfumata, a cui si contrapporrebbe una nuova mafia ben più spietata e pericolosa, gli serve a sottolineare il fatto nuovo della drammatica presenza criminale nella città. Questa non è più da collegare a forme di ribellismo sociale, ma diventa espressione stessa di qualificati settori del potere politico ed economico. Le indagini di Dalla Chiesa e poi dei magistrati palermitani coinvolgono la grande imprenditorialità cittadina (i Rendo, i Costanzo, i Graci, i Finocchiaro), ritenuta responsabile di avvalersi delle cosche criminali per proteggere i propri affari e di offrire in cambio la propria struttura finanziaria per riciclare i proventi del traffico di droga" . Sullo stesso tema vedi anche Giuseppe Giarrizzo, in Catania,Laterza, Bari-Roma 1986, pp. 332-333: "negli ultimi dieci anni Catania non ha vissuto tanto un'amara esperienza di degrado nella sua "qualità della vita", bensì ha sperimentato e sperimenta un contrastato processo di crescita e di cambiamento che ne fa un punto di osservazione non povero né marginale della crisi sociale e politica del paese. Per descriverla e capirla, bisogna liberare il campo dal polverone giornalistico del "caso Catania" suscitato da una lettura spregiudicata di fatti clamorosi accaduti fra il 1982 e il 1985, dall'assassinio del giornalista G.Fava all'arresto dei 'cavalieri' ( i titolari di grandi e potenti imprese)…Il 'caso Catania si disegnava ormai con tutta evidenza, anche se il profilo culturale del PCI catanese (che negli anni settanta aveva accolto una personalità intellettuale di rango come Pietro Barcellona) non consentiva alla sinistra di coglierlo, e le denunce generiche di Fava si spegnevano appiattite tra le ceneri del giornalismo di provocazione".


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