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Tutti i problemi del presidente

Un articolo di Alessandro Ursic, dal sito www.peacereporter.it, all’indomani dell’insediamento del nuovo Presidente degli Stati Uniti.

di Redazione - mercoledì 21 gennaio 2009 - 1820 letture

Un Paese in recessione e con le casse pubbliche che fanno acqua, nel tentativo di salvare decine di compagnie dalla bancarotta: Barack Obama diventa presidente nella peggiore crisi economica degli Stati Uniti dai tempi della Grande Depressione degli anni Trenta. Per uscirne punta a indebitare gli Usa ancora di più, grazie agli investimenti pubblici e a tagli alle tasse, nella speranza che gli americani tornino a spendere. Ma il cammino è irto di difficoltà.

I numeri. Nel 2008 gli Stati Uniti hanno perso 2,6 milioni di posti di lavoro, di cui 524mila nel solo mese di dicembre. E la maggioranza degli esperti concorda nel credere che il peggio deve ancora venire, prima della ripresa. I salvataggi finanziari degli ultimi tre mesi - colossi come Aig, Citigroup, General Motors ma anche decine di istituti minori - stanno avendo un peso senza precedenti sui conti statali: è stato calcolato che nell’anno fiscale 2009 il deficit di bilancio sarà di 1.200 miliardi di dollari, cioè l’8,3 percento del Prodotto interno lordo. Si tratta del più ampio buco nei conti pubblici dalla Seconda guerra mondiale: per fare un confronto, si pensi che i Paesi dell’area euro devono contenere il rapporto deficit/Pil entro il 3 percento. Pur sapendo che spendere oltre le proprie capacità oggi si paga con maggiori interessi domani, gli Stati Uniti credono di potersi permettere il rischio, anche perché partono da un debito pubblico in proporzione minore rispetto ad altri Paesi: circa il 60 percento del Pil (in Italia tale rapporto è di 108).

La ricetta di Obama. E tutto questo, senza contare il piano di stimolo all’economia pensato da Obama: 775 miliardi di dollari, in spese pubbliche e tagli fiscali che si sommerebbero al già enorme buco di bilancio. L’idea del presidente è di impiegare circa il 40 percento di questa cifra in riduzioni delle imposte per le classi medio-basse, che riceverebbero in sostanza 500-1.000 dollari in più a famiglia. Il resto dovrebbe essere speso per rilanciare le infrastrutture, creando 600mila posti di lavoro tramite gli investimenti pubblici. Obama si ispira insomma alle teorie keynesiane, secondo cui un’economia in crisi può venire rilanciata grazie alla spesa pubblica. Ma al contempo, sono previsti tagli ai programmi di assistenza sanitaria per i più poveri e per gli anziani: in questo quadro l’obiettivo di fornire a tutti un’assicurazione medica, centrale nella campagna elettorale, è destinato a essere rinviato.

Le difficoltà. Il piano di Obama non piace però a buona parte del Congresso, e non solo tra l’opposizione. Se i repubblicani storcono il naso di fronte all’esplosione della spesa pubblica, seguendo i principi reaganiani del "governo leggero", anche all’interno del Partito democratico ci sono voci contrarie: quel mix di tagli fiscali e aumento della spesa pubblica, secondo loro, è troppo sbilanciato in favore della riduzione delle imposte. Ma sapendo che la battaglia per l’approvazione del pacchetto sarà dura, con i tagli fiscali il presidente ha cercato probabilmente un’esca per l’appoggio dei repubblicani al Congresso. E’ probabile che, prima della stesura finale, il piano Obama verrà ampiamente emendato e c’è la possibilità - solo ventilata per ora, quasi fosse tabù parlarne - che la cifra di 775 miliardi superi in realtà il trilione, se saranno necessari altri salvataggi di grandi aziende. E nonostante il piano di stimolo sia stato accolto come l’inizio della fine della recessione, c’è già chi teme che non sarà sufficiente per allontanare l’economia statunitense dal baratro.


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