Le interpretazioni di Giordano Bruno

a cura di Maurizio Pancaldi

di Pina La Villa - giovedì 6 dicembre 2007 - 3795 letture

Maurizio Pancaldi Per una storia delle interpretazioni di Giordano Bruno

Ben pochi autori sono stati interpretati sulla base di criteri estrinseci e ideologicamente condizionati quanto Giordano Bruno. Infatti, la sua complessa personalità e la sua drammatica vicenda sono stati spesso oggetto di identificazioni e proiezioni storiche che ne hanno impedito una corretta valutazione ed una oggettiva determinazione, fino a renderne del tutto irriconoscibili i tratti. La sua opera è stata più considerata sotto il profilo simbolico che effettivamente studiata, tanto che i dibattiti attorno a lui sono risultati in genere funzionali a polemiche occasionali, e raramente finalizzati all’accertamento sereno del reale spessore delle sue idee.

Già nel Seicento la sua figura diventa simbolo del pensiero moderno ateo e materialistico, che respinge gli errori e le superstizioni del passato per annunciare una visione più aperta e razionale della natura e della vita. Come tale viene, a seconda delle prospettive di parte, esaltato o esecrato, quasi mai criticamente analizzato. Così in Francia, nel periodo che segue la morte di Enrico IV, Bruno è coinvolto nell’offensiva antilibertina ed il suo nome associato a quello di Cartesio a proposito della teoria dei vortici. Al contrario, nel clima di tolleranza instauratosi in Inghilterra dopo la rivoluzione del 1689 e nel generale fermento culturale che favorisce la ricerca scientifica, il suo nome diventa sinonimo di libertà di pensiero e di antidogmatismo: significativo è l’apprezzamento espresso da un autore così particolare ma anche così rappresentativo del movimento dei liberi pensatori come J. Toland, che ne avverte profonde affinità tematiche e sintonie concettuali.

Nel corso del Settecento le polemiche sui temi religiosi ed etici non si placano, questa volta associate al nome di Spinoza. E’ P. Bayle a collegare il filosofo di Amsterdam con il Nolano sul tema di una visione panteistica giudicata assurda per le sue implicazioni deterministiche e negatrici dell’autonomia dell’individualità. Altri (ad esempio il Brucker) cercheranno di distinguere le due posizioni individuando affinità con Leibniz: di Bruno viene fornita una interpretazione spiritualistica e religiosizzante, moderata e privata delle posizioni più acute e originali contenute nelle opere italiane che rimangono sconosciute. Malgrado questi limiti, egli viene a pieno titolo inserito nella filosofia moderna di cui è considerato esponente di rilievo.

Anche nella cultura romantica l’interesse per i temi dell’infinito e del panteismo consente di mantenere l’associazione tra Bruno e Spinoza: se la concezione di quest’ultimo appare più inclinata in senso ateo, quella del primo assume tinte spiritualistiche a sfondo irrazionalistico. Così in particolare F.H. Jacobi nelle "Lettere sulla dottrina di Spinoza" del 1785. Malgrado l’interpretazione hegeliana avesse evidenziato i motivi razionalistico-dialettici (Bruno avrebbe ridotto la realtà a vivente movimento di concetti, avvicinandosi a comprendere la radice razionale del tutto), è soprattutto Schelling ad accreditare, dopo quelle del secolo precedente, una immagine irrazionalistica: nel dialogo giovanile "Bruno o del divino nella natura" (1802), sullo sfondo della polemica antifichtiana, egli oppone al naturalismo spinoziano lo spiritualismo di Bruno, che avrebbe compreso come finito e infinito siano l’uno accanto all’altro entro l’assoluto. L’identità di Dio e natura costituirebbe allora un momento intermedio nel processo che vede circolarmente Dio farsi uomo e gli uomini farsi Dio. Questa linea interpretativa antirazionalistica viene mantenuta durante la reazione antihegeliana in Germania nel corso della quale Schelling espone a Berlino la sua filosofia positiva dai caratteri fortemente teistici.

Questa impostazione ermeneutica, mentre riconferma l’inserimento di Bruno nel processo di formazione della filosofia moderna, risulta di particolare rilievo perché è quella che viene accolta in Italia: paradossalmente Bruno rientra nel suo paese sotto l’egida del moderatismo filosofico e dell’irrazionalismo idealistico di matrice schellinghiana. In questo panorama si segnala T. Mamiani che scrive una prefazione alla traduzione del "Bruno", sostenendo, in funzione antispinoziana, una visione spiritualistica: Bruno avrebbe asserito non che Dio è nel mondo ma che il mondo è in Dio. Il panteismo verrebbe così riabilitato in quanto Dio costituirebbe il fondamento del mondo.

Nel clima politico e culturale della borghesia ottocentesca con le sue convinzioni anticlericali e liberali, l’interpretazione moderata si consolida affrontando il tema dei rapporti tra filosofia e libertà religiosa: di questa tendenza l’esponente più autorevole è F. Tocco. Profondo conoscitore della vita e delle opere di Bruno (il suo lavoro più notevole è "Le opere latine di Bruno confrontate con le italiane", Firenze 1889), egli intende scagionare Bruno dall’accusa di eresia presentandolo come un testimone dell’esigenza della libertà dello spirito, un razionalista che mira ad interpretare senza imposizioni autoritarie i dogmi religiosi. Dunque Bruno viene intrepretato in climi storici a lui estranei che gli impongono temi, problemi e impostazioni teoretiche in modo del tutto estrinseco. Così se da un lato è presentato quasi fosse un sincretista platonico cristiano, spiritualizzato attraverso l’influenza di Cusano e Ficino, dall’altra si giunge fino a farne il precursore delle teorie evoluzionistiche.

Tuttavia esiste un altro filone interpretativo, molto più corretto e fecondo, che intende rovesciare la posizione spiritualistica attraverso la comprensione del nesso tra la filosofia di Bruno e la storia sociale, politica e culturale dell’Italia. Si tratta di una sorta di linea maestra che collega B. Spaventa ad A. Labriola. Il primo in particolare, mediante la riscoperta dei maggiori autori italiani del Rinascimento e della loro influenza sulla cultura europea, intende offrire alla borghesia liberale il terreno più sicuro per ritrovare la migliore tradizione ed identità culturale nazionale esaltata dal contatto con il più evoluto e maturo pensiero occidentale. Del pensiero di Bruno Spaventa coglie soprattutto il nesso tra metafisica della mente e moralità, nel senso che prima di Cartesio egli evidenzia il fondamento dell’etica sulla ragione nella sua assolutezza e necessità: l’autorità è interna, è l’essenza della coscienza stessa. Ma la ragione, principio del sapere e del fare, è la stessa cosa di Dio e la natura: in tal modo emerge la progressiva esposizione della necessità dell’uomo e il significato del lavoro che mentre ci riconcilia con la natura viene a costituire il senso intrinseco della vita umana. Dunque nell’interpretazione spaventiana la metafisica della mente, che è espessione dell’infinito, si traduce in una filosofia dell’immanenza esaltante la dignità umana nella sua dimensione naturale e operativa.

Data la sua formazione marxista, A. Labriola non accetta queste conclusioni anche se è disposto ad utilizzarle come punto di partenza per collegare il naturalismo cinquecentesco italiano ai dibattiti scientifici e sociali dell’Europa moderna. Egli vede Bruno sullo sfondo della decadenza economica e politica dell’Italia di fronte al progredire dei moderni stati europei (Francia e Inghilterra in particolare) che egli aveva potuto osservare da vicino durante i suoi soggiorni. I contrasti d’ idee (copernicanesimo contro aristotelismo, filosofia contro religione, sapienza contro ignoranza ecc.) rappresentati nei dialoghi e nelle opere latine sono espressione di quei contrasti sociali che travagliano la storia del nostro paese in un’ epoca di transizione. Rispetto ad essa Bruno, secondo questa prospettiva ermeneutica, avrebbe ricoperto una funzione anticipatrice storica oltrechè culturale: merito di Labriola è di aver liberato Bruno dalla terminologia teologica e di aver scoperto la storia dentro il divenire della natura. Tuttavia le sue indicazioni pur così stimolanti per una lettura più appropriata del pensiero di Bruno, non riceveranno uno svolgimento adeguato: al contrario si può assistere, nella prima metà del nostro secolo, ad una involuzione che riporta l’attenzione sul piano spiritualistico e avvalla il mito di in interesse religioso da parte di Bruno. Su questa linea si collocano i volumi di J.R. Charbonel ("L’ethique de G.B. et le deuxiéme dialogue du Spaccio", Paris 1919), di A. Guzzo ( "I dialoghi di Bruno", Torino 1932, secondo il quale Bruno avrebbe sostenuto una sofferta interiorità dell’esperienza religiosa e una filosofia degna dell’infinità di Dio) e di A. Corsano ( "Il pensiero di G. B. nel suo sviluppo storico", Firenze 1940, che presenta Bruno come un riformatore religioso teso alla evoluzione e al riconoscimento della dignità etico religiosa di tutti gli uomini).

Ma gli studi su Giordano Bruno in questo arco di tempo sono dominati dalla interpretazione di Giovanni Gentile esposta in una conferenza del 1907 (rielaborata e inserita nel volume "Il pensiero italiano del Rinascimento", Firenze 1968, XIV, alle pp. 261-310). Per il teorico dell’attualismo il Nolano fu essenzialmente uno spirito contemplativo, animato esclusivamente dall’amore per l’eterno e il divino; perciò fu alieno dalla pratica e disattento verso le cose che gli stavano attorno: estraneo a tutte le chiese (ai riformati parve cattolico, ai cattolici riformato), sentì profondamente la sua solitudine, vivendo in prima persona la sovramondanità della filosofia. In quanto eroico furore, essa per Bruno si collocava su una dimensione mistica, nel senso di un’ elevazione razionale al divino il cui spirito viene realizzato nell’individuo che se ne dimostra capace. La verità filosofica è dunque solo per i filosofi, e Bruno non la espose né al tribunale né al volgo; ma proprio questa coscienza aristocratica del pensiero doveva consentire l’apertura ad una visione positiva della religione e favorirne l’azione per i suoi scopi pratici e civili. Se lo stato è sostanza etica, "non c’ è legge, non c’ è stato senza religione", afferma Gentile in scoperta polemica contro radicali e socialisti. Se da un lato è evidente che stato e filosofia concepiscono diversamente questa sostanza, dall’altro è altrettanto chiaro che negarla significa distruggere lo stato e dissolvere la legge. Certo Bruno con la sua verità eterna si pone al di fuori della storia, e quindi anche del conflitto tra clericali e liberi pensatori che sono partiti pratici; tuttavia non c’è legge che non sia assoluta e non sia pertanto anche religione. Bisogna naturalmente separare la legge, la religione e lo stato dei filosofi da quelli del popolo; ma lo stato senza religione non può sussistere, quindi lo stato del popolo non può essere scisso dalla religione del popolo. Data la loro natura essenzialmente pratica, tutte le religioni si equivalgono in quanto tutte sono contingenti : in ciò si differenziano dalla filosofia che, quale momento ideale dello spirito, non può mai trasformarsi in una condizione storica effettiva ed empiricamente determinata. Questo spiega le repentine conversioni di Bruno al calvinismo, al luteranesimo, al cattolicesimo: non si tratta di opportunismo, ma della matura convinzione che la vita pratica in una comunità politica implica anche l’accettazione della sua legge e della sua religione. Esse possono essere criticate in astratto, ma debbono essere obbedite in concreto: se l’interesse pratico è preminente rispetto a quello teorico, Bruno combatte i teologi che portano con le loro dispute discordie, guerre, divisioni. Ma quando decide di rientrare in Italia, allora si genuflette poiché il cattolicesimo è legge civile e morale di questo paese. L’atto di obbedienza fatto a Venezia non è dunque quello del filosofo, ma dell’uomo con i suoi bisogni pratici di pace e di inserimento sociale; egli non rinuncia alla sua filosofia, ma non la difende neppure perché il tribunale dell’inquisizione è solo un istituto pratico e non un’accademia o un’università. Non avrebbe avuto senso discutere di materia dogmatica con i giudici, mentre era del tutto coerente accettare per motivi pratici (non di debolezza) i dogmi religiosi del paese in cui aveva deciso di vivere. Ma quando a Roma si pretese da lui una ritrattazione oltre il segno fino al quale aveva ritenuto di potersi spingere (cioè quando gli si impose l’abiura della sua filosofia), allora Bruno fu inflessibile e accettò serenamente la morte. Distinguendo tra verità filosofica e fede religiosa, chiedeva una libertà di pensiero senza ingerenze teologiche: per questo riconoscimento, che sperava di ottenere dal Papa, era disposto a concedere la propria sottomissione all’autorità ecclesiastica, confessando anche i propri errori di ordine morale e teologico. Però non avrebbe mai potuto rinunciare a quella verità filosofica a cui si era elevato e con cui si identificava in modo totale.

Nella prospettiva gentiliana Bruno rappresenta la conclusione logica del Rinascimento con le sue oscillazioni e le sue contraddizioni, prima tra tutte quella consistente nel distruggere l’antica concezione della realtà ma non il suo fondamento trascendente: di qui i germi della decadenza, la falsità di un intero mondo che Bruno avverte e denuncia. Anch’egli tuttavia non nega la trascendenza limitandosi a trasformarla in quella "mens insita omnibus" che è la Natura. Mancando il concetto di Spirito quale assoluto immanente, essa presuppone necessariamente, secondo Gentile, un Dio esterno, una "mens supra omnia" quale suo fondamento. Una volta ammessa questa verità ultramondana, è agevole cogliere l’importanza della religione, la cui legittimità consiste nel margine lasciato dalla filosofia nella conoscenza della verità. Ma se la verità della filosofia suppone e conferma una verità più alta, quella religiosa, allora la condanna al rogo non risulta intrinsecamente conseguente a questa dottrina? Non era stato lo stesso Bruno ad ammettere la necessità della legge e il suo fondamento nella religione? Se una filosofia combatte la religione è pericolosa e il suo autore deve essere condannato perché così impone la legge. Accettando queste premesse, la condanna a morte risulta legittima, anche se Bruno, non cosciente della contraddizione di cui lui stesso è portatore, attraverso di essa mostra l’ impossibilità di una conciliazione tra l’antica concezione del mondo e le esigenze del pensiero moderno. Quest’ ultimo riconosce la libertà di pensiero come fatto storico e la necessità di realizzare il divino immanente al mondo nella legge della coscienza e dello stato . La morte di Bruno è dunque il martirio per la fede nell’uomo nuovo, conclusione e correzione inveratrice della sua filosofia.

Gli studi del dipoguerra (nel complesso opere di carattere generale e di sintesi complessiva quali A. Corsano "Il pensiero di G.B. nel suo svolgimento storico" Firenze 1938, L. Cicuttini "G.B." Milano 1951, A. Guzzo "G.B." Torino 1960) sono tesi a liberare la filosofia di Bruno non solo dai condizionamenti ottocenteschi (Bruno martire del libero pensiero e teorico del laicismo) ma anche da quelli dell’attualismo gentiliano e dello spiritualismo cattolico. Sotto questo profilo il libro di N. Badaloni "Il pensiero di G.B." (Firenze 1955, rielaborato alla luce della critica più recente e ripresentato col titolo "G.B. : tra cosmologia ed etica", Bari 1988) costituisce una vera e propria svolta, perché offre una lettura dell’opera del Nolano finalmente restituita ai suoi legami con il pensiero moderno e riconosciuta nei suoi aspetti più innovatori. Sgombrato il campo da tutti i tentativi di imporre a Bruno interessi teologici o religiosi di qualunque tipo, si insiste soprattutto sugli interessi naturalistici (che ovviamente non potevano non scontrarsi polemicamente con le credenze e i modi di vita del mondo circostante) e sulle diverse matrici del suo pensiero che tuttavia si evolve all’interno dell’aristotelismo per arricchirsi e ampliarsi con l’innesto di altre fonti. Avremmo così l’evoluzione da un iniziale averroismo verso una concezione dell’infinito prima formulata in termini atomistici poi in termini neoplatonico-anassagorei. Detto altrimenti, Bruno avrebbe cercato in una natura intesa in termini di infinità e di mutevolezza continua quei fattori di costanza che la rendessero intelligibile. Le idee platoniche (private del loro aspetto finalistico) non sarebbero altro che lo stesso mondo sensibile colto nei suoi aspetti di costanza ed eternità, mentre senso e intelletto costituirebbero due modi di intendere la stessa realtà fisica la cui visione non è data da una scienza matematica ma da una penetrazione metafisica che coglie il movimento unitario del tutto. Mantenendo il pregiudizio che l’ordine delle cose sia riproducibile nel pensiero, la novità della sua filosofia consiste nella collocazione di un mondo di forme, attraverso cui passa il divenire delle cose, nell’universo infinito: quest’ultimo è segnato dal prendere forma di un’infinita materia che segue un ordine costante (e l’arte della memoria non è che lo strumento mentale per riuscire a rappresentare l’universo in una immagine riassuntiva che si basa sull’innesto delle idee nella natura). Dio è la forza vivificante delle cose, il sigillo della costanza dell’universo e della sua continua creatività. E qui Badaloni può definire la posizione di Bruno rispetto alla scienza moderna: certo la sua è ancora una posizione speculativa, filosofica, per tanti aspetti espressione di una fase di transizione, ma portando a precisazione la moderna visione del mondo, egli finisce per condizionare e influenzare la nuova ricerca scientifica. La scoperta dell’infinito (che è realtà materiale) agita e sommuove i concetti scientifici tradizionali: nella misura in cui Bruno identifica la nuova cosmologia eliocentrica con l’antica filosofia della natura di cui vuole la rinascita, quest’ultima assume un significato moderno e attuale, implicando anche la liberazione dalle superstizioni e dalle sofisticherie. In questo senso deve essere interpretato l’interesse di Bruno per la magia: posto che la scienza possiede un interesse pratico di di liberazione umana, essa si configura come ricerca oggettiva delle cause della natura e non come supposti poteri del soggetto, come anticipazione di un fatto singolo di fronte ad una sollecitazione determinata. La magia non è capacità di operare miracoli ma spiegazione del perché si ripetono certi eventi e di come sia possibile utilizzarli come vincoli. Essa spiega come sia possibile vincere con determinati simboli o atti l’animo dell’uomo facendo udire a ciascuno il richiamo dello spirito corporeo universale.

Anche la riflessione etica di Bruno viene presentata da Badaloni in continuità con quella sulla natura e quindi liberata da tutte le interpretazioni spiritualistiche che vedono la fonte dell’etica nel contatto con Dio cui tutto si subordina. Badaloni mostra come questa visione sorga dall’aver equivocato il senso del termine "divino" che Bruno impiega in senso metaforico per indicare la costanza del tutto che è oggetto di comprensione intellettuale: divina è allora la stessa coscienza del reale. Il raccogliere il reale nella mente corrisponde al carattere divino dell’uomo in quanto la mente ci dà modo di rispecchiare in forme costanti l’infinita mutevolezza delle cose. La moralità si fonda dunque sul pensare, che consente un legame con la razionalità e la vita. La contemplazione intellettuale, in cui consiste la più alta forma di moralità e alla cui elevazione Bruno richiama, significa intendere più a fondo l’oggettività delle cose e approfondire la tendenza più nascosta del nostro essere, orientando i nostri impulsi verso l’unità con la natura poiché l’intelletto è la natura stessa vista nel suo nocciolo di eternità e costanza che sta alla base del mutamento. Respingendo l’ascetismo cristiano, Bruno apprezza la religione antica, e particolarmente quelle egizia anche se egli è ben lontano da volerla riesumare e sostituirla al cristianesimo (come pretenderà la Yates). Il problema della libertà dell’uomo nasce dall’intuizione della costanza dell’essere nella sua infinitezza e l’intelligenza è condizione di libertà. La moralità sta nel dominio del transeunte raggiunto attraverso la percezione del permanere della sostanza al di là del nascere e del morire delle cose: in questa coscienza del divenire universale consiste, secondo Badaloni, la storicità (non lo storicismo) del pensiero di Bruno. Ne deriva una complessa problematica sociale e politica cui Badaloni, lungo la linea tracciata da Labriola, dedica ampio spazio così come, in generale, al rapporto di Bruno con il suo tempo. Anche il mondo sociale rispecchia questo aspetto di mutevolezza naturale: infatti, intesa la necessità del tutto, il movimento incessante delle cose nel suo significato reale, l’uomo è in grado di cogliere il vero significato delle vicende del mondo sociale. Amando il movimento, la conservazione e la vitalità del tutto, può tendere al mantenimento del corpo sociale che è lacerato all’interno dalle singole volontà. Di qui la valorizzazione delle attività volte a questo fine, compresa la religione, mentre la virtù suprema è perfezione del proprio e altrui intelletto al servizio della comunità. Anche le religioni possono contribuire a conservare e rafforzare i legami sociali e vanno bandite solo quando diventano strumento di divisione sociale. Al principe tocca creare una situazione di pace sociale e di convivenza che implichi un diritto comune: entro questo quadro può svolgersi la lotta per la ricerca della fortuna che alterna le sorti dei singoli, senza che ciò si svolga in un clima distruttivo. Badaloni sottolinea come questo orientamento sia stato suggerito a Bruno dalle sue esperienze nei paesi più avanzati dell’Europa moderna: egli ha potuto apprezzare la politica di Enrico III e di Elisabetta I che hanno impostato la convivenza civile su basi razionali e naturali. Dunque Bruno sarebbe cosciente delle trasformazioni del mondo moderno, come è testimoniato dall’apprezzamento del lavoro che apre ad un rapporto dinamico tra uomo e natura ma anche alla trasformazione dei rapporti sociali e di proprietà. Ne deriva il riconoscimento del ricambio necessario dei ceti dirigenti (la cui mancanza aveva potuto constatare a Napoli) da ricercarsi negli strati più alti della società (e qui si può giustificare chi, come l’Ogiati, ha parlato di aristocraticismo bruniano, notando la frattura con le masse popolari). In ogni caso Badaloni evidenzia la modernità di Bruno che si esplica nell’accettazione delle fratture sociali (con il conseguente abbandono delle ideologie gerarchico-feudali), della nuova struttura del principato (liberato dalle concezioni feudali del sovrano) e della funzione della legge. E’ secondo natura, che è continuo mutare di forme, assecondare il nuovo che avanza e cambia il mondo: perciò si deve lasciare posto all’iniziativa del singolo e alla circolazione della ricchezza. La natura non è Provvidenza ma Fortuna che dà a ciascuno la sua sorte: essa si offre a tutti, anche se non tutti sono capaci d’ afferrarla. Perciò Bruno, che non è al di sopra delle parti ma è dalla parte dell’avvenire e del progresso, approva un ordine politico non egalitaristico ma fondato sulla divisione di gradi raggiunti con l’abilità e sull’impero della legge, in base al principio "natura sit rationi lex, non naturae ratio". Questo atteggiamento generale giustifica, secondo Badaloni, anche la vicenda personale di Bruno che da Venezia, città moderna con un governo fondato sulla legge (tra l’altro Venezia era stato il primo stato cattolico a riconoscere la monarchia di Enrico IV), voleva seguire più da vicino la politica antispagnola di Enrico IV (in cui sarebbe stata coinvolta anche l’Italia) e prendere contatto con Clemente VIII, papa antispagnolo, in vista di un suo rientro in seno alla Chiesa cattolica e alla corte francese. La situazione sembrava volgere al meglio, profilandosi un accordo tra Francia e Papato che avrebbe portato ad un clima più tollerante e ad un allentamento del controllo censorio imposto agli intellettuali, cui avrebbe dovuto essere lasciata libertà di pensiero come guide politiche dei popoli. Ma egli si illuse sulla disponibilità della Chiesa e accettò la morte non volendo divenire meno alle sue convinzioni, peraltro perfettamente accertate dagli inquisitori.

Nel 1964 compare una monografia destinata a modificare radicalmente l’immagine di Bruno e ad influenzare per molto tempo gli studi e le interpretazioni del suo pensiero. Si tratta dell’opera di F. A. Yates "G.B. e la tradizione ermetica" ( trad. it., Bari 1969) La studiosa, membro del Warburg Istitute di Londra e già nota per alcuni saggi bruniani sullo sfondo della cultura inglese tra ’500 e ’600 (raccolti in volume e tradotti col titolo "G.B. e la cultura europea del Rinascimento", Bari 1988), propone una nuovo paradigma ermeneutico alla luce del quale leggere l’intera opera di Bruno e, più in generale, intendere il significato del Rinascimento. L’ermetismo viene così descritto nei suoi contenuti, colto nelle sue origini e seguito nei suoi sviluppi nell’ambito della cultura umanistica. In particolare viene messo in risalto il tema della magia, il suo inserimento in un quadro filosofico di stampo neoplatonico, la sintesi conciliativa con la tradizione cabalistica e soprattutto con la religione cristiana che viene realizzata del platonismo fiorentino nella seconda metà del Quattrocento. La Yates analizza, da questa prospettiva, l’opera di Marsilio Ficino, di Pico della Mirandola, di Cornelio Agrippa, ricostruendo l’intensa trama di collegamenti e di influenze nella cultura inglese e francese del Cinquecento fino a sostenere la derivazione della scienza moderna dalla magia rinascimentale. Giordano Bruno si collocherebbe allora al termine di questa tradizione di pensiero di cui trarrebbe le implicite ed estreme conseguenze: infatti, se Ficino e Pico avevano accolto i temi ermetici con estrema cautela e moderazione per non giungere a collisione con l’ortodossia religiosa, Bruno esige un ritorno esplicito e radicale alla religione egizia ed alla pratica della magia in senso nettamente pagano. Durante il suo soggiorno parigino prima e londinese poi, Bruno ha insegnato dunque la filosofia di Ermete Trismegisto, la prisca sophia di cui egli intende essere il reastauratore, alla cui luce ha letto anche il copernicanesimo e da cui ha tratti tutte le implicazioni sul piano etico e religioso. "La visione che viene elaborata dal Nolano è una nuova interpretazione ermetica della divinità dell’universo, una gnosi sviluppata. Il copernicanesimo annuncia il risorgere vittorioso dell’antica verace filosofia dopo il lungo periodo in cui era rimasta sepolta nelle tenebre. (..) La verità bruniana non è né quelle cattolica ortodossa né quella protestante ortodossa: è la verità egiziana, quella magica. (..)Bruno ha compiuto l’ascensione gnostica, ha vissuto l ’esperienza ermetica ed è pertanto divenuto un essere divino imbevuto delle Potestà [cioè dei poteri magici]". L’universo "viene trasformato da Bruno in una gnosi ermetica profondamente allargata, in una nuova rivelazione di Dio come mago che infonde una magica animazione nei mondi innumerevoli, in una visione, infine, per ricevere la quale, l’uomo mago, miraculum megnum, deve dilatarsi a proporzioni infinite per poterla riflettere in sè".

La figura di Bruno risulta centrale in un’ altra opera della Yates dedicata a "L’arte della memoria" (trad. it., Torino 1972), argomento apparentemente marginale ma che invece costituisce il crocevia di numerosi fili tematici che ancora una volta fanno capo alla cultura ermetica con tutti i suoi risvolti cosmologici, magici e gnoseologici (e non si dimentichi che Bruno aveva insegnato mnemotecnica a Parigi e che per l’apprendimento di quest’arte il Mocenigo l’aveva chiamato a Venezia).

L’opera della Yates ha avuto un’eco amplissima e non si può negare che gran parte della saggistica a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta sia stata in una qualche misura influenzata dalla sua prospettiva, che, come e stato notato, ha il merito di aver collocato Bruno all’interno di tradizioni culturali in precedenza trascurate, reagendo in tal modo a schemi interpretativi ormai consunti. Essa tuttavia non ha scoperto ma ha utilizzato in modo forte e originale la chiave ermetica fino a incidere sulla discussione sulla scienza moderna e sul rapporto scienza-magia. Sul piano dei contenuti si può dire che si sia riallacciata alle ricerche di E. Garin, che a questi temi ha dedicato molti studi. Tra questi bisogna ricordare le notevoli "Considerazioni sulla magia" (comprese nel volume "Medioevo e Rinascimento", Bari 1954) dove già si sostiene il carattere operativo della magia ed il suo costante appello all’esperienza quali fattori decisivi per la formazione dello spirito scientifico moderno; "La rivoluzione copernicana e il mito solare" (nel volume "Rinascite e rivoluzioni", Bari 1975), dove si sostiene la tesi che "appunto perché la veduta di Copernico importa una concezione diversa delle cose, non può scaturire se non da una diversa filosofia", quella che lo studioso italiano ricostruisce studiando i testi del platonismo rinascimentale; ed infine "Lo zodiaco della vita" (Bari 1976) che ripercorre le fasi salienti della polemica sull’astrologia tra Trecento e Cinquecento toccando punti estremamente interessanti quali i rapporti tra astrologia e magia e quelli tra neoplatonismo ed ermetismo. Anche se Garin non si è mai occupato specificamente di Bruno, tuttavia i suoi saggi sondano il clima culturale ed il tessuto di idee in cui è cresciuto ed ha operato il Nolano confermando ed approfondendo il quadro delineato dalla Yates.

Tra gli studi emersi lungo il solco tracciato dalla studiosa inglese spicca il libro di H. Védrine "La conception de la nature chez G.B." (Paris 1967), che comunque si collega anche al lavoro di Badaloni, più volte citato. La tesi sostenuta è che Bruno appartenga integralmente al naturalismo rinascimentale e quindi in lui sia dominante la concezione animistica: la sua metafisica consiste nel mostrare la presenza dell’uno nel molteplice attraverso la nozione centrale dell’anima universale. Insistendo sull’unità dell’universo, egli getta le basi di una concezione monista che può essere considerata anche uno spiritualismo assoluto. Certo la presenza delle nozioni di anima, forma e divinità nonché il privilegio accordato in sede morale ad una eternità situata al di là di tutte le percezioni a discapito del divenire, escludono l’accusa di materialismo. Piuttosto il primato della materia incorporea (Bruno rifiuta l ’identificazione, tipica di questo periodo segnato dal rigorismo sia riformato che cattolico, di materia con peccato e vizio) conduce Bruno a identificare la sostanza con una eternità attuale, identica a se stessa e perpetuamente creatrice. Non avendo mai superato l’orizzonte dell’animismo (e del conseguente pampsichismo), è facile capire il recupero dell’ermetismo da parte di Bruno che concepisce la filosofia come ricerche di corrispondenze simpatetiche e quindi il conseguente sfociare nell’apprezzamento della magia. Quest’ultima consente di esercitare degli influssi che trasformano la natura mediante il ruolo taumaturgico dell’immaginazione che sa esercitare un benefico effetto sui corpi estrerni (e non c’è bisogno di evidenziare come l’arte della memoria si fondi proprio sulla forza delle immagini). Da questo punto di vista la Védrine polemizza con chi applica al pensiero di Bruno categorie moderne (il ’600 sottolineerà le sue insufficienze scientifiche, l’’800 lo riabiliterà ma solo sulla base di equivoci, il ’900 cade spesso da un eccesso all’altro): la sua cultura è esclusivamente fissata sul passato sia per gli strumenti sia per il sistema di referenze, tutta riassorbita nel mondo rinascimentale (e se si pone dei problemi moderni lo fa con un linguaggio antico, con nozioni improntate alla tradizione greco-cristiana). Basta pensare al primato della contemplazione sull ’azione, dell’eterno sul divenire: tipico esempio di intellettuale aristocratico staccato dai rapporti con la storia, Bruno trascura del tutto il mondo del quotidiano, non si interessa né della tecnica né dell’industria (il che lo pone al di qua di Moro e Campanella), e lo sviluppo della borghesia non gli suscita se non pensieri nefasti sul ruolo del denaro. Cercheremmo invano in Bruno una considerazione della storia come prodotto umano, visto che la prassi è spesso solo una mera agitazione sulla superficie dell’essere (la stessa magia è più teoria che pratica): è dall’eternità che spera possa giungere ciò che il tempo non può fornire, cioè la verità e l’unità riconquistata. L’eternità che non è trascendenza ma abolizione del tempo nell’immanenza dell’uno, nella natura vivente. La natura è infinità e totalmente realizzata in atto, ma non ha storia ed esclude lo sviluppo: così il tempo è solo l’ambito dove si affrontano i destini individuali, ma non quello in cui l’uomo si fa totalmente uomo. A conclusione del saggio, tuttavia, la Védrine è disposta a riconoscere il contributo di Bruno al mondo moderno identificato nella critica agli schemi del passato tesa alla trasformazione delle abitudini di pensiero: di qui passano infatti l’audacia intellettuale e la formazione di nuovi concetti. Quello di Bruno sarebbe così un razionalismo anticipatore la cui essenza consisterebbe in una sorta di esperienza mentale sul possibile: dalla distruzione del cosmo aristotelico egli avrebbe tratto le estreme conseguenze (non a caso più audaci e radicali dei contemporanei, anche se ovviamente prive di controllo sperimentale) sia sul piano fisico che su quello metafisico ed etico.

All’orizzonte interpretativo che si ispira alla Yates può essere ascritto, senza tuttavia dipenderne in modo diretto, anche il lavoro di F. Papi "Antropologia e civiltà nel pensiero di G.B." (La Nuova Italia, Firenze, 1968), che sottolinea fortemente le valenze anticristiane e libertine del pensiero del Nolano. Partendo da un tema apparentemente marginale (ma che fu oggetto di contestazione da parte dell’inquisizione) quale quello della generazione spontanea degli esseri, egli ne evidenzia, insieme alla matrice lucreziana, le implicazioni materialistiche e anticreazioniste che sfociano in una concezione della natura come solo e autentico divino. Nella dilatazione infinita del cosmo copernicano, Bruno risolve il tradizionale problema teologico degli attributi di Dio con la loro identità: nell’infinito infatti non esiste distinzione di gradi. Ma se si razionalizza il modo teologico di porre il problema di Dio in merito ai suoi attributi, si perviene all ’idea di un Dio come unità infinita ed efficiente ab aeterno di un universo fisicamente infinito che è la sua realizzazione. Ereditando e fondendo temi della tradizione averroista e neoplatonica, si concepisce il processo che conduce da Dio all’universo come un’esplicazione nell’identità (identità di potenza ed atto e dei suoi principi, anima e materia). Ne risulta una divinizzazione della natura dove il suo essere coincide con il suo valore: infatti, neutralizzando la concezione cristiana in chiave neoplatonica, Bruno fonda l’infinità non solo come esistenza ma anche come qualità positiva in quanto infinità di luoghi abitabili dall’uomo. Una simile concezione di Dio come necessaria esplicazione nell’infinito naturale è ciò che conferisce valore alla natura che è totalità e quindi unica fonte di conforto e sostegno per l’uomo. Ma ciò significa anche piena fiducia nei mezzi umani di raggiungere la conoscenza totale dell’essere naturale e convinzione che il discorso sulla natura sia il solo discorso possibile su Dio: di conseguenza Bruno decristianizza il problema teologico (sarebbe vano cercare in lui una sostanza separata e trascendente) che viene risolto completamente in quello filosofico. Inoltre l’idea razionale di Dio che si realizza nella totalità della natura fonda anche l’omogeneità dell’infinito con se stesso, un’omogeneità metafisica che è parallela a quella fisica e che rompe non solo con la visione aristotelica ma anche con quella cristiana del mondo in tal modo desacralizzato. Se c’è sinonimia tra Dio e natura, Dio si trova in tutto e ovunque nel senso che Dio-natura è in rapporto diretto con la materia: allora la natura produce tutto dal suo seno, poiché essa è l’artista interiore, il motore che agisce dall’interno. Ma la natura è bene e quindi l’infinito è bene. Respirare, muoversi, amare, vivere: tutto si svolge nella dimensione dell’infinito in cui non c’ è drammaticità, angoscia o frustrazione poiché l’uomo è sempre in rapporto organico con la natura in ogni aspetto della vita quotidiana. Nella dimensione dell’infinito ogni cosa si identifica con le altre e tutte costituiscono la natura dove sussiste nello stesso tempo infinità ed omogeneità dell’uno rispetto ad ogni vivente, senza che si possa dare alcuna gerarchia o graduazione degli esseri che risponda ad un quadro di valori prefissato. Secondo Papi la novità di Bruno consisterebbe proprio in questa visione dell’universo infinito come unità organica e vivente dove ogni essere è manifestazione dell’unità naturale, concrezione temporale destinata a scomparire e a trasformarsi in un altro organismo, secondo una prospettiva teorica in cui si mescolano in varia misura Averroè, Plotino, Ermete, Pitagora, Lucrezio.

Questa prospettiva, dalle marcate implicazioni polemiche in senso antireligioso e libertino, viene confermata dalla credenza di Bruno nei preadamiti, credenza che si riallaccia evidentemente con i temi dell’infinità della natura e della generazione spontanea delle forme all’interno della nuova cosmologia copernicana. Se non esiste tempo e luogo che sia privo di generazione umana, allora questo comporta la fine della dottrina creazionista di matrice biblica e di converso l’adozione della teoria averroista della religione quale verità pratica finalizzata a modificare le condizioni di vita di un popolo mediante l’emanazione di leggi da parte di profeti che, spezzando antiche consuetudini, educano ad una rinnovata forma di comportamento morale e civile. Ma se le credenze religiose sono un elemento costitutivo della vita collettiva, allora la civiltà ebraico cristiana codificata da Agostino viene privata del suo significato spirituale esclusivo: il profeta, quale riformatore religioso, è portatore di messaggi atti ad essere recepiti dalla moltitudine che crede che in lui parli la voce divina. Così il profeta si può avvicinare al mago per il comune intento pratico realizzato mediante l’azione esercitata sull’immaginazione allo scopo di modificare i comportamenti tra gli individui. Ancora: se l’uomo è un essere totalmente naturale, si può comprendere l’idealizzazione della religione egizia che appare a Bruno quale modello positivo di religione mondanizzata e finalizzata al bene comune (ma ciò non significa che ne caldeggi la rinascita, come vuole la Yates), antitetica alle tenebre contemporanee rappresentate dall’oscurantismo cattolico e protestante. Ma il modello agostiniano di storia (e implicitamente la cronologia della storia biblica del mondo) entra in crisi anche quando Bruno prende in considerazione i selvaggi d’America. Essi contesterebbero con la loro esistenza (per Bruno gli uomini nascono in America come in qualunque altra parte per processo spontaneo) e le loro civiltà antichissime l’etnocentrismo ebraico e cristiano il cui modello è respinto dall’alleanza congiunta tra il Nuovo Mondo e la civiltà egizia in favore di una concezione policentrica dell’umanità e della civiltà. In questo modo Bruno partecipa al dibattito assai animato e denso di fermenti all’interno della cultura europea, specie libertina, che, dalla ferocia delle guerre di religione, prende spunto per riflettere su se stessa e per immaginare un mondo in cui gli uomini vivano in confidente rapporto con la natura lontano da leggi, istituzioni, dottrine opprimenti. Tuttavia Papi ha cura di evidenziare la posizione particolare di Bruno. Egli infatti non si limita a identificare i selvaggi con le virtù degli antichi, ma rifiuta il mito dello stato naturale degli uomini in quanto bestiale. Certo l’uomo è un essere naturale, è gettato nel contesto naturale; ma egli non solo è, ma può essere: il suo poter essere è specifico della sua naturalità poiché con l’attività e l’abilità tecnica riesce a modificare le condizioni storiche d’esistenza. Queste considerazioni ci aprono alle tematiche gnoseologiche e antropologiche del pensiero bruniano. Per quanto concerne il primo aspetto, bisogna evidenziare che il conoscere è un processo naturale della vita, la garanzia che l’essere naturale pervenga al suo fine. I diversi livelli di conoscenza (senso, immaginazione, ragione, intelletto) provengono dall’unità metafisica che è identica all’unità di animazione di tutti i viventi, che agisce differentemente nelle specie e nei vari organismi. Bruno vede nella progressione dei gradi uno sviluppo del livello iniziale: il senso è lo stesso intelletto e viceversa. Ma ciò equivale a sostenere che, data la medesima mente che provoca conseguenze diverse negli esseri che si trova a vivificare, il comportamento istintuale e il discorso intellettuale hanno una stessa radice pur assolvendo a funzioni differenti. In sostanza l’unità della natura si traduce nell’unità dei processi gnoseologici. Tutto appartiene allo stesso essere naturale e natura è anche il risultato ultimo dell’ascesi conoscitiva del saggio, che sa modificare il suo stato alterando i suoi vincoli con gli oggetti, mutando l’atteggiamento verso la morte, affermando la sua indifferenza verso i beni materiali. La certezza del conoscere, costituendo una possibilità della ed entro la natura, sta nel fatto che soggetto e oggetto hanno la stessa radice metafisica (come viene espresso nel mito di Atteone). Ciò significa, secondo Bruno, valorizzare la corporeità in quanto pone le condizioni di ciò che può diventare la stessa natura manifestandosi in una qualsiasi complessione fisica. Infatti la superiorità o inferiorità tra gli esseri viventi viene stabilita in base alle possibilità che ciascuna costituzione corporea ha di trasformarsi in strumenti: quanto più largo è l’uso che un essere può fare della propria corporeità, tanto più diverse possono essere le sue operazioni. L’uomo dunque si differenzia dagli altri esseri viventi: la sua eccellenza è il risultato di un processo mediante il quale le operazioni rese possibili dalla sua corporeità hanno potuto accumularsi consentendo il passaggio alla sfera della cultura e spezzando la vicissitudine ciclica del cosmo. Se dunque la cultura deriva con passaggio obbligato dalla corporeità, essa si pone in continuità con la natura nel senso che la complessione corporea dell’uomo dà origine a fenomeni non previsti nel ciclo naturalistico. In questo contesto si può collocare l’importanza che Bruno, con evidente richiamo ad Anassagora attraverso la mediazione di Lucrezio, attribuisce alla mano (peraltro un topos della cultura cinquecentesca): infatti è il possesso di questo meta-strumento che può provocare comportamenti naturali che stabiliscono il passaggio da natura a cultura. Essendo capace di produrre una molteplicità di strumenti, essa determina un rapporto che altera le condizioni di partenza consentendo la moltiplicazione delle tecniche e lo sviluppo della civiltà quale si evidenzia nel quadro che si para davanti agli occhi di Bruno: nuove scoperte geografiche, nascita di nuove ricchezze, sfruttamento della natura, aumento delle invenzioni, organizzazione razionale dello stato. Secondo Papi non c’è contrasto tra la mistica dell’Assoluto e la valorizzazione della vita attiva, dato che vi è una natura immutabile e una natura artificiale, una necessità che non può mai essere superata e una libertà che può continuamente rinascere attraverso la mediazione della conoscenza (che comprende anche la magia, fondata sull’omogeneità strutturale di uomo e natura) e del lavoro. Tuttavia si può notare una tensione, una scissione irrisolta poiché il processo di crescita della civiltà è inscritto nel cerchio della natura che tutto comprende e in cui tutto di dissolve (così come l’uomo è un tutto in relazione a quello che ha costruito, e un niente in relazione all’infinità immutabile del tempo): il mondo umano sembra così subire un processo di innichilimento, virtù e vizio sembrano cadere nell’indifferenza dell’identità. L’uomo non può sfuggire alle condizioni naturali che sono intrinseche al suo seme connesso in natura con gli altri semi del vivente: egli vive la sua avventura naturale tutto risolto nel rapporto che si costituisce tra la necessità che vive in lui e la contingenza che si esplica nella sua vita mondana. L’ordine dell’universo è dunque regolato dalla necessità, ma quest’ordine si riferisce alle vicende naturali e non tocca la civiltà dove trovano luogo la libertà e la dignità dell’uomo. Egli come struttura corporea deve agire poiché così è scritto nel suo seme; ma agisce in connessione con l’intelligenza, cosicché mano e intelligenza sono inseriti nella struttura corporea dell’uomo in modo originale, tale da determinare un mondo nel mondo dove la necessità naturale non è eliminata ma incorporata in una struttura nuova.

L’influenza della Yates (senza per questo risultare esclusiva e monopolizzatrice del senso della ricerca) sembra essere più marcata nel lavoro di A. Ingegno "Cosmologia e filosofia nel pensiero di G.B." (La Nuova Italia, Firenze 1978), che raccoglie diversi saggi dell’autore scritti lungo un decennio. Il tema della rivoluzione astronomica viene colto, al di là degli aspetti tecnici, all’interno di un più ampio contesto culturale, a partire dalla domanda circa gli elementi sui quali Bruno abbia fondato le sue certezze delle ragioni di Copernico. Il fatto che egli presenti in chiave di catastrofe naturale la crisi del sistema aristotelico viene giustificato con la conoscenza della letteratura astrologica in cui è delineato il verificarsi di immani eventi cosmici in relazione alla fase finale in cui è entrato il vecchio mondo (e nello "Spaccio" Bruno mostra di credere al verificarsi di un’immane congiunzione astrale). Dunque in Copernico si compie ciò che è indicato nell’Apocalisse, l’avvento di cieli e terra nuova (che in termini fisici significa eliminazione del geocentrismo, del primo mobile, dell’ultimo cielo): egli è stato un segno divino e Bruno l’unico vero interprete. Le spiegazioni della nuova astronomia, mentre chiariscono la reale portata e natura dei fenomeni, forniscono le prove più sicure che essa rappresenta qualcosa di origine superiore che comporta anche conseguenze morali, poiché comprendere l’operato divino significa come vivere bene. Se seguire Dio è seguire la natura, il distacco dalla visione cristiana non potrebbe essere più profondo: la magia è la sola religione efficace sul piano pratico, e perciò l’unica vera. Ingegno interpreta in questa chiave anticristiana il primo dei dialoghi italiani, dove Bruno si presenterebbe come avente una missione religiosa, dato che distribuisce la vera cena e proprio nel giorno delle ceneri, cioè nel momento iniziale di un’ epoca che segue ad un periodo di corruzione e sconvolgimenti. La sua cena riguarda un futuro che si apre solo se si riconoscono gli errori del passato a cominciare dal contrasto tra divinità e natura. Anche lo "Spaccio della bestia trionfante" è interpretato nel suo significato anticristiano: la bestia è lo stesso cristianesimo, sia cattolico che protestante, di cui Bruno intende attaccare i valori fondamentali rivelando il vero significato di quei testi (Genesi e Apocalisse) di cui a torto le chiese affermano di possedere la chiave ermeneutica. La "Cena" e lo "Spaccio" sono dunque i due dialoghi in cui, sui due piani del vero e del buono, vengono denunciati i guasti prodotti dal cristianesimo (guerre, divisioni ecc.). Risalendo con Copernico alle radici dell’errore, il sapiente è in grado di valutarne le conseguenze nefaste sia filosofiche che politiche e morali. Di conseguenza il copernicanesimo significa per Bruno una religione alternativa, la magia e la capacità di produrre influssi sulla vita civile: ma, appunto, la nuova teologia richiedeva una nuova astronomia e una nuova concezione dell’universo. Da questo punto di vista secondo Ingegno per Bruno sarebbe rilevante non il problema dell’immanenza, quanto piuttosto quello del corretto rapporto tra questa e la trascendenza, pensate in un nesso inscindibile e di complementarietà e realizzato nel momento in cui Dio viene visto come un insieme presente in ogni cosa ma non circoscrivibile in esso, partecipantesi a tutto senza che nulla possa esaurirne la natura e la potenza. Per questo Bruno rivaluta la teologia negativa e la religione degli antichi entrambe consapevoli di questo duplice rapporto, rompendo non solo con l’aristotelismo ma con tutto il cristianesimo e un certo platonismo (quello umanistico di Ficino). Egli non annulla la distinzione tra mondo sensibile e intelligibile, ma la ripropone nel senso che il primo è l’immagine del secondo che a sua volta è verità del primo. Così Dio è legato al mondo e ne è insieme svincolato, è libertà e necessità secondo un nesso inscindibile che pone l’intelligibile all’interno delle manifestazioni sensibili anche se queste ultime non lo esauriscono. Certo non è più possibile separare, come nella vecchia cosmologia, operato divino e operato della natura, anche se poi si verifica la sovrapposizione alla spiegazione fisica dei fenomeni celesti quella della teologia astrale. Essa risulta centrale soprattutto nello "Spaccio" (la struttura dell’opera poggia sulla convinzione che nell’uno-tutto vi sia un nesso tra cicli cosmici e rinnovamento delle credenze religiose), che si propone di purificare, attraverso l’ermetismo, lo zodiaco pagano dalle immagini del vizio identificato con il cristianesimo e il disordine che ha prodotto in Europa. In questa prospettiva Ingegno studia il tema dell’idolatria. Apparentemente Bruno è vicino alle posizioni cattoliche circa l’uso delle immagini anche se il suo è ovviamente diverso in chiave magica. Del resto cattolici e protestanti concordano nel rifiutare l’adorazione di semplici creature che per Bruno sono il segno del legame tra religione ebraica ed egizia (alcuni episodi della storia di Mosè mostrerebbero un chiaro significato magico) in seguito perduto. Peraltro se i protestanti accusano i cattolici di idolatria senza strumenti per sradicarla, ciò significa che non capiscono il valore di utilità morale che le immagini rivestono. Al contrario il carattere operativo (magico) dell’antica religione scaturisce dalla convinzione che la divinità non può essere attinta nella sua essenza mentre l’unico culto possibile è quello che realizza il rapporto con la natura e le forma in cui questo rapporto si realizza. L’idolatra pagana scaturisce dall’impossibilità di giungere al divino direttamente e dalla necessità di trovare il modo con cui esso comunica con la natura. Al contrario la pretesa cristiana di dare vita ad un culto diretto della divinità è già spia della sua incapacità di ottenerne i favori con efficacia: ciò significa che nel cristianesimo c’è idolatria ma senza giustificazione. Sotto questo aspetto i protestanti hanno ragione di evidenziare l’idolatria dei cattolici, ma la loro accusa presuppone proprio quella pretesa (un rapporto immediato con Dio) che è matrice dell’errore. Non vedendo il nesso tra Dio e religione pratica, il cristianesimo ha finito per recidere tale legame attuando un culto della divinità nella sua assolutezza. Perciò i cristiani non solo sono idolatri, ma lo sono imitando e fraintendendo gli egiziani e gli altri pagani che cercavano la divinità in cose vive mentre essi la cercano in cose morte. Secondo Bruno il corretto rapporto tra trascendenza e immanenza definisce anche il senso della magia; di conseguenza lo smarrirsi del primo rapporto (cioè la presenza di Dio nelle cose pur non esaurendosi in esse), verificatosi con Aristotele, porta all’oscurarsi del rapporto tra Dio e natura e quindi alla perdita dell’efficacia pratica della religione. Invece Bruno riconosce alla magia lo stato di autentica religione, poiché è solo attraverso essa che la divinità provvede ai bisogni dell’uomo, dal momento che essa vuole solo ciò che è possibile e naturale. Attraverso Copernico la magia si ricostituisce come "prisca religio" in contrapposizione al cristianesimo: ridando al cosmo la sua vera immagine (e quindi il vero rapporto trascendenza-immanenza), l’astronomo polacco ha mostrato il vero volto della religione antica, incompatibile con la nostra. Certo, la magia è un sapere esoterico per pochi eletti; tuttavia i simboli, mentre celano un contenuto più alto, nello stesso tempo lo rendono accessibile in forma sensibile stabilendo in tal modo una corretta trasmissione del vero. Per questo la religione primitiva è verità originaria, colloquio diretto tra gli uomini e gli dei; al contrario è il cristianesimo a traviare il senso della rivelazione, nel momento stesso in cui ha perduto la chiave interpretativa dei testi sacri (Genesi e Apocalisse soprattutto). Bruno l’ha ritrovata (e non va confusa con la pretesa novità filologica dell’umanesimo, che è pura pedanteria data l’estrinsecità dei suoi criteri), ed ecco il motivo della superiorità della sua filosofia. Essa insegna che gli dei hanno voluto che l’uomo fosse simile a loro, e per tale motivo gli hanno dato la libertà che significa agire e mutare la natura mediante i doni della mano e dell’intelletto. Il mutare la natura è esso stesso un fatto naturale: la struttura che spinge l’uomo ad operare avvicinandosi agli dei lo radica maggiormente nella natura. Ingegno segnala a questo punto la difficoltà che incontra il pensiero di Bruno che mentre rivendica l’importanza del lavoro in vista di una completa naturalizzazione dell’uomo, mantiene fermo il principio del determinismo come traccia inviolabile della divinità. Di qui l’impossibilità di separare l’operare magico da quello della natura e nello stesso tempo la necessità di far rientrare il primo in una sfera che non può essere sostanzialmente modificata. Il sapiente sa di muoversi in una realtà che non gli è estranea, purché sia in grado di vederla nella complessità dei suoi diversi aspetti: infatti il rigore delle leggi di natura non può non investire l’uomo, e l’equilibrio uomo-natura è lo stesso che il rapporto uomo-divinità. In questa prospettiva risulta allora fondamentale la conoscenza: agire è prima di tutto un atto dell’intelletto. Attraverso di esso sarà possibile cogliere il riflesso nell’uomo dell’identità divina di libertà e necessità.

A partire dagli anni Ottanta il paradigma ermeneutico della Yates viene esplicitamente ridimensionato: ridotta a mago, la figura di Bruno risulta deformata, insieme amplificata e contratta. Si fa largo la consapevolezza che ad un mito se ne è sostituito un altro: alla visione laica, scientistica e progressista, si è contrapposta quella magica e religiosa che priva il pensiero bruniano dello sguardo sul futuro. Si è insistito sulla perennità e continuità di una tradizione, ma non si è visto il suo intreccio con altri fattori costitutivi della modernità, il cui nesso con Bruno è apparso offuscato. Beninteso, anche in precedenza si erano levate voci critiche verso un’assunzione troppo disinvolta ed acritica delle tesi della studiosa inglese. Risalgono al periodo ’73-’76 alcuni articoli di P. Rossi (riuniti poi nel volume "Immagini della scienza", Roma 1977) dove, insieme con i meriti, vengono evidenziati i limiti di uno studio, peraltro imprescindibile, come "G.B. e la tradizione ermetica". Il punto centrale del dissenso riguarda "la tendenza a sottolineare esclusivamente gli elementi di continuità fra la tradizione ermetica e la moderna immagine della scienza", tanto da trarre "l’impressione che l’intento della Yates sia quello di ricondurre la seconda fase (meccanicistica) della cosiddetta rivoluzione scientifica alla prima fase (magico-ermetica), e che lo studio delle interazioni fra queste due fasi debba servire a dimostrare che la prima fase non ha avuto, né avrà mai fine". In discussione è dunque lo specifico della modernità di cui la scienza costituisce una delle manifestazioni più notevoli. Su questo argomento negli stessi anni ha scritti pagine di straordinario vigore speculativo H. Blumenberg in "La legittimità dell’epoca moderna" (Marietti, Genova 1992). Secondo il filosofo tedesco "per il Nolano la riforma copernicana è sì compiuta e ha valore di una verità indubitabile; ma essa è ancora rinchiusa nel linguaggio tecnico, per lui inquietante, dell’astronomia matematica, che poteva solo celare la necessità di ripensare radicalmente le premesse dell’esistenza umana e di distruggere il sistema in cui egli si sentiva al sicuro". Di qui la sua contestazione radicale all’incarnazione dato che l’universo postcopernicano non può fornire più alcun luogo designato e alcun substrato eminente per l’atto di salvezza divino: "solo il cosmo infinito stesso può essere la fenomenalità, qualcosa come l’incarnazione della divinità, che per il Nolano era divenuto impossibile pensare come persona" Per questo il paganesimo di Bruno non diventa né ritorno né rinascita degli antichi dei, ma mezzo trasparente attraverso il quale deve essere reso visibile il fondo morale della formazione di figure del divino. Egli vede le figure e gli esseri come possibilità equivalenti nel tempo per continue partecipazioni, in un’ eterna ridistribuzione delle parti attraverso la quale viene compiuto il poter trasformarsi di tutto in tutto. "Nel nuovo modello la divinità non solo porta innumerevoli nomi per una sostanza trascendente soggiacente (..), ma è la divinità che appare in tutte le figure senza divenire completamente una di esse e senza mischiarvisi definitivamente", realizzando una congruenza tra divinità e mondanità. "Se il mondo in quanto creazione esaurisce assolutamente le possibilità del fondamento dell’essere, diventa una contraddizione pensare che la divinità possa aver realizzato una possibilità nuova e peculiarissima dopo la creazione e all’interno di essa, anzi contro di essa. Se il mondo come tale rappresenta già in modo credibile l’autodispendio di Dio, Egli non può essersi fatto ancora una volta evento storico di un’incarnazione nel mondo". Secondo Blumenberg Bruno mostra alla sua epoca che il nuovo punto di vista dell’incommensurabilità otticamente inattesa del mondo degli astri, conseguenza dell’abbandono della visione geocentrica, non doveva necessariamente essere tradotto nella delusione del rimpicciolimento e dell’annientamento dell’uomo di fronte all’universo. Piuttosto questo poteva essere il prezzo per il superamento della coscienza tormentosa della contingenza sperimentata su sè e il mondo in seguito al cristianesimo.

Nel panorama del rinnovamento degli studi bruniani, il contributo più notevole lo ha certamente recato M. Ciliberto a partire da "La ruota del tempo" (Ed. Riuniti, Roma 1986), che lavora sulla base della consapevolezza che interpretare oggi Bruno significhi ricostruirne il pensiero individuandone mutamenti e costanti. Infatti esso è distinto in fortissimi, continui elementi di rielaborazione e autoripensamento, con paradossali ritorni al passato e proiezioni al futuro. La sua filosofia è molto ricca e articolata, non riconducibile a un solo tema o a una sola posizione: per questo è necessario distinguere fasi, momenti e programmi di ricerca per individuarne la pluralità dei quadri teorici elaborati secondo linee di scorrimento distinte da svolte, crisi, fratture, arretramenti che impongono una pluralità di livelli di lettura e di punti di vista. Tra questi Ciliberto sceglie una prospettiva di lettura che privilegia l’ambito etico-politico dell’esperienza inglese, ponendo al centro due archetipi o strutture quali l’asinità e la pedanteria che servono ad illuminare, una volta che se ne siano messe a fuoco costanti e mutamenti, le trasformazioni e le sistemazioni tematiche e concettuali nella mente di Bruno. Se l’asinità è facilmente identificabile con l’ignoranza, più complesso è il discorso riguardante la pedanteria: in generale essa incarna una visione del mondo antitetica ad una concezione positiva e non oziosa del sapere e della vita, che va combattuta perché disintegra la società e l’ordine umano e naturale. Se nel "Candelaio" questa figura sta a significare la degenerazione umanistica, nel periodo inglese essa si identifica fondamentalmente con Lutero: ciò è parallelo alla polemica anticristiana e alla riduzione del cristianesimo a paolinismo e religione riformata con la conseguente persuasione che la pedanteria sia la causa della crisi e della decadenza attuale che invade il mondo e devasta il sapere. Essa diventa quindi la chiave interpretativa della realtà, mentre asinità, pedanteria e cristianesimo si intrecciano nella stessa corrente polemica. Distruggere la pedanteria significa allora veder rinascere la civiltà: perciò la critica alla pedanteria si intreccia con la battaglia copernicana, con la riforma cosmologica e gnoseologica, con la lotta in difesa della sua filosofia dalla critica dei dottori oxoniensi in nome della lettera biblica. Infatti nella figura del pedante si saldano una concezione grammaticale del testo sacro, la visione tolemaica del mondo, una concezione della vita che esalta l’ozio e l’asinità, il rifiuto dei fondamenti della scienza e della società. Ciliberto tende a sottolineare il significato antiriformato della polemica bruniana: il pedante è Lutero che con la sua dottrina distrugge la repubblica seminando odio in nome del vangelo. Se a Parigi Bruno non è ancora interessato alla problematica etico-politica, questa balza in primo piano nel periodo inglese quando vengono abbandonate le tendenze concordatarie tra la Scrittura e la sua filosofia con la scoperta della religione civile (dei Romani) e naturale (degli Egizi) e del nesso tra etica, religione e conoscenza. Nello "Spaccio" si sostiene pertanto la tesi che la migliore religione è quella che, come presso gli antichi, riconosce il valore delle opere umane, il loro significato sociale che rinsalda le repubbliche ed incrementa il pubblico bene. Se dunque il culto divino non ha altro fine che il buon vivere degli uomini, l’asinità si configura come il luogo d’origine, come la ragion d’ essere della pedanteria, in particolare quella riformata (con la Chiesa cattolica, che apprezza e sostiene la dottrina delle opere buone, Bruno ritiene possibili delle convergenze di carattere civile e politico), che trova la sua principale matrice primaria nell’esaltazione della santa ignoranza fatta da S. Paolo e S.Agostino. Ciliberto insiste sulla scansione cronologica del pensiero bruniano: sotto questo aspetto l’opera principale del periodo parigino (tra il 1582 e il 1583), il "De umbris idearum", costituisce una specie di laboratorio dell’intera ricerca del Nolano dove sono presenti tutti i temi destinati ad essere successivamente svolti ed approfonditi. Soprattutto si possono notare i motivi ermetici, che tuttavia si configurano in termini più pacati nella loro valenza anticristiana. Solo successivamente l’interesse si sposta dalla gnoseologia e dalla mnemotecnica verso la cosmologia; ma su questo terreno, nel fuoco della polemica con i teologi di Oxford, viene scoperto anche il nesso tra conoscenza ed etica (significativo che nel "Cantus circaeus" la purificazione morale si costituisca come fattore prepedeutico all’arte della memoria). Ancora: se a Parigi la mano è strumento di violenza e sofferenza di cui gli animali sono sprovvisti, a Londra, nel pieno della disputa antiriformata, essa riveste una funzione positiva quale mezzo di cui l’uomo si serve per costruire la civiltà. Essa è il fondamento del libero arbitrio e perciò opposta all’orecchio che invece è condizione della fede (fides ex auditu, secondo la definizione paolina ed agostiniana). Qui Bruno individua nella religione oziosa (Lutero) ed ascetica (la controriforma cattolica con le sue pratiche devozionali e l’esaltazione dell’imitatio Christi) la causa della decadenza universale delle opere, del sapere, dei costumi a motivo dei suoi effetti nefasti sulla vita sociale. In Francia prevale l’atteggiamento conciliativo, ma in Inghilterra si insiste sulle differenze, sulle distinzioni nei rapporti tra religione e civiltà, tra etica e conoscenza. Anche se i suoi primi scritti (la "Cena" e l’"Epistula valedictoria") sono più un invito alla discussione e al confronto che cerca di evitare la rottura radicale, il fallimento oxoniense, dovuto all’adesione al copernicanesimo (e non per la ripresa dei temi di magia desunti da Ficino, come vuole la Yates) e all’esposizione del suo programma di ricerca del sapere, apre la strada alla scoperta dell’etica quale condizione dello sviluppo della scienza e dell’umanità. L’esame della "Cena", prima opera in volgare pubblicata in Inghilterra, mette in luce la convinzione bruniana di aver scoperto l’antica verità riservata a pochi sapienti. Filosofia e religione hanno autonomia e assolutezza ciascuna nel proprio campo, ma certo non possono conciliarsi (come veniva prospettato nel "De umbris"): la verità è solo della filosofia (la cui ricerca non è più limitata al piano dell’utilità e del verisimile) che perciò si ritira dal campo pratico e civile lasciato alla Scrittura. Caduta la convinzione di un linguaggio universale, tuttavia Bruno non sembra rinunciare al tema dell’unità: ciò significa che da un lato il sapere conserva una funzione civile, e dall’altro che la Scrittura non ha solo un valore pratico. Occorre distinguere, nel discorso su Dio, tra metafora e verità, tenere separati i codici ed i livelli: ma dalla distinzione può riemergere l’unità che attiva una relazione di reciprocità tra legge e verità. Tuttavia secondo Bruno il criterio di differenziazione è costituito dalla natura, senza la cui conoscenza non si può leggere adeguatamente la Scrittura ed intenderne i vari linguaggi. Nella prospettiva aperta da Ciliberto, Bruno da un lato insisterebbe sulla distinzione tra filosofia e religione, dall’altro ne ridefinirebbe il piano d’incontro riproponendo l’unità di linguaggio divino, naturale, umano. Egli svolge l’uno o l’altro argomento a seconda delle prospettive e delle discussioni, che si snodano attraverso gli altri dialoghi metafisici, il "De l’infinito" e il "De la causa".

Secondo Ciliberto si assisterebbe ad una svolta solo con lo "Spaccio" (e con "La cabale del cavallo pegaseo", vera e propria riscrittura ironica dell’"Elogio della follia" come elogio dell’asinità), steso nel contesto dello scontro tra la corona e i puritani di cui Oxford era diventato un centro di propaganda e con i cui dottori Bruno si era scontrato. Qui nel mirino della polemica cade la pedanteria identificata con il cristianesimo paolino di cui Lutero è la massima espressione. Vero angelo del male, egli ha avvelenato il mondo e ne ha sconvolto l’ordine perseguitando e opprimendo: sotto questo aspetto lo "Spaccio" costituirebbe una vera e propria risposta al "De servo arbitrio" di cui rovescia i valori mentre si annuncia il risorgere dell’antica religione con il suo nesso tra Dio, uomo, natura. Cogliendo una significativa sintonia tematica con i "Discorsi" di Machiavelli (opposizione tra ozio e virtù, la religione come principio di mantenimento e sviluppo della civiltà come nel caso della religione eroica e civile dei Romani), Ciliberto mostra come Bruno dissolva la teologia nella religione civile mentre avanza la necessità dell’individuazione di un nuovo principio religioso (il cristianesimo che doveva essere strumento di governo è diventato strumento di corruzione sia dei costume che del sapere) ed etico a fondamento della vita civile e del rapporto con la natura. L’antica unità tra sapere, opere e costumi si è infranta, scienza filosofia e religione si sono separate e corrotte, il mondo è invecchiato. Senza buoni costumi non c’è scienza: perciò restaurare il sapere vuol dire ricostruire la base etico-religiosa del consorzio umano dissolto dai pedanti. Per questo nello "Spaccio" si insiste sull’azione, sul lavoro (la mano), sul merito e sul loro riconoscimento all’interno di un ambito caratterizzato dall’esperienza individuale e dalla sua storia dove mediante il lavoro si cerca di trasformare la Fortuna cieca in Provvidenza (nei dialoghi cosmologici infatti la moralità consisteva nel superamento della visione parziale e casuale della realtà e con la conoscenza dell’ordine naturale in cui la storia si dissolve nell’uguaglianza di tutti i destini), che appunto è frutto di quell’intreccio di merito e fortuna in cui l’uomo trova la propria libertà. In questa prospettiva restaurare la natura significa ristabilire le differenze rispetto all’indistinzione cieca e gratuita. L’ultima parte del lavoro di Ciliberto è dedicata all’esame del problema del linguaggio. Partendo dall’osservazione che Bruno definisce sempre i propri termini distinguendoli dagli analoghi della tradizione aristotelica e dell’uso comune nella consapevolezza della pluralità delle forme espressive, ne viene messa in evidenza anche la disponibilità nei confronti delle altre filosofie la cui validità non è valutata sulla base di criteri pregiudiziali ma dell’unica pietra di paragone che è la natura (Aristotele invece viene accusato di aver falsificato la filosofia degli altri). In particolare nel "De la causa" è evidente l’ammissione della compossibilità di più lessici teorici da decifrare ciascuno nella propria specificità per evitare confusione. Parole, voci ecc. non esauriscono il loro significato nell’ambito di una sola tradizione valida una volta per tutte, ma variano a seconda della filosofia in cui si dispongono. Ma la pluralità dei linguaggi si giustifica in base anche alla differenza dei loro oggetti e quindi delle forme di vita: non c’è corrispondenza univoca tra nomi e oggetti e quindi non esiste un’unica lingua perfetta. Mentre i pedanti e i filologi si fermano alle parole, si può penetrare un pensiero o una filosofia superando i limiti linguistici mediante la focalizzazione dell’attenzione sulle cose piuttosto che sui segni. Del resto anche l’astronomia è una lingua e gli astronomi sono come dei traduttori; sia il libro di Dio sia quello della natura hanno bisogno di chiavi esplicative per poterne penetrare il contenuto. In definitiva la critica del linguaggio in Bruno consiste a) nella critica all’impostazione grammaticale e filologica (e matematica se ci si riferisce all’astronomia) che non penetra nella natura e nei problemi filosofici; b) nella ricerca di un livello di comunicazione in grado di esprimere la molteplicità dei linguaggi dell’uomo, della natura, di Dio, restaurando gli elementi di una nuova unità. E’ proprio la riscoperta dell’antica sapienza che porta alla luce una serie di piani comunicativi e con essi la pluralità (e relatività) dei linguaggi che la nuova filosofia è in grado di esprimere insieme con la varietà della realtà e la ricchezza dell’esperienza. Perciò da essa possono scaturire nuove concezioni etiche, politiche, religiose antitetiche a quelle dei pedanti. Presso gli egizi la comunicazione con gli dei era possibile mediante una lingua sacra, originaria, fondamento della magia e della conoscenza della verità. Oggi la lingua si è corrotta e con essa anche la sapienza: uomini e dei si sono separati e sono incapaci di parlarsi. In questo consiste la crisi della civiltà: corruzione della visione della verità, della concezione della divinità, del sapere e dell’azione umana. Ricostruire l’unità e la comunicazione vuol dire pertanto riscoprire la lingua originaria (delle figure, dei simboli, dei gesti): senza riforma della lingua non c’è renovatio mundi. Ed ecco quindi il sogno di Giordano Bruno: risalire alle radici, alla giovinezza, restaurare l’infinita pluralità dei linguaggi della vita e ricostruire la comunicazione tra Dio, uomini e natura dopo la crisi e la loro separazione.

Dopo questo volume Ciliberto ha proseguito la sua ricerca pubblicando edizioni commentate dei testi bruniani e offrendo un ricco lavoro di sintesi nel suo "Giordano Bruno" (Laterza, Bari 1992) dove riprendendo i temi indicati nello studio precedente, viene ricostruita la complessità della personalità e del pensiero del Nolano (specialmente i suoi rapporti con la "modernità") attraverso un itinerario che ne mostra l’evoluzione sullo sfondo degli ambienti in cui è vissuto e delle problematiche che via via ha dovuto affontare.

Tra gli studi degli ultimi anni si segnala, per ricchezza di informazione ed approfondimento d’analisi, quello di L. Spuit su "Il problema della conoscenza in G.B." (Napoli, Bibliopolis 1988) che intende sondare il pensiero del Nolano sullo sfondo della tradizione gnoseologica, non ermetica, dell’età rinascimentale, comprendente quindi autori platonici e aristotelici. Constatato che dopo il 1585 non si è verificata alcuna rottura nel suo pensiero (concentrato su quattro poli: cosmologia, critica ad Aristotele, organizzazione della conoscenza - con le opere lulliane e mnemotecniche -, magia - vertente sulle possibilità operative dell’uomo), lo studioso olandese evidenzia il nesso indissolubile tra metafisica e gnoseologia, che si prospetta secondo uno schema circolare poiché i fondamenti della conoscenza sono nella struttura della realtà che a sua volta determina le nostre possibilità e capacità conoscitive. In altri termini la struttura ontologica fonda l’epistemologia che nello stesso tempo è parte della struttura medesima. Con Ciliberto, anche Spruit nota il carattere complesso del pensiero bruniano che spesso cerca una soluzione per i probleme tradizionali mediante la radicalizzazione delle dottrine classiche. Nell’ampiezza dei temi affrontati, cambia lo stile (in corrispondenza del contenuto e dell’intendimento) che si serve di una terminologia di grandi sfumature. Infatti Bruno ha consapevolezza della particolarità della sua filosofia rispetto alla tradizione, peraltro da lui sempre liberamente usata, anche se non la considera un punto d’ arrivo definitivo poiché il tempo (analogamente allo spazio nella problemarica cosmologica) non ha un centro; malgrado il suo carattere ciclico, esso non è immutabile poiché conserva la possibilità della crescita. Per questo Bruno non può essere inteso sulla base della sola tradizione dalla quale pure trae ispirazione ma dalla quale contemporaneamente si distacca. Tuttavia Spruit invita a non trascurare le fonti che danno struttura, significato e contenuto alle sue teorie e ai suoi concetti.

Infatti Bruno parte dal presupposto che ogni dottrina possa essere feconda: così egli accetta i principi dell’avversario per poi trarre le proprie conclusioni secondo un metodo di reductio ad absurdum. Si può così affermare che componga le proprie teorie mediante la verifica delle tesi altrui, nella convinzione che le tradizioni, mai escluse a priori, assumano un nuovo significato alla luce delle sue conclusioni (ciò vale anche per quella ermetica il cui valore parodistico contenuto nel "De la causa" non è riconosciuto dalla Yates). Così il Nolano è il primo autore che non sente il bisogno di legittimare la propria filosofia sulla base di autori, scuole e tradizioni accreditate; per questo egli si rivolge non a specialisti ma ad intellettuali di più ampia formazione culturale. La sua è una filosofia aristocratica, esoterica; il suo pensiero è complesso tanto da comprendere necessariamente anche aspetti contraddittori (che quindi non costituiscono un limite da rimproverargli, come fa la Vedrine). Naturalmente la parte più cospicua del lavoro di Spruit è costituita proprio dall’esame del problema della conoscenza e delle sue condizioni ontologiche e psicologiche, che l’autore conduce con estrema acribia collocandolo all’interno di un dibattito in cui intervengono un’ampia gamma di autori (da Tommaso a Ficino, da Pico a Plotino, Pomponazzi ecc.) i cui testi sono riportati e confrontati con alta competenza e finezza d’analisi. Da essa si evince che la filosofia è contemplazione naturale dell’unità dell’universo in cui il filosofo cerca il divino. A conclusione della sua indagine Spruit è disposto a riconoscere in Bruno la permanenza di un aspetto trascendente della divinità, anche se di essa il filosofo non si occupa: metafisicamente Dio e universo sono distinti, mentre la loro unità si pone a livello fisico. Infatti se Dio garantisce l’unità dell’universo non si può identificare con esso: come principio strutturale Dio rimane distinto da ciò che unisce.


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