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Siamo tutti collaboratori

L’uso di determinate parole rivela lo spirito dei tempi.

di Emanuele G. - mercoledì 17 novembre 2010 - 2383 letture

Uno dei modi per conoscere la storia, in generale e nello specifico, è l’analisi del linguaggio. In sintesi, dimmi quali parole utilizzi e ti dirò chi sei. Il linguaggio – pertanto – come potente mezzo per investigare, in maniera precisa e profonda, un dato periodo della storia umana. Esso rivela molto di noi. Descrive, ad esempio, la condizione dell’uomo durante un importante evento storico. Oppure. Quali regole sono dominanti nella società umana. Ancora. Quali dinamiche ha la società che utilizza un determinato linguaggio. E’ una bussola imprescindibile per comprendere chi siamo e il tempo.

Spostiamo l’attenzione ai giorni nostri. Nel corso degli ultimi lustri il linguaggio utilizzato in Italia ha subito profondi cambiamenti. Cambiamenti dovuti a un ventaglio di cause. Per sintetizzare. Un minor legame con la tradizione aulica della lingua italiana. Una società divenuta con il tempo più complessa e frastagliata. L’avvento di mode che collegano in maniera sempre più accentuata l’esteriorità con il linguaggio. Una veicolazione delle conoscenze e del linguaggio marcate da un uso intensivo di strumenti elettronici e telematici. La lingua parlata oggi non è minimamente assimilabile a quella parlata trent’anni fa. Ciò è un bene o un male? Dipende dal contesto del cambiamento e da molti altri fattori.

C’è una parola che possiamo prendere ad esempio? Sicuramente si. E’ un termine molto utilizzato da un paio di lustri a questa parte. Si tratta della parola COLLABORATORE. Tale termine è diventato un incredibile tappabuchi capace di coprire un problema di drammatica attualità. LA MANCANZA DI LAVORO. Infatti, con la parola collaboratore si definisce tutta una serie di situazioni di lavoro/non lavoro. E’ una parola che per la sua stessa natura definisce nulla. E’ di una vacuità incredibile. Si rimane sempre a mezz’aria. Anzi, spesso, tende a sminuire l’importanza del termine lavoro. Il collaboratore è la nuova parola magica.

Secondo lo spirito dei tempi siamo tutti collaboratori. Come se collaborare fosse un’attività ludica. Collaboro perché mi piace e mi diverto pure. I dettagli riguardanti i miei diritti e il relativo lato economico sembrano passare in secondo piano. Provate ad ascoltare un imprenditore o un dirigente scolastico. Mai e poi mai utilizzano il termine dipendente o insegnante. Chi li aiuta a raggiungere obiettivi prefissati è un semplice collaboratore. Non un lavoratore. Un’azienda di credito organizza un meeting di fine anno con i propri dipendenti? Guai a chiamarli dipendenti! Sono collaboratori. Punto e basta. Anche in politica il Premier preferisce utilizzare l’etimo collaboratori a quello più istituzionale di Ministri. In pratica, il nostro paese è a un passo di potersi considerare una nazione fondata sui collaboratori. Quanto siamo collaborativi!

Eppure, dietro un tale uso improprio e fin troppo semplificativo si nasconde un silente attacco alla centralità del lavoro nella nostra società. Se ci fate caso. Appena si è iniziato ad usare la parola collaboratore è scomparso il lavoro. Collaboratore rinvia a un insieme di non regole che producono effetti di scimmiottamento del vero lavoro.

Ci dovrebbe essere un CONTRATTO che lega il datore di lavoro con il dipendente. Nell’epoca della collaborazione il contratto è viepiù definito strumento di altri tempi. Tempi comunisti...

Essere lavoratore implica un insieme di conoscenze ed esperienze acquisite durante un lungo ed impegnativo apprendistato. Non è sufficientemente “a la page”. Non importa la tua formazione. Tanto devi collaborare. Devi saper fare tutto e di tutto senza sapere fare nulla. Dettagli...

Il lavoro comporta precise regole di avviamento, di organizzazione, di valutazione, di sicurezza e quant’altro. Nulla di tutto questo accade nell’epoca del collaboratore. Sei avviato al lavoro senza un percorso ben preciso. Non c’è organizzazione. Solo il rapporto feudale fra il capo e il collaboratore. Che ce ne facciamo della valutazione? Mica ti paghiamo di più se lavori meglio… E poi cosa saranno questi discorsi sulla sicurezza? Che ci faccio? Ci mangio?

Quasi quasi si lavora tanto per scherzare. Per passare tempo. Per celiare. Un modo intelligente per evitare gli ozi di Capua. Il capo ti schiavizza? Mi diverto un mondo. L’agenzia interinale ti presta per un tozzo di pane. Che godimento! Non mi pagano a fine mese? Chi se ne frega! Qui è l’Eden.

Avete visto come si mortifica il valore del lavoro? Basta l’utilizzo calcolato e programmato di un termine per sovvertirne un valore essenziale e fondante dell’intera umanità. Il lavoro crea UOMINI e DONNE in grado di comprendere i propri diritti e doveri. Che pericolo! La collaborazione, invece, no. Tu presti a fondo perduto le tue competenze e ricevi in cambio solo vuoti attestati di capacità professionale e volgari pacche sulle spalle.

L’Eden propugnato dai così detti “maitres a penser” del liberismo economico ha trasformato il mondo del lavoro in un inferno. Ricollocare il termine lavoro al suo giusto posto sarebbe già un atto intelligente per recuperare la centralità del lavoro in una società dove la massima aspirazione lavorativa sembra il bunga bunga.


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