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Giuseppe Fava, paradossalmente la mafia...

I fatti di Bronte(CT) e la nascita del potere mafioso in un testo estratto dal primo capitolo di "Mafia", libro pubblicato da Giuseppe Fava nel 1982, due anni prima del suo assassinio. Ad oggi non esiste a Catania un archivio completo delle opere di Fava.

di Alessandro Calleri - mercoledì 2 giugno 2004 - 11677 letture

La mafia era nata nelle campagne siciliane già ai tempi della dominazione borbonica, molti anni prima che arrivasse Garibaldi con le sue camicierosse, per riunire la più grande isola del Mediterraneo al Regno d’Italia. Garibaldi era un uomo-eroe, era spavaldo, retorico, vigoroso, mangiava pane e cipolla, andava all’assalto con un grande cavallo bianco, una vecchia sciabola in pugno e un mantello rosso che gli svolazzava sulle spalle; era forse l’ultimo eroe romantico della razza latina, e per un gioco bizzarro della natura era biondo, con gli occhi azzurri e probabilmente ingenuo: in Sicilia, dopo lo sbarco delle sue mille camicie rosse, si vide venire incontro uomini con i mantelli neri, le barbe e gli occhi neri, i fucili a due canne sulle spalle. Erano uomini tristi, silenziosi, e astuti; in ogni paese che Garibaldi conquistava, insieme alle migliaglia di contadini, braccianti, infelici, che accorrevano a combattere per lui con le falci e le roncole, egli si trovava accanto quegli uomini tristi, con i mantelli neri ed il fucile a due canne. Gli giuravano fedeltà per il nuovo Stato italiano e gli chiedevano in cambio di proteggere la loro proprietà dalla rivoluzione, le loro case, i loro feudi.

Garibaldi non aveva molto tempo per badare ai loro discorsi; gli portavano fucili, gli giuravano fedeltà, e questo gli bastava poiché egli era soltanto un guerriero che doveva vincere le sue battaglie il più rapidamente possibile. I politici, dopo di lui, avrebbero fatto il resto. Non ebbe perciò alcun sospetto quando gli chiesero di inviare la truppa per domare a Brente una rivoluzione di cafoni che avevano invaso le terre dei padroni. I padroni erano nientemeno i discendenti dei duchi di Nelson! Garibaldi ordinò al suo luogotenente Nino Bixio, un genovese testardo e temerario, di riportare l’ordine a Bronte e Nino Bixio, con cento garibaldini occupò il paese, catturò cinquanta cafoni in rivolta e li fece fucilare nella piazza del paese. I garibaldini erano tutti ragazzi di vent’anni, per la maggior parte studenti che avevano abbandonato le famiglie in ogni parte d’Italia per correre incontro a quella che sembrava la più poetica delle guerre: piangevano come ragazzi mentre fucilavano quegli uomini analfabeti, rozzi, miserabili i quali si erano illusi che l’unità nazionale significasse finalmente giustizia sociale per tutto il popolo.

Fu un massacro atroce voluto dalla mafia per difendere i privilegi dei potenti contro le rivendicazioni popolari, una pagina triste di cui Giuseppe Garibaldi forse non si accorse nemmeno, e che ad ogni buon conto la storia Italiana ha cancellato dai suoi libri. Nelle antiche cronache si legge semplicemente che Garibaldi in Sicilia, su segnalazione di alcuni "galantuomini", intervenne per ripristinare l’ordine e la legge laddove essi erano stati proditoriamente turbati. Per cento anni è stata una spiegazione sintomatica. Ci sono voluti centoventi anni per contestarla.

Paradossalmente la mafia nacque proprio dall’esigenza di una legge, in seno a una società in cui lo Stato da oltre cento anni non riusciva più a penetrare, con la sua forza e le sue norme giuridiche, ed in cui quindi le azioni umane ed i rapporti fra gli individui e le famiglie erano governati dall’arbitrio, dalla prepotenza, dall’avidità, dalla fame, da tutte le oscure forze umane che si agitano in seno ad una popolazione e si scatenano tragicamente quando la paura della legge non le reprime. Soprattutto in una società in cui le ingiustizie, l’accumulo feroce della ricchezza e la terribile miseria delle moltitudini, sembrano ormai storicamente pietrificate.

La società siciliana del secolo scorso, per il dieci per cento era formata dalle grandi famiglie nobiliari che possedevano i più fastosi palazzi delle città e gli immensi feudi dell’interno, dai funzionar! ufficiali, mercanti, ecclesiastici che erano i soli padroni delle città, e per il novanta per cento da milioni di piccoli artigiani, pescatori, contadini, braccianti, manovali, operai,uomini analfabeti, poiché la scuola era privilegio dei ricchi, uomini poverissimi poiché la proprietà agricola era condensata nelle mani dei soli potenti,uomini senza speranza poiché anche politicamente non c’era alcuna possibilità che la situazione potesse modificarsi.

In questa sterminata massa umana ossessionata dal continuo spettro della fame e della sopravvivenza, perseguitata dalle carestie e dalla pestilenza, pullulavano ovviamente i delinquenti, uomini destinati dagli stessi difetti della struttura sociale, alla criminalità: per la maggior parte contadini che nei mesi dell’inverno braccavano le campagne per rubare animali negli armenti, per saccheggiare le fattorie isolate, per trafugare bestiame e grano. Lo Stato borbonico era troppo lontano, nelle reggie e nelle fortezze di Napoli e Palermo, troppo debole, per potere assicurare l’ordine pubblico e la persecuzione dei ladri, dei rapinatori, dei criminali; possedeva soltanto dei reggimenti per presidiare le grandi città, ma non aveva gendarmi e polizia per le campagne. I grandi feudi dell’interno dell’isola, le baronie, gli immensi possedimenti nobiliari, le vaste proprietà agricole, i magazzini di agrumi e cereali gli allevamenti di bestiame, cioè tutte le cose che allora formavano l’unico fondamento della proprietà privata erano praticamente allo sbara-glio, senza alcuna protezione ufficiale dinanzi alle scorrerie dei briganti. E insieme ai briganti, miriadi di piccoli criminali isolati, disertori del regio esercito borbonico, braccianti senza lavoro, pecorai miserabili resi avidi dal bisogno, i quali razziavano nelle campagne, rubando cose altrettanto miserabili, un cavallo, una mucca, qualche sacco di farina, qualche quintale di arance.

Oltre alla criminalità sempre più diffusa, c’era infine il pericolo delle rivolte contadine, dei cosiddetti "cafoni", un termine dispregiativo per indicare gli individui destinati a zappare la terra, ai lavori più umili, poverissimi, analfabeti, senza alcun diritto umano e civile, che non fosse quello di servire il padrone della terra in cui erano nati. Giovanni Verga, che indubbiamente, più acutamente di ogni altro, seppe cogliere il dramma dell’anima siciliana, descrisse con parole semplici e terrificanti una di queste rivolte, in un racconto che è il caposaldo della scuola verista e che tuttora sembra una straordinaria cronaca giornalistica. Anche se il nome del paese non è mai citato, è troppo facile intuire che la rivolta descritta dal Verga era quella stessa che insanguinò la cittadina di Bronte e che Garibaldi represse con cinquanta fucilazioni nella piazza. Scrisse Verga:

«Ma il peggio avvenne appena cadde il figliolo del notaio, un ragazzo di undici anni, biondo come l’oro, non si sa come travolto dalla folla. Suo padre ferito a morte, si era rialzato due o tre volte prima di finire nel mondezzaio, chiamandolo disperato per nome. Il ragazzo fuggiva, dal terrore, con gli occhi e la bocca spalancata senza poter gridare. Lo rovesciarono, il torrente gli passò sopra, uno gli mise lo scarpone sulla guancia e gliela sfracellò, ma il ragazzo ancora chiedeva pietà con le mani, e il taglialegna gli menò addosso un gran colpo di scure con le due mani, quasi avesse dovuto abbattere un albero di cinquant’anni. Ora che avevano le mani rosse di quel sangue bisognava versare il resto. Non era la fame, le bastonate, le soperchierie, ma il sangue innocente che faceva ribollire la collera. Tu che venivi a pregare il buon Dio con le vesti di seta! - Tu che avevi schifo di inginocchiarti vicino alla povera gente. Nelle case, per le scale, dentro le alcove il massacro, lacerando la seta e la tela fine. Quanti orecchini su delle facce insanguinate! E quanti anelli d’oro nelle mani che cercavano di parare i colpi di scure. In quel carnevale furibondo del mese di luglio, in mezzo agli urli della folla insanguinata, continuavano a suonare a stormo le campane...».

La mafia nacque così, per difendere la proprietà privata in una società sconvolta da una continua disperazione popolare. I più grandi proprietari, i più ricchi agricoltori, i padroni dei feudi si sostituirono allo Stato assente e imbelle e imposero una loro legge che, nelle grandi linee giuridiche, richiamava la legge stessa dello stato, poiché essa voleva reprimere qualsiasi reato contro la persona e la proprietà, ma la ridussero all?essenziale dal punto di vista pratico: abolirono cioè il processo, le prove, la difesa, e stabilirono un’unica sanzione: la morte.

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- Ci sono 3 contributi al forum. - Policy sui Forum -
> Giuseppe Fava, paradossalmente la mafia...
3 giugno 2004, di : Antonio

Signor Caleri, la informo che da quasi un anno esiste a Catania la fondazione "Giuseppe Fava" che si sta proprio occupando di creare un archivio multimediale su tutto ciò prodotto da lui e dai Siciliani. La terrò informata.

Cordiali saluti

    > Giuseppe Fava, paradossalmente la mafia...
    3 giugno 2004

    Grazie per l’informazione ma più che informare me bisognerebbe informare i catanesi (e i siciliani mentre già ci siamo), che di Fava sembrano aver perso memoria. Sperando di poter fruire al più presto dell’archivio multimediale che state creando, le confesso che sarebbe molto interessnte poter avere i testi di Fava già digitalizzati e pronti per la pubblicazione sul web. La fondazione sicuramente dispone di questi testi (dato che vi ha pubblicato un libro in occasione dell’ultimo anniversario della morte), sarebbe molto bello se potessimo sin da adesso condividerne la conoscenza e contribuirne la diffusione. Credo che la memoria di Pippo Fava rappresenti un patrimonio condiviso da studire e amplificare, spero che avremo presto notizie in tal senso. Io intanto continuo a passare le pagine dei libri allo scanner.....

    saluti

    Alessandro Calleri

      > Giuseppe Fava, paradossalmente la mafia...
      18 agosto 2009, di : Marco da Catania

      Il 28 Luglio si è svolta a Catania presso il Cortile Platamone una serata dedicata alla sottoscizione per I SICILIANI, il giornale fondato da Pippo Fava, e devo dire che la serata è stata abbastanza proficua. Speriamo che i Catanesi addormentati si sveglino.