Ma quale riforma della giustizia…

Come si fa a spacciare per cambiamenti epocali la suddivisione delle carriere oppure l’istituzione di due Csm od ancora il divieto di andare in appello se l’imputato è stato assolto in primo grado?
Il testo presentato dal Consiglio dei Ministri in materia di giustizia è testimone dell’inaridito e gracile dibattito politico che da anni affligge il nostro paese. A leggerlo bene si prova un profondo senso di preoccupazione. E’ questo il risultato del lavoro di chi mandiamo a Roma per governarci? Suvvia… Il passato ci aveva regalato delle riforme, queste sì, epocali. Mi riferisco al Codice Rocco o alla riforma Gentile.
Le riforme sono ben altra cosa. Sono – per l’appunto – provvedimenti legislativi alla cui base ci deve essere un facondo e ricco dibattito nelle istituzioni e fra queste ultime e la società. Nulla di tutto questo è avvenuto. Si parte, more solito, dal più becero populismo. Il rapporto fittizio fra il capo e il popolo. Popolo utilizzato come mezzo e non fine. Come alibi o strumento, ecco. Mentre in democrazia si parte dall’individuo inteso in maniera singola o aggregata. Ed è lui che ha il coltello dalla parte del manico. Tanto per intenderci.
Dicevamo le riforme… Non solo hanno la necessità di essere un alto momento di sintesi. Rappresentano un qualcosa di ben più corposo e sostanzioso. Esse fungono da “terreno di incontro” fra un modello e un progetto. La c.d. “riforma Alfano” risponde a questi due criteri? Certamente no. Non vi è traccia alcuna di un modello di giustizia credibile. Tanto meno di un progetto, ossia un insieme di fasi programmate per rispondere a quanto richiesto dal modello. Di tutto questo ci si accorge dando una lettura al testo della riforma. Sorge – di conseguenza – una domanda. Qual è il livello di preparazione culturale dei nostri rappresentanti visto la loro acclarata cronica incapacità di progettualità e visione?
Vagliando, poi, il contenuto del provvedimento si rimane sgomenti dalla pochezza delle proposte. Pochezza che ci permette di comprendere il vero motivo della “riforma”. Asservire l’ordinamento giudiziario del nostro paese al potere devastante e tracimante della politica. La legge ordinaria promulgata dal Parlamento, cioè dai partiti o dal potente di turno. Altro non vedo. Come si fa a spacciare per cambiamenti epocali la suddivisione delle carriere oppure l’istituzione di due Csm od ancora il divieto di andare in appello se l’imputato è stato assolto in primo grado? Sono solo pannicelli caldi. Decisioni miserrime. Ci saremmo aspettati un discorso diverso. Di profondità. Di prospettiva. Di rilancio dell’intero comparto della giustizia in Italia.
Le succitate decisioni appaiono figlie di una preoccupante glabra sterilità del mondo politico. Possono essere condivisibili se collocate in seno a una cornice ben più ampia e strutturata. Invece, si tratta di provvedimenti fin troppo essenziali. Giocano in solitario. Liberi da qualsiasi scenario. Simili alla brevità espressiva di un messaggio Sms. Orfani di un modello e di un progetto. Si voleva realizzare un riforma degna di questo nome? Allora bisognava osare di più. Molto di più. Capendo che una riforma “alta” della giustizia dovesse rappresentare una delle architravi su cui basare il rilancio di una paese allo sbando e allo stremo.
Le vere questioni dovevano essere le seguenti.
Il modello della giustizia in Italia ha da essere “positivo” o “negativo”? Cioè permettere o sancire. Sembra una domanda inutile, ma dalla sua risoluzione discendono parecchi addentellati di estrema importanza.
Non si è riflettuto sul ruolo della giustizia in una società così complessa e spezzettata come quella italiana.
Si è accuratamente evitato di rivedere i reati civili, penali e amministrativi alla luce delle profonde trasformazione intervenute nella società italiana di questi ultimi decenni.
C’è traccia di una rideterminazione dei distretti giudiziari in modo da renderli funzionali alle nuove sfide?
Constato un’afasia generalizzata sui fenomeni di corruzione e dei reati finanziari in grado di indebolire l’equilibrio sociale dell’Italia. Medesima afasia che registro per i reati collegati all’associazione mafiosa.
Che dire poi della riformulazione delle misure alternative al carcere? Del tutto assenti nel provvedimento varato dal Governo.
Che ruolo devono avere le figure c.d. “atipiche” del sistema giustizia? Mi riferisco ai giudici di pace e ai giudici onorari.
Non si è pensato minimamente attivato una riformulazione delle procedure per rendere sincretica la macchina della giustizia alle richieste di rapidità e di internazionalizzazione della sua operatività.
Il discorso sugli investimenti nel comparto sono stati del tutto disattesi. Non si parla di infrastrutture e di personale. Eppure sono le infrastrutture efficienti e un personale motivato che fanno muovere un sistema.
Nessun accenno alla questione delle risorse finanziarie per assicurare un’ottimale efficienza al sistema. Mica si crede che le infrastrutture costino un nulla e che il personale lavori in modo volontario?
Alla fine della lettura del testo della “riforma” si avverte un persistente senso di amarezza. Come se la politica, conscia del proprio impresentabile stato, avesse deciso di optare per la simulazione della decisione piuttosto per il decidere. Ciò per rispondere – qui c’è il progetto – a un disegno di indebolimento generalizzato dello Stato al fine di asservirlo agli interessi “particolari” di un singolo o di una fazione. Ricordo, e mi avvio alla conclusione, che per il Kelsen la norma giuridica, sciolta da qualsiasi altrui dipendenza, si connaturasse per un carattere di totale e assoluta autonomia. Autonomia garanzia per un effettivo stato di diritto.
Abbiamo accluso copia del Disegno di Legge così come presentata giovedì undici marzo dal Presidente del Consiglio Berlusconi e dal Guardiasigilli Alfano in sede di conferenza stampa.
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