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Poesia è politica (2): Come il pane dalla farina

La lingua degli altri / José Ramón Ripoll ; traduzione e cura Gianni Darconza. - Senigallia : Ventura, 2019.

di Alessandra Calanchi - mercoledì 6 marzo 2024 - 376 letture

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Copertina de La lingua degli altri, di José Ramon Ripoll

Questo volumetto inaugura una collana che si chiama “Palestra di poesia”. Ne parla il curatore, Gianni Darconza, nella bella Introduzione intitolata “La poesia come arte di difesa personale”. Darconza è poeta e traduttore dallo spagnolo, nonché docente di letteratura spagnola / ispanoamericana e di letterature comparate. Nella sua Introduzione auspica innanzitutto che la poesia, invece di chiudersi su se stessa, si apra ad altre lingue e culture, e venga insegnata fin dai primi anni di scuola. Prosegue citando il grande poeta cileno Pablo Neruda, per il quale la poesia “nasce dalla pace come il pane dalla farina”. E Darconza ricorda anche il premio Nobel Seamus Heaney, che sosteneva che lo scopo della poesia è darci l’impressione che la nostra percezione del mondo sia nell’ordine “giusto”.

Queste poesie sono tradotte dallo spagnolo, tradotte dunque da un poeta ispanista, non da chat gpt, e ci tengo a dirlo, perché qui c’è tutta la fatica e l’umanità di chi lavora da una vita sui testi, di chi conosce due lingue come fossero una. Chi traduce è sempre a sua volta artista, creatore/creatrice, e riempie un vuoto riscrivendo un testo che resterebbe sconosciuto.

Ho scelto le prime tre strofe di una poesia che si intitola Cella.

Di quale altro posto fuori di qui,
quale altra respirazione,
quale grido,
quale suonare del sangue
che precipita nella cascata
verso il mio cuore inesistente
posso sentir nostalgia da un altro passato
prima di questo battito
che persiste senza tempo
e senza parola.

Quale esilio devo aspettarmi
al di là di questa cella
che profila il mio abbozzo sulle pareti,
senza luce,
senza notte o giorno.

Quale firmamento occulto
Marcherà il mio destino nelle stelle
Come se mi liberasse da una condanna eterna,
segnalandomi il nome con cui rispondere,
la casa che mi conservi
nell’apparenza di esser stata scelta
con piena libertà.

[…]

In questo momento, parlare di cella, di carcere, di prigione, di esilio, di sangue, non può non farci pensare ai drammi che si consumano su tutto il pianeta. Pensiamo a Julian Assange, in attesa di sapere se verrà o no estradato negli Stati Uniti, dove lo attende, nella migliore delle ipotesi, l’ergastolo. Pensiamo a Ilaria Salis, la giovane maestra italiana detenuta in Ungheria in condizioni disumane per aver partecipato a una manifestazione contro i neonazisti. Pensiamo alla morte di Aleksej Anatol’evič Naval’nyj, condannato a 19 anni di carcere per opposizione al regime russo, e morto improvvisamente in cella. La lista potrebbe continuare, e continuare, e continuare…

La poesia di Ripoll parla di respirazione. Di grida. Di nostalgia.

Dal silenzio assordante della cella si leva il grido dell’anima straziata dall’assenza di parole.

Il cuore stesso diventa inesistente, il suo battito è fuori dal tempo. L’unico “sentire” è la nostalgia: il futuro è solo esilio, assenza di luce. Il destino è forse scritto nelle stelle, nella terza strofa che ripete due volte il concetto di libertà, verbo e nome.

Contro ogni apparenza, contro ogni condanna, leviamo anche noi un grido di libertà dalla nostra prigione di silenzio, di conformismo, di ignavia.


José Ramon Ripoll (1952) è poeta, giornalista e musicologo spagnolo. Autore di numerosi articoli e libri, è direttore della Revista Atlantica de poesia. Tra le sue pubblicazioni recenti ricordiamo Estragos de la guerra (2011) e Piedra Rota (2013). Con La lengua de los otros (2017) ha vinto il Premio Loewe per la Poesia. Nel 2019 è entrato a far parte della Real Academia Provincial de Bellas Artes di Càdiz.



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