Piacere visivo e cinema narrativo
Piacere visivo e cinema narrativo* (da nuova dwf, N.8 – Luglio-Settembre 1978)
Piacere visivo e cinema narrativo* (da nuova dwf, N.8 – Luglio-Settembre 1978)
di Laura Mulvey
I. INTRODUZIONE
A. Un uso politico della psicoanalisi
Questo saggio si propone di usare la psicoanalisi per scoprire dove e come la fascinazione del film sia rinforzata
da modelli di fascinazione preesistenti, già attivi nell’individuo e nelle formazioni sociali che lo hanno,plasmato, e
prende come punto di partenza il modo in cui il film riflette, rivela, o anche mette in scena fedelmente,
l’interpretazione socialmente stabilita dalla differenza sessuale che controlla le immagini, i modi di guardare
erotici, lo spettacolo. E’ utile comprendere cosa è stato il cinema, come ha operato la sua magia in passato,
quando si tenta di dar forma ad una teoria e una pratica che sfidino questo cinema del passato. La teoria
psicanalitica è quindi un’opportuna arma politica, in quanto dimostra in qual modo l’inconscio della società
patriarcale abbia strutturato la forma filmica.
E paradosso dei fallocentrismo, in tutte le sue ’ manifestazioni, è ch’esso dipende dall’immagine della donna
castrata per dar ordine e significato al suo mondo. Un’idea della donna funge da cardine dei sistema: è la sua
mancanza che produce il fallo come presenza simbolica, è il suo desiderio dì compensare la mancanza di ciò che il
fallo significa. Gli articoli recentemente apparsi su « Screen » a proposito di psicoanalisi e cinema, non hanno
posto sufficientemente in luce l’importanza della rappresentazione della forma femminile in, un ordine simbolico
in cui, in ultima istanza, tale forma esprime null’altro che castrazione. Riassumiamo in breve: la funzione della
donna nella formazione dell’inconscio patriarcale è duplice; anzitutto ella simbolizza la minaccia di castrazione
con la sua assenza reale di un pene, e in secondo luogo, perciò, innalza il proprio figlio nel simbolico. Una volta
raggiunto questo risultato, il suo significato nel processo è giunto a termine, non persiste nel mondo della legge e
dei linguaggio se non come ricordo, oscillante tra il ricordo della pienezza materna e il ricordo della mancanza,
entrambi fondati sulla natura (o sull’« anatomia », secondo la celebre espressione freudiana). li desiderio della
donna è assoggettato alla sua immagine di portatrice della ferita sanguinante; ella può esistere soltanto in
rapporto alla castrazione, non può trascenderla. Trasforma il proprio figlio nel significante del suo stesso
desiderio di possedere un pene (condizione, ella immagina, dell’accesso al simbolico). Dovrà cedere garbatamente
alla parola, il Nome del Padre e la Legge, oppure lottare per trattenere seco il figlio nella penombra
dell’immaginario. La donna, quindi, nella cultura patriarcale funge da significante per l’altro maschile, vincolata da
un ordine simbolico in cui l’uomo può vivere le sue fantasie e ossessioni tramite il dominio del linguaggio,
imponendole all’immagine silenziosa della donna, ancora legata al suo posto di portatrice, non creatrice, di
significato.
Quest’analisi ha un interesse evidente per il femminismo; vi è una certa bellezza nella precisione con cui rende la
frustrazione sperimentata sotto l’ordine fallocentrico. Ci fa accostare maggiormente alle radici della nostra
oppressione, ci fa avvicinare ad una articolazione del problema, ci pone di fronte alla sfida fondamentale: come
combattere l’inconscio strutturato come un linguaggio (il momento critico della sua formazione coincide con
l’ingresso dei linguaggio) mentre si è ancora prese entro il linguaggio del patriarcato. Non vi è modo alcuno di far
nascere improvvisamente una alternativa dal nulla, ma possiamo iniziate ad aprire una breccia esaminando il
patriarcato con gli strumenti che esso ci fornisce; e la psicanalisi non è il solo, ma è uno strumento importante.
Una distanza notevole ci separa ancora da temi importanti per l’inconscio femminile ma di scarso rilievo per la
teoria fallocentrica: la sessuazione della neonata e il suo rapporto con l’ordine simbolico, la donna sessualmente
matura come non-madre, la maternità oltre la significazione del fallo, la vagina... Ma la teoria psicoanalitica,
quale si presenta oggi, può per lo meno far progredire la nostra comprensione dello status quo, dell’ordine
patriarcale in cui siamo imprigionate.
B. Distruzione del piacere come arma -radicale
Il cinema, in quanto sistema di rappresentazione avanzato, pone degli interrogativi circa i modi in cui l’inconscio
(modellato dall’ordine dominante) struttura i modi di vedere e il piacere del guardare.
Il cinema in questi ultimi decenni è cambiato, non è più il sistema monolitico basato su grandi investimenti di
capitale, esemplificato nel modo migliore dalla Hollywood. degli anni ’30, ’40 e ’50. 1 progressi tecnologici (16
mm., ecc.) hanno cambiato le condizioni economiche della produzione cinematografica, che ora può essere sia
artigianale che capitalistica. Si è quindi reso possibile lo sviluppo di un cinema alternativo. Per quanto Hollywood
riuscisse ad essere consapevole e ironica, si limitava sempre ad una mise-en-scéne formale che rifletteva la
concezione ideologica dominante del cinema. Il cinema alternativo apre uno spazio per la nascita di un cinema
radicale in senso sia politico che estetico, che sfidi i presupposti basilari del cinema tradizionale. Non perché
quest’ultimo vada rifiutato moralisticamente ma per far risaltare in quali modi le sue preoccupazioni formali
riflettono le ossessioni psichiche della società che ha prodotto, e, inoltre, per sottolineare che il cinema
alternativo deve muovere specificamente dalla reazione contro queste ossessioni e questi presupposti. Un cinema
politicamente ed esteticamente d’avanguardia è oggi possibile, ma può esistere, ancora, soltanto come
contrappunto.
La magia dello stile di Hollywood nei suoi momenti migliori (e di tutto il cinema che cadeva entro la sua sfera di
influenza), nasceva, non esclusivamente ma per un aspetto importante dalla manipolazione abile e soddisfacente
del piacere visivo. Incontrastato, il film tradizionale codificava l’erotico nel linguaggio dell’ordine patriarcale
dominante. Nello sviluppatissimo cinema hollywoodiano era solo tramite questi codici cifrati che il soggetto
alienato, straziato nel ricordo immaginario da un senso di perdita, e dal terrore di una mancanza potenziale nella
fantasia, giungeva quasi a trovare un barlume di soddisfazione: tramite la bellezza formale e il giocare con le sue
stesse ossessioni formative. Questo saggio discuterà l’intessitura di quel piacere erotico nel film, il suo significato,
e in particolare il posto centrale dall’immagine della donna. Si dice che analizzare il piacere o la bellezza, li
distrugge. E’ quanto sì prefigge questo articolo. La soddisfazione e il rafforzamento dell’ego che rappresentano
finora il culmine della storia dei film debbono essere attaccati. Non in favore di un nuovo piacere ricostruito, che
non può esistere in astratto, o di un non-piacere intellettualizzato, ma per far posto ad una negazione totale della
tranquillità e della pienezza del film di fiction. L’alternativa è l’emozione che deriva dal lasciarsi addietro il
passato senza rifiutarlo, superando le forme consunte od oppressive, oppure osando rompere con le normali
aspettative di piacere ai fine di concepire un nuovo linguaggio del desiderio.
11. PIACERE NEL GUARDARE
FASCINAZIONE DELLA FORMA UMANA
A. Il cinema offre una quantità di possibili piaceri. Uno è la scopofilia. Vi sono circostanze in cui il guardare
stesso è una fonte di piacere, proprio come, nel caso inverso, v’è un piacere nell’essere guardati. Originariamente,
nei suoi Tre saggi sulla teoria sessuale (1905), Freud isolava la scopofilia come una delle componenti istintuali
della sessualità che esistono come pulsioni in modo affatto indipendente dalle zone erogene, e associava la
scopofilia con lo assumere altre persone come oggetti, sottoponendole ad uno sguardo di curiosità e controllo. I
suoi esempi s’incentrano sulle attività voyeuristiche dei bambini, sul loro desiderio di vedere e accertarsi del
privato e dei proibito (curiosità riguardo ai genitali e alle funzioni corporali. di altre persone, riguardo alla
presenza o assenza del pene, e, retrospettivamente, riguardo alla scena primaria). In quest’analisi la scopofilia è
essenzialmente attiva. (In seguito, in Pulsioni e loro destini, 1915, Freud sviluppò ulteriormente la sua teoria della
scopofilia, imputandola inizialmente all’autoerotismo pregenitale, dopo di che il piacere del guardare si trasferisce
sugli altri per analogia. C’è qui un’elaborazione serrata del rapporto fra l’istinto attivo e il suo ulteriore sviluppo in
una forma narcisistica.) Sebbene l’istinto sia modificato da altri fattori, in particolare la costituzione dell’ego,
esso—continua ad esistere come base erotica del piacere nel guardare un’altra persona come oggetto. All’estremo,
può fissarsi in una perversione, producendo voyeurs ossessivi guardoni, la cui unica soddisfazione sessuale può
venire dall’osservare, nel senso di un controllo attivo, un altro oggettivato.
A prima vista, il cinema sembrerebbe ben lontano dal mondo segreto dell’osservazione furtiva di una vittima
ignara e involontaria; quel che si vede sullo schermo viene chiarissimamente. mostrato. Ma la massa della
produzione cinematografica tradizionale, e le convenzioni entro cui si è consapevolmente evoluta, -ritraggono un
mondo ermeticamente chiuso che si svolge magicamente, indifferente alla presenza del pubblico, producendo per
esso un senso di separazione e giocando sulla sua fantasia voyeuristica. Inoltre, l’estremo contrasto tra l’oscurità
in sala (che isola anche gli spettatori l’uno dall’altro), e lo splendore dei mutevoli disegni di luce ed ombra sullo
schermo, contribuisce a favorire l’illusione di una separazione voyeuristica. Anche se il film viene davvero
mostrato, è lì per essere visto, le condizioni di proiezione e le convenzioni narrative danno allo spettatore
l’illusione di gettare lo sguardo su di un mondo privato. Fra l’altro, la posizione degli spettatori nel cinema è una
posizione di repressione eclatante del loro esibizionismo, e di proiezione del desiderio represso sull’attore.
B. Il cinema soddisfa una voglia primordiale di guardate con piacere, ma va anche oltre, sviluppando la scopofilia
nel suo aspetto narcisistico. Le convenzioni dei film tradizionale concentrano l’attenzione sulla forma umana. La
scala, lo spazio, le vicende sono antropomorfici; la curiosità e la voglia di guardate si mescolano con una
fascinazione della somiglianza e dei riconoscimento: il volto umano, il corpo umano, il rapporto tra la forma
umana e ciò che la circonda, la presenza visibile della persona nel inondo. Jacques Lacan ha -descritto come il
momento in cui un bambino riconosce la propria immagine nello specchio sia cruciale per la costituzione dell’io.
Molti aspetti di questa analisi hanno qui una certa importanza. La fase dello specchio si verifica in un momento
in cui le ambizioni fisiche del bambino superano la sua capacità motoria, col risultato che il riconoscimento di su è
apportatore di gioia in quanto egli immagina che la sua immagine rispecchiata. sia più completa, più perfetta,
rispetto all’esperienza che ha del proprio corpo. Il riconoscimento è quindi ricoperto dal misconoscimento:
l’immagine riconosciuta è concepita come il corpo riflesso del sì, ma l’erroneo riconoscimento di una superiorità
proietta questo corpo al di fuori di sé come un io ideale, il soggetto alienato, che, reintroiettato come ideale
dell’io, dà origine alla futura progenie di identificazioni con altri. Il momento dello specchio precede il linguaggio
per il bambino.
Al fini di questo saggio è importante il fatto che sia una immagine a costituire la matrice dell’immaginario, dei
riconoscimento/ misconoscimento e dell’identificazione, e quindi della prima articolazione dell’Io, della
soggettività. È il momento in cui una più antica fascinazione del guardare (il volto della madre, per fare un
esempio evidente) si scontra con gli iniziali sentori della coscienza di sé. E’, quindi, la nascita della lunga
relazione/disperazione amorosa fra immagine e immagine di sé, che nel film ha trovato una così grande intensità,
espressiva, e nel pubblico cinematografico, un riconoscimento così gioioso. A prescindere dalle somiglianze
estrinseche tra schermo e specchio (l’inquadratura della forma umana in ciò che la circonda, per esempio), il
cinema ha strutture di fascinazione abbastanza forti da consentire una perdita temporanea dell’io pur rafforzando,
simultaneamente, l’io. La sensazione di dimenticare il mondo che l’io è in seguito arrivato a percepire (ho
dimenticato chi sono e dove mi trovavo), richiama nostalgicamente quel momento presoggettivo di
riconoscimento dell’immagine. Nel medesimo tempo il cinema si è distinto nella produzione di ideali dell’io; quali
si esprimono in particolare nello « star system », in cui le stars accentrano sia la presenza che la vicenda filmica,
in quanto agiscono un processo complesso di somiglianza e differenza (il glamorous impersona l’uomo comune).
C. Le sezioni IL A e II. B hanno esposto due aspetti contraddittori delle strutture di piacere del guardare, nella
situazione cinematografica convenzionale. Il primo, scopofilo, nasce dal piacere di usare un’altra persona come
oggetto di stimolazione sessuale attraverso la vista. Il secondo, che si sviluppa attraverso il narcisismo e la
costituzione dell’io, deriva dall’identificazione con l’immagine vista. Quindi, in termini filmici, l’uno implica una
separazione dell’identità erotica del soggetto dall’oggetto sullo schermo (scopofilia attiva), l’altro esige
l’identificazione dell’io con l’oggetto sullo schermo tramite la fascinazione dello spettatore e il riconoscimento del
suo simile. Il primo è una funzione degli istinti sessuali, il secondo della libido dell’io. Questa dicotomia per Freud
era cruciale: benché vedesse le due cose come integranti e sovrapponentesi, il contrasto fra pulsioni istintuali ed
autoconservazione continua ad essere una polarizzazione drammatica in rapporto al piacere. Sono entrambe
strutture formative, meccanismi, non significati. In se stessi non hanno alcun significato, debbono essere
agganciate ad una idealizzazione. Entrambe perseguono scopi indifferenti alla realtà percettiva, creando quella
concezione del mondo erotizzata e densa d’immagini che dà forma alla percezione dei soggetto, e si fa scherno
della realtà empirica.
Nel corso della sua storia il cinema sembra aver sviluppato una particolare illusione di realtà, nella quale questa
contraddizione tra libido e io ha trovato un inondo fantastico meravigliosamente complementare. In -realtà il
mondo fantastico dello schermo è soggetto alla legge che lo produce. Gli istinti sessuali e i processi di
identificazione hanno un significato entro l’ordine simbolico che articola il desiderio. Il desiderio, nato con il
linguaggio, consente la possibilità di trascendere l’istintuale e l’immaginario, ma il suo punto di riferimento ritorna
continuamente al momento traumatico della sua nascita: il complesso di castrazione. Quindi lo sguardo, piacevole
nella fornii, può essere minaccioso nel contenuto, ed è la donna come rappresentazione / immagine a
cristallizzare questo paradosso.
III. LA DONNA COME IMMAGINE,
L’UOMO COME SUPPORTO DELLO SGUARDO
A. In un mondo ordinato dalla disparità sessuale, il piacere del guardare è stato scisso in attivo/maschile e
passivo/femminile. Lo sguardo maschile determinante proietta la sua fantasia sulla figura femminile, che è
definita in conseguenza. Nel loro tradizionale ruolo esibizionistico le donne sono simultaneamente guardate e
mostrate, con il loro aspetto codificato per ottenere un forte impatto visivo ed erotico tale da sottintendere che
« si guardi loro il culo ». La donna mostrata come oggetto sessuale è il leitmotiv dello spettacolo erotico: dalle
pinups allo striptease, da Ziegfield a Busby Berkeley, ella sostiene lo sguardo, recita e significa il desiderio
maschile. Il cinema tradizionale combinava armoniosamente spettacolo e narrazione. (Si noti, tuttavia, come nel
musical i numeri di canto e danza rompano il fluire della diegesis). La presenza della donna è un elemento
indispensabile dello spettacolo nel normale film narrativo, eppure la sua presenza visiva tende ad ostacolare lo
sviluppo della vicenda, a congelare il fluire dell’azione in momenti di contemplazione erotica. Questa presenza
estranea deve quindi essere integrata nella coesione narrativa Per dirla con Budd Boetticher (della Hollywood B
Westerns - Eds.):
« Ciò che conta è quel che l’eroina provoca, o piuttosto quel che rappresenta. E’ lei, o meglio l’amore o la paura
che ispira all’eroe, o anche l’interesse ch’egli prova nei suoi confronti, a farlo agire in quella data maniere. In se
stessa, la donna non ha la benché minima importanza ».
(Una tendenza recente nel film narrativo è quella di eliminare del tutto questo problema; donde lo sviluppo di
quello che Molly Haskell ha chiamato il «buddy movie», in cui l’erotismo omosessuale attivo delle figure maschili
centrali può portare avanti la vicenda senza distrazioni). Tradizionalmente, la donna esibita ha funzionato a due
livelli: come oggetto erotico per i personaggi nella vicenda che si svolgeva sullo schermo, e come oggetto erotico
per lo spettatore in sala, con una tensione mutevole fra gli sguardi da un lato e dall’altro dello schermo. Per
esempio, l’espediente della showgirl consente che i due sguardi siano unificati tecnicamente senza alcuna frattura
visibile nella diegesis. Una donna recita nella vicenda, lo sguardo dello spettatore e quello dei personaggi maschili
del film si combinano armoniosamente senza rompere la verosimiglianza. narrativa. Per un attimo l’impatto
sessuale della donna che recita porta il film in una terra di nessuno, al di fuori del suo stesso tempo e spazio. Così
la prima apparizione di Marilyn Monroe in The River of No Return (1954), e le canzoni di Lauren Bacall in To
Have and Have Not (1944). In modo analogo, i primi piani convenzionali delle gambe (la Dietrich, per esempio),
o un volto (la Garbo), integrano nella narrazione un diverso tono di erotismo.
Una parte d’un corpo frammentato distrugge lo spazio rinascimentale, l’illusione di profondità richiesta dalla
narrazione, dà allo schermo una piattezza caratteristica di un «cutout» o di una icona, piuttosto che
verosimiglianza.
B. Una divisione eterosessuale del lavoro, attivo/passivo, ha analogamente controllato la struttura narrativa.
Conformemente ai principi della ideologia dominante e alle strutture psichiche che la sorreggono, la figura
maschile non può portare il fardello dell’oggettivazione sessuale. L’uomo è riluttante a fissare lo sguardo sul suo
simile esibizionista. Quindi la scissione tra spettacolo e narrazione convalida il ruolo maschile di personaggio
attivo che fa progredire la vicenda, fa accadere le cose.
L’uomo controlla la fantasia filmica ed emerge come rappresentante del potere anche in un senso ulteriore: come
supporto dello sguardo dello spettatore, trasferendolo dietro lo schermo a neutralizzate le tendenze
extra-narrative rappresentate dalla donna come spettacolo. Ciò è reso possibile tramite i processi messi in moto
strutturando il film attorno ad una figura principale, di controllo, con cui lo spettatore può identificarsi.
Poiché lo spettatore si identifica con il protagonista maschile1, proietta il suo sguardo su quello del suo simile, del
suo sostituto sullo schermo, cosicché il potere del protagonista maschile nel controllare gli eventi coincide con il
potere attivo dello sguardo erotico entrambi danno una soddisfacente sensazione di onnipotenza). Le
caratteristiche dei glamour di una star maschile sono quindi non u e dell’oggetto erotico dello sguardo, ma quelle
del più perfetto, più completo, più potente io ideale concepito nel momento originario del riconoscimento di
fronte allo specchio. Il personaggio nella -storia può far accadere le cose e controllare gli eventi meglio del
soggetto/spettatore, proprio come l’immagine nello specchio controllava maggiormente la coordinazione
motoria. In contrapposizione alla donna come icona, la figura attiva maschile (l’ideale dell’io dei processo di
identificazione) richiede uno spazio tridimensionale, corrispondente a quello del riconoscimento allo specchio in
cui il soggetto alienato interiorizzava la sua stessa rappresentazione di questa esistenza immaginaria. Egli è una
figura in un paesaggio. Qui, la funzione del film è quella di riprodurre, quanto più precisamente possibile, le
cosiddette condizioni naturali della percezione umana. La tecnica cinematografica (esemplificata in particolare
dalla profondità di campo) e i movimenti di macchina (determinati dall’azione dei protagonista), combinati con il
montaggio invisibile (richiesto dal realismo), tendono tutti a rendere indistinti i limiti dello spazio dello schermo.
Il protagonista maschile è libero di imperare sulla scena, una scena di illusione spaziale in cui egli articola lo
sguardo e crea l’azione.
C.l. Le sezioni III. A e III. B hanno evidenziato una tensione fra un modo di rappresentate la donna nel cinema e
le convenzioni riguardo alla diegesis; l’uno e le altre associati ad uno sguardo: quello dello spettatore in diretto
contatto scopofilo con la forma femminile esibita per il suo godimento (che connota la fantasia maschile), e
quello dello spettatore affascinato dall’immagine del suo si situato in un illusorio spazio naturale, e che tramite lui
acquisisce il controllo e il possesso della donna all’interno della diegesis. (Questa tensione e lo spostamento ad un
polo all’altro possono strutturare un unica testo. Così, sia in Only Angels Have Wings, 1939, sia in To Have and
Have Not, il film inizia con la donna come oggetto dello sguardo combinato dello spettatore e di tutti i
protagonisti maschili dei film. Ella è isolata, affascinante, in mostra, molto connotata sessualmente. Ma, col
procedere della narrazione, si innamora del principale protagonista e diviene sua proprietà, perdendo le
caratteristiche esteriori di glamour, la sessualità generalizzata, i tratti di showgirl; il suo erotismo è soggetto solo
alla star maschile. Per mezzo della identificazione con lui, tramite la partecipazione al suo potere, anche lo
spettatore può indirettamente possederla).
Ma in termini psicoanalitici la figura femminile pone un problema più profondo: allude anche a qualcosa cui lo
sguardo gira continuamente attorno pur rinnegandolo: la sua mancanza di un pene, che implica una minaccia di
castrazione e quindi un non piacere. In definitiva, il significato della donna è la differenza sessuale, l’assenza
visivamente constatabile - del pene, l’evidenza materiale su cui si fonda il complesso di castrazione essenziale per
l’organizzazione dell’accesso all’ordine simbolico e alla Legge del Padre. Così la donna come icona, mostrata per la
sguardo e il godimento degli uomini, cui è dato il controllo attivo dello sguardo, minaccia sempre di evocare
l’angoscia che originariamente significava. L’inconscio maschile ha due strade per sfuggire a questa angoscia- della
ammirazione- la preoccupazione per la ripetizione del trauma originario (investigando la donna, demistificando il
suo mistero), controbilanciata dalla svalutazione, punizione o redenzione dell’oggetto colpevole (una strada
esemplificata dalle inquietudini del film noir); oppure rinnegare completamente la castrazione attraverso la
sostituzione con un oggetto feticistico o la trasformazione in feticcio della stessa figura rappresenta, in modo che
divenga rassicurante anziché pericolosa (donde la supervalutazione, il culto della star). Questa seconda strada. la
scopofilia feticistica, innalza la bellezza fisica dell’oggetto, trasformandolo in qualcosa di soddisfacente di per se
stesso. La prima strada, il voyeurismo, al contrario, ha associazioni con il sadismo: il piacere sta nell’accertare la
colpa (immediatamente associata con la castrazione), ribadire il controllo, e soggiogare la persona colpevole con
la punizione o con il perdono. Questa variante sadica ben si adatta alla narrazione. Il sadismo richiede una storia,
dipende dal far accadere qualcosa. provocando violentemente un mutamento in un’altra persona, uno scontro di
volontà e forza, vittoria/sconfitta; e tutto ciò si deve verificare in un tempo lineare, con un principio ed una fine.
La scopofilia feticistica, d’altro canto, può esistere al di fuori del tempo lineare, poiché la pulsione erotica è
incentrata solo sullo sguardo. Queste contraddizioni e ambiguità possono essere illustrate più semplicemente con
le opere di Hitchcock e di Sternberg, entrambi I quali fanno dello sguardo quasi il contenuto o il soggetto di molti
loro films. Hitchcock è il più complesso, in quanto usa entrambi i meccanismi. L’opera di Sternberg, d’altro canto,
offre molti esempi di pura scopofilia feticistica.
C.2. E’ risaputo che Sternberg una volta disse che sarebbe stato ben felice che i suoi film venissero proiettati
capovolti, in modo che la vicenda e il coinvolgimento nel personaggio non interferissero con lo schietto
apprezzamento dall’immagine sullo schermo da parte dello spettatore. Quest’affermazione è rivelatrice ma
ingenua. Ingenua in quanto i suoi films esigono che la figura della donna (la Dietrich, nel ciclo di films da lei
interpretati, è l’esempio fondamentale) sia identificabile. Ma rivelatrice in quanto mette m evidenza come per lui
lo spazio pittorico racchiuso dal quadro sia, ben più che la narrazione o i processi di identificazione, di somma
importanza. Laddove Hitchcock s’addentra nella variante investigativa dei voyeurismo, Sternberg produce il
feticcio definitivo, portandolo ad un punto tale che lo sguardo potente del protagonista maschile (caratteristico
dei tradizionale film narrativo) s’interrompe e favore dell’immagine in rapporto erotico diretto con lo spettatore.
La bellezza della donna come oggetto e lo spazio dello schermo si fondono; ella non è più la portatrice della
colpa, ma un prodotto perfetto, il cui corpo, stilizzato e frammentato dai primi piani, è il contenuto del film, e
riceve direttamente lo sguardo dello spettatore. Sternberg da poca ’importanza all’illusione di profondità dello
schermo il suo schermo tende ad essere unidimensionale, in quanto luce ed ombra, trine, vapore, fogliame, pizzi,
nastri, ecc. riducono il campo visivo. Vi è poca o nessuna mediazione dello sguardo tramite gli occhi del
protagonista maschile. Al contrario, presenze poco definite come La Bessière in Marocco (1930) fungono da
sostituti del regista, distaccate come sono dall’identificazione del pubblico. Nonostante l’insistere di Sternberg sulla
scarsa importanza delle sue storie, è significativo ch’esse siano impostate sulla situazione, non sulla suspense e su
un tempo ciclico anziché lineare, mentre le complicazioni dell’intreccio ruotano attorno ad un fraintendimento
anziché ad un conflitto. L’essenza più importante é quella dello sguardo maschile che controllo all’interno della
scena filmica. Il culmine del dramma emotivo ne, più tipici films della Dietrich, i suoi momenti sommi di
significato erotico, hanno luogo in assenza dell’uomo che ella ama nella fiction. Ci sono altri testimoni, altri
spettatori, che la guardano sullo schermo, e il loto sguardo è tutt’uno con, non controfigura di, quello del pubblicò
Alla fine di Morocco, Tom Brown è già -scomparso nel deserto quando Amy Jolly scaravento via í suoi sandali
dorati e lo segue.
Alla fine di Dishonored (1931), Kranau è indifferente al destino di Magda. In entrambi i casi, l’impatto erotico,
santificato dalla morte, è mostrato come uno spettacolo per il pubblica. L’eroe maschile fraintende, e,
soprattutto, non vede.
In Hitchcock, al contrario, l’eroe maschile vede precisamente ciò che vede il pubblico. Tuttavia, nei films che
esaminerò qui egli prende a soggetto dei film la fascinazione di un’immagine tramite un erotismo scopofilo.
Inoltre, in questi casi l’eroe raffigura le contraddizioni e le tensioni sperimentate dallo spettatore. In Vertigo
(1958) in particolare, ma anche in Marnie (1964) e in Rear Window (1954), lo sguardo è al centro dell’intreccio,
oscillando tra il voyeurismo e la fascinazione feticistica. Come una distorsione, un’ulteriore manipolazione del
processo normale del vedere, che in un certo senso lo rivela Hitchcock usa il processo di identificazione
normalmente associato con la correttezza ideologica e il riconoscimento della moralità stabilita, e ne svela
l’aspetto perverso. Hitchcock non ha ma! dissimulato il suo interesse per il voyeurismo, cinematografico e non. I
suoi eroi sono esemplari dell’ordine simbolico e della legge - un poliziotto (Vertígo), un maschio dominante che
possiede denaro e potere (Marnie) - ma le loro pulsioni erotiche li conducono in situazioni compromettenti. Il
potere di assoggettare un’altra persona sadicamente alla volontà o voyeuristicamente allo sguardo è rivolto
contro la donna, oggetto di entrambi. li potere è sostenuto dalla certezza d’un diritto legale e dalla colpa
dimostrata della donna (che evoca la castrazione, psicoanaliticamente parlando). Una vera e propria perversione
è appena dissimulata sotto una maschera superficiale di correttezza ideologica - l’uomo è dalla parte giusta della
legge, la donna dalla parte sbagliata. L’abile utilizzazione, da parte di Hitchcock, dei processi di identificazione, e
l’abbondante uso della ripresa soggettiva dal punto di vista del protagonista maschile, attraggono profondamente
gli spettatori nella sua posizione, facendo loro condividere il suo sguardo inquieto. Il pubblico è risucchiato in una
situazione voyeuristica, all’interno della scena e della narrazione che si svolgono sullo schermo, che fa la parodia
della sua stessa situazione nel cinema.
Nella sua analisi di Rear Window2, Douchet assume il film come metafora. del cinema. Jeffries è il pubblico, gli
eventi nell’isolato di fronte corrispondono allo schermo. Quando egli osserva, si aggiunge una dimensione erotica
al suo sguardo, e una immagine centrale al dramma. La sua ragazza, Lisa, ha avuto uno scarso interesse sessuale
per lui, è stata più o meno un peso, fintanto che è rimasta dalla parte dello spettatore. ’Quando attraversa la
barriera tra la stanza di lui e la casa di fronte, la loro relazione rinasce eroticamente. Egli non si limita ad
osservarla attraverso il suo obiettivo come una remota immagine significativa, la vede anche come una colpevole
intrusa, smascherata da un uomo pericoloso che la minaccia di punizione, e quindi alla fine la salva.
L’esibizionismo di Lisa è già stato dimostrato dal suo interesse ossessivo per l’abbigliamento e la moda, nel suo
essere una immagine passiva della perfezione visiva; il voyeurismo e l’attività di Jeffries sono già stati accertati
attraverso il suo lavoro di fotogiornalista, creatore di storie e cacciatore di immagini. Comunque, la sua inattività
forzata, legandolo alla sedia come uno spettatore, lo pone direttamente nella disposizione fantastica del pubblico
cinematografico.
In Vertigo la soggettiva predomina. A parte un unico flashback dal punto di vista di Judy, la narrazione s’intesse
attorno a ciò che Scottie vede o non vede. Il pubblico segue la crescita della sua ossessione erotica e la
disperazione successiva esattamente dal suo punto di vista. Il voyeurismo dì Scottie è evidentissimo: si innamora
di una donna che continua a seguire e spiare senza parlarle. Il suo lato sadico è parimenti evidentissimo: ha scelto
(e scelto liberamente, poiché è stato un avvocato di fama) di fare il poliziotto, con tutte le possibilità connesse di
inseguimento e indagine Il risultato è ch’egli segue, osserva e sì innamora di un’immagine perfetta della bellezza e
del mistero femminili. Una volta che la affronta realmente, la sua pulsione erotica è quella di farla crollare e di
costringerla a parlare, con un interrogatorio serrato. Poi, nella seconda parte del film, reinscena la sua ossessione
per la immagine che amava osservare segretamente. Ricostruisce Judy come Madeleine, la costringe a
conformarsi in ogni dettaglio all’aspetto fisico dei suo feticcio. L’esibizionismo e il masochismo di lei ne fanno un
ideale complemento passivo del voyeurismo sadico attivo dì Scottie. Ella sa di dover recitare la sua parte, e che
soltanto recitandola sino in fondo e poi reinscenandola può conservare l’interesse erotico di Scottie. Ma nella
ripetizione egli la fa crollare e riesce a svelare la sua colpa. La sua curiosità vince ed ella è punita. In Vertigo il
coinvolgimento erotico nello sguardo è disorientante: la fascinazione dello spettatore è rivolta contro di lui,
poiché la narrazione gli fa attraversare, e lo intreccia con, processi che egli stesso sta agendo.
L’eroe di Hitchcock qui è situato saldamente entro l’ordine simbolico, in termini narrativi. -Ha tutti gli attributi
dei super-io patriarcale. Per cui lo spettatore, cullato in un falso senso di sicurezza dalla legalità evidente del suo
sostituto, vede attraverso il suo sguardo e si trova smascherato come complice, avvinto nell’ambiguità morale del
guardare. Lungi dall’essere semplicemente un assolo sulla perversione della polizia, Vertigo si incentra sulle
implicazioni dell’attivo/guardante, passivo/guardato, scissi in termini di differenza sessuale e di potere del maschio
simbolico incapsulato nell’eroe. Anche Marnie recita per lo sguardo di Mark Rutland. e si maschera da
immagine-perfetta-da-guardare; anch’egli è dalla parte della legge, sino a che, trascinato dall’ossessione per la
colpa di lei, per il suo segreto, desidera ardentemente di vederla nell’atto di commettere un delitto, la fa
confessare e quindi la salva. Anch’egli, così, diviene complice, poiché agisce le implicazioni del suo stesso potere.
Controlla il denaro e le parole, riesce ad avere la botte piena e la moglie ubriaca.
IV.
Il background psicoanalitico che è stato esaminato in questo saggio è importante per il piacere e il non-piacere
offerti dal film narrativo tradizionale. L’istinto scopofilo (piacere nel guardare un’altra persona come oggetto
erotico) e, in contrasto, la libido dell’io (che dà forma ai processi di identificazione) agiscono come formazioni,
meccanismi, sui quali questo cinema ha giocato. L L’immagine della donna come materia greggia (passiva) per lo
sguardo (attivo) dell’uomo fa fare alla discussione un altro passo in avanti all’interno della struttura della
rappresentazione, aggiungendo un livello ulteriore richiesto dall’ideologia dell’ordine patriarcale elaborata nella sua
forma cinematografica prediletta - il film di fiction. La discussione ritorna ancora al background psicoanalitico, in
quanto la donna come rappresentazione significa la castrazione, facendo sì che meccanismi voyeuristici o
feticistici circuiscano la sua minaccia. Nessuno di questi livelli interagenti è intrinseco 1 al . film, ma è s tanto
nella forma filmica che essi possono raggiungere una contraddizione perfetta e bella, grazie alla possibilità,’ nel
cinema, di trasferire l’enfasi dello sguardo. È il luogo dello sguardo a definire il cinema, la possibilità di variarlo e
di svelarlo. Ed è ciò che rende il cinema ben diverso, nel suo potenziale voyeuristico, per esempio dallo striptease,
dal teatro, dagli spettacoli ecc. Lungi dal limitarsi a mettere in risalto una donna « a cui si guarda il culo », il
cinema costruisce una maniera di guardarla all’interno dello spettacolo stesso. Giocando sulla tensione tra il film
in quanto controlla la dimensione del tempo (montaggio, narrazione) e il film in quanto controlla la dimensione
dello spazio (mutamenti di piano, montaggio), i codici cinematografici creano uno sguardo, un mondo, un
oggetto, producendo per mezzo di ciò una illusione tagliata su misura per il desiderio. Sono questi codici
cinematografici e il loro rapporto con .le strutture formative esterne che devono essere demoliti prima di poter
sfidare il film tradizionale e il piacere che esso provoca.
In primo luogo (per concludere), può essere demolito lo stesso sguardo voyeuristico-scopofilo che è parte cruciale
del piacere filmico tradizionale. Vi sono tre sguardi diversi associati al cinema: quello della cinepresa che registra
l’evento pre-filmico, quello dei pubblico che osserva il prodotto finale e quello dei personaggi fra loro all’interno
della finzione cinematografica. Le convenzioni del film narrativo negano i primi due e li subordinano al terzo,
poiché il fine cosciente è sempre quello di eliminare la presenza invadente della cinepresa, e di prevenire un
distacco cosciente del pubblico. Senza queste due assenze (la esistenza materiale. del processo di registrazione, la
lettura critica dello spettatore), la finzione scenica non può acquisire realtà, evidenza e verità. Ciò non di meno,
come questo saggio ha tentato di dimostrare, la struttura del guardare nel film di fiction contiene una
contraddizione nelle sue stesse premesse: l’immagine femminile come minaccia di castrazione mette
costantemente in pericolo l’unità della diegesis, ed irrompe attraverso il mondo dell’illusione come un feticcio
invadente, statico e unidimensionale. Così i due sguardi materialmente presenti nel tempo e nello spazio vengono
ossessivamente subordinati alle esigenze nevrotiche dell’ego maschile. La cinepresa diviene il meccanismo per
produrre l’illusione di uno spazio rinascimentale, movimenti fluidi compatibili con l’occhio umano, un’ideologia
della rappresentazione che ruota attorno alla percezione dei soggetto; lo sguardo della cinepresa è rinnegato al
fine di creare un mondo convincente, in cui il sostituto dello spettatore possa recitare con verosimiglianza.
Simultaneamente, allo sguardo del pubblico viene negata forza intrinseca: non appena la rappresentazione
feticistica dell’immagine femminile minaccia di spezzare l’incantesimo dell’illusione, e l’immagine erotica sullo
schermo appare direttamente (senza mediazione) allo spettatore, il fatto della feticizzazione, che nasconde il
timore della castrazione, congela lo sguardo, fissa lo spettatore, e gli impedisce di frapporre una distanza fra sé e
l’immagine che gli sta di fronte.
Questa complessa interazione di sguardi è attributo specifico del film. Il primo colpo contro l’accumulazione
monolitica delle convenzioni del film tradizionale (già avviato dai cineasti radicali) è quello di liberare lo sguardo
della cinepresa nella sua materialità nel tempo e nello spazio, e lo sguardo del pubblico nella dialettica e nel
distacco appassionato. Non v’è dubbio che ciò distrugga la soddisfazione, il piacere e il privilegio dell’« ospite
invisibile », e ponga in risalto la dipendenza del film dai meccanismi del voyeurismo attivo/passivo. Le donne, la
cui immagine è stata continuamente sottratta e usata a questo scopo, non possono vedere il declino della forma
filmica tradizionale con null’altro che un rimpianto sentimentale.
Plaisir visuel et cinéma narratif par Laura Mulvey
L’auteur se basant sur l’analyse lacanienne de l’instinct scopophilique voit dins les représentations dea caractères féminins dans le
cinéma narratif une castration liée à l’effect de rnécanismes voyeuristes et fétichistes.
Pour dépesser les conventions de l’accumulation monolitique dea films traditionnels il faut libérer soit le regard de l’audience vera un
détachement dialecctique, afin que l’image de la fenune ne soit plus usée pour la satisfaction d’exigenees fétichístes, de voyeurisme
actif ou passif.
Ristampato da Screen, 16 n. 3 (Autunno 1975). Questo saggio è una versione rielaborata di una relazione tenuta al French Department
della University of Wisconsin, Madison, nella primavera del 1973, trad. it. di D. Lodi.
1 Ci sono, ovviamente, films con una donna come protagonista. Analizzare qui, in modo serio, questo fenomeno mi porterebbe
troppo lontano. Lo studio di Pam Cook e Claire Johnston su Tbe Revolt of Mamie Stover, in Phil Hardy (ed.), RaouI Walsh,
London (Vineyard Prese) 1974, mostra, in rapporto a un caso singolare, come la forza di questa protagonista femminile sia più
apparente che reale.
2 JEAN DOUCHET, Hitch et son public, « Cahiers du Cinéma », 113 (Nov. 1960), pp. 7-15
Fonte: http://bacheca.lett.unisi.it/master/valentina/livello%20A/di%20cori%20Folder/MULVEY_Piacere%20visivo.pdf
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