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Simone Weil “Manifesto per la Soppressione dei Partiti Politici” (Castelvecchi)

Finalmente disponibile in Italia un breve quanto arguto pamphlet di Simone Weil contro i partiti politici. Un tema dalla dirompente attualità…

di Emanuele G. - martedì 17 luglio 2012 - 4779 letture

La Castelvecchi ha dimostrato un incredibile tempismo nel rendere finalmente disponibile in Italia un pamphlet postumo di Simone Weil che si intitola “Manifesto per la Soppressione dei Partiti Politici” (in francese “Note sur la Suppression Generale des Parties Politiques”)! Alla faccia dell’antipolitica…

Cominciamo con il fornire alcune precisazioni sul volumetto fresco di stampa. Ho già ricordato il titolo in lingua originale. Esso fu pubblicato per la prima volta in Francia nel 1957 da Gallimard. Quattordici anni dopo la morte ad Ashford della nota sociologa e intellettuale francese. Conteneva una prefazione del poeta Andrè Breton più una nota a commento del filosofo Alain. La traduzione è a cura di Fabio Regattin.

Prima di passare alla recensione del “Manifesto per la Soppressione dei Partiti Politici” è d’obbligo stilare una breve biografia di Simone Weil. Figlia di un ricco medico ebreo e sorella minore del matematico André Weil, Simone Weil nasce il 3 febbraio 1909 a Parigi, ricevendo in famiglia un’educazione severa e raffinata. Soffre, fin dall’adolescenza, di forti e ricorrenti emicranie. A quattordici anni ha la sua prima crisi esistenziale. Fra il 1919 e il 1928 studia in diversi licei parigini, dove ha come professori di filosofia René Le Senne e Alain. Ammessa all’École Normale Supérieure, nel 1931 vi supera l’esame di concorso per l’insegnamento nella scuola media superiore. Insegna filosofia fra il 1931 e il 1938 nei licei di varie città di provincia (Le Puy, Auxerre, Roanne, Bourges, Saint-Quentin). A Le Puy, suo primo luogo d’insegnamento, suscita scandalo distribuendo lo stipendio fra gli operai in sciopero e guidando la loro delegazione in municipio. Suscita, inoltre, disorientamento tra i suoi alunni, vietando loro di studiare sul manuale di filosofia e rifiutando a volte di dare i voti. Nonostante lo stipendio che riceve come insegnante, decide di vivere spendendo per sé solo l’equivalente di quanto percepito come sussidio dai disoccupati, per sperimentare le loro ristrettezze di vita. Nell’inverno 1934-1935, desiderando conoscere la condizione operaia nella sua terribile monotonia e dipendenza, inizia a lavorare come manovale nelle fabbriche metallurgiche di Parigi. L’esperienza di otto mesi di lavoro nelle officine Renault – che ha conseguenze gravi per la sua salute – verrà raccolta, sotto forma di diario e di lettere, nell’opera La condizione operaia (1951). Si reca anche in Portogallo, dove conosce e vive la miseria dei pescatori. In questi anni è vicina ad ambienti sindacali e politici anarchici e trotskisti. Nel 1936 si aggrega ai repubblicani anti-franchisti nella guerra civile spagnola. Non essendo capace di padroneggiare il fucile, viene assegnata ai lavori in cucina.Ma, vittima di un incidente, torna a Parigi. Nel 1937, mentre viaggia, ammalata, per l’Italia, s’inginocchia nella cappella di Santa Maria degli Angeli di Assisi, sentendosi trascinata da una forza irresistibile. Iniziano le sue esperienze mistiche, che proseguono nel 1938 quando trascorre la Pasqua a Solesmes.a non si decide a entrare nella Chiesa cattolica per timore di trovare in essa un facile riparo che l’avrebbe potuta allontanare dalla mistica della passione patita insieme a Cristo. Alla vigilia della seconda guerra mondiale, arroccata su posizioni pacifiste, è convinta che qualunque tragedia, compresa l’egemonia tedesca, sia preferibile allo scoppio d’un conflitto; ma si persuade poi, «dopo una dura lotta interiore», a «perseguire la distruzione di Hitler con o senza speranza di successo». Nel 1940 abbandona Parigi a causa dell’invasione tedesca; nel 1941 sceglie di dedicarsi al lavoro agricolo e resta dai genitori, a Marsiglia, fino al 1942. Accompagna quindi i genitori negli Stati Uniti e, dopo un breve soggiorno a New York, raggiunge Londra per unirsi all’organizzazione France Libre della resistenza francese. Digiunando, si sente spiritualmente vicina ai francesi della zona occupata. Affetta da tubercolosi, aggravata dalle privazioni che aveva deciso di imporsi, muore nel sanatorio di Ashford il 24 agosto del 1943, all’età di soli 34 anni.

«I partiti sono organismi costituiti in maniera tale da uccidere nelle anime il senso di verità e di giustizia», in quanto sono costituiti per «esercitare una pressione collettiva sul pensiero di ognuno degli esseri umani che ne fanno parte». «L’unico fine di qualunque partito politico è la sua propria crescita, e questo senza alcun limite». Questo «è totalitario in nuce e nelle aspirazioni. Se non lo è nei fatti, questo accade solo perché quelli che lo circondano non lo sono da meno». Per non parlare della parte finale in cui afferma senza peli sulla lingua «Se si affidasse al diavolo l’organizzazione della vita pubblica, non saprebbe immaginare nulla di più ingegnoso». Pertanto «la soppressione dei partiti costituirebbe un bene quasi allo stato puro». Le espressioni testuali di Simone Weil che ho riportato innanzi non ammettono repliche. Sono in apparenza un pugno allo stomaco, ma se si riflette sulle medesime alla fine ci si trova d’accordo con la sociologa francese. Perché il problema di fondo è questo: i partiti perseguono il bene collettivo o il proprio bene? Se si verificasse la prima ipotesi non staremmo qui a scagliarci contro il loro potere dittatoriale. La democrazia sarebbe una forma di governo degli uomini perfetta perché i partiti opererebbero per il bene di tutti noi. Cosa che non è nella natura delle cose poiché i partiti si occupano della loro sopravvivenza e potere a discapito degli interessi di tutti i cittadini. Quindi, visto che si occupano del proprio tornaconto essi sono pericolosi e vanno soppressi. Tout court. Il discorso che Simone Weil affronta nel suo pamphlet contro i partiti si inserisci in una corrente del pensiero politologico del novecento che ha avuto in Vilfredo Pareto, Rinus Michaels e Gaetano Mosca i maestri assoluti. Per loro i partiti pensavano più alla sopravvivenza e se la assicuravano mediante la cooptazione di classe dirigente. Classe dirigente che non rappresentava gli interessi della società, ma quelli strumentali dei partiti stessi.

Su questo libro Angela Porciani sul il Post Viola ha stilato una pregnante riflessione che voglio riportarvi nella quasi totalità. “Il piccolo volume mi ha colpito molto perché quelle definizioni esprimono, senza ombra di dubbio, con una chiarezza estrema, il mio convincimento maturato sui partiti. Convincimento maturato, con non pochi dubbi e angosce, nell’ultimo quinquennio durante il quale ho avuto modo di conoscere da vicino un partito in particolare (ma tutti nel generale perché hanno lo stesso modus operandi) arrivando al convincimento che i partiti, questi partiti sono ormai obsoleti, non più capaci di dar voce alla nostra società liquida quanto mai complessa e fragile. Lo so bene e non voglio mettere il dito nella piaga…oggi i partiti non godono di buona fama, tutti sono consapevoli che il loro unico fine sia il potere e la scarsità di adesioni e di militanza indica che la sfiducia è profonda. La supremazia del governo tecnico rispetto ai parlamenti e quindi ai partiti che qui sono rappresentati è un segnale inequivocabile della loro crisi. Ma le parole di Simone vanno ancora più nel profondo e aprono nuove domande. Dicono che i partiti, non in conseguenza di condizioni date (Simone Weil scrive in pieno stalinismo e nazismo), ma in sé e per sé, in quanto organizzazioni del pensiero e dell’azione, ne contengono la soppressione, producono l’abolizione della libertà di espressione e delle idee di cambiamento. Naturalmente so bene che, guardando alla storia, mi si potrebbe dimostrare il contrario. Ma il punto interessante non riguarda il passato bensì il presente. Simone non stimola l’analisi di quanto è avvenuto ieri ma sull’oggi e sul domani. Simone ha la capacità di tenere in vita una domanda, oggi fondamentale, per noi ed è la seguente: la società moderna ha ancora bisogno dei partiti per produrre idee di cambiamento e per organizzarlo? Non stiamo assistendo oggi che non sono capaci né dell’uno né dell’altro? Chi dovrebbe sostituirli? E, ancora, se il loro fine è il potere, è possibile separare l’una dall’altro? Nei partiti di destra e di sinistra il conformismo è la regola. Ed è il conformismo la forma moderna del totalitarismo. La liberazione da esso, che pure alcuni attuano, è quasi obbligatoriamente simultanea all’abbandono del partito che, nel migliore dei casi, rimane uno stanco riferimento elettorale. Separare il potere dalla politica non è una idea tanto astratta e velleitaria se è vero che milioni di persone si dedicano al volontariato, si organizzano autonomamente, cercano di portare avanti nuove idee di cambiamento. Il senso di verità e di giustizia di cui parlava Simone Weil sta cercando nuovi modi di esprimersi. Ripensiamo a tutti gli schemi che ci hanno guidato finora compreso quello secondo cui «i partiti sono i pilastri della democrazia». E se non fosse più così? Se per la democrazia dovessimo trovare altri pilastri, altre parole, altre azioni? Se fosse sbagliare liquidare come qualunquistica» la diffidenza e l’abbandono dei partiti? Se pensassimo a nuovi strumenti per «perseguire il bene pubblico»?”

Non aggiungo altro in quanto Angela Porciani ha individuato con rara maestria la posta in ballo. Una posta in ballo che ci dovrebbe fare ragionare per rivitalizzare una forma di governo – la democrazia – che appare viepiù stanca e logora. Se non la si rinvigorisce con nuove idee rischiamo, e sta già succedendo, di declinare verso forme di democrazia cesarista.


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